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“FABRIZIO RUFFO RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI” scritto da Barone Von HELFERT Vol. Terzo (III)

Posted by on Mar 18, 2025

“FABRIZIO RUFFO RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI” scritto da Barone Von HELFERT Vol. Terzo (III)

IL GIORNO DI S. ANTONIO DA PADOVA

Il disinganno della regina in veder mutare destinazione all’armata del Nelson fu tanto più penoso, quanto ella era stata più contenta di riuscire a spingere suo figlio all’impresa, quanto più avea con fiducia sperato ch’egli compiendola si cingesse la fronte d’alloro (381). E oramai la lieta occasione era per entrambi irremissibilmente perduta. Troppo oculata ell’era e troppo conosceva il carattere indipendente e risoluto di Fabrizio Ruffo da non essere persuasa che, dove le circostanze gli paressero favorevoli, ei senza verun rispetto per gli ordini sovrani procederebbe da sé al conseguimento del suo fine (382).

E cosi avvenne. Da tutti i lati giungevano notizie che consigliavano al Ruffo di non più indugiare altrimenti la sua impresa; e la sera dell’11 ne fu fatto il disegno, e preparati gli ordini per i diversi comandanti. A quell’ora Panedigrano dovea trovarsi con i suoi 1000 uomini a sud est del Vesuvio, lo Sciarpa con le schiere del Cilento a Sarno; entrambi furono avvisati di tenersi pronti ad assalire la colonna dello Schipani. Anche lo Tschudv, che il cardinale credeva occupato presso Castellamare, dovea muovere di là contro Torre dell’Annunziata e Torre del Greco. De’suoi proprj soldati il Ruffo compose una colonna scelta— 4 battaglioni di linea, 10 compagnie di cacciatori calabresi, 100 cavalleggieri sotto il tenente Gius, de’ Luca e 4 pezzi di campagna — e sotto gli ordini del Della Schiava e del de’ Filippis la mandò verso Resina, raccomandando loro che si mettessero d’accordo con Panedigrano e Sciarpa. In realtà non si trovavano allora — e non poteva egli saperlo — né lo Tschudy a Castellamare, né lo Sciarpa a Sarno. Per contrario il Cavallo marino del Foote, la Minerva e la Sirena del conte Thurn, con parecchie galee, cannoniere e bombarde, erano in vista ad appoggiare le operazioni. Il cardinale fissò l’azione pel 13 di giugno, giorno sacro a S. Antonio da Padova; all’alba tutti i corpi doveano cominciare l’assalto; primo intendimento — e ne fu avvertito anche il capitano Foote — era quello di sloggiare lo Schipani di fra le due Torri per aprire così la via ai rinforzi che seguivano (383)

Il 12 di giugno trascorse in combattimenti di dubbio esito alle falde del Vesuvio fra Panedigrano e una parte delle forze dello Schipani; il solo profitto della giornata pel Gualtieri fu l’acquisto di alcuni cannonieri, che dalle file de’ repubblicani passarono a quelle de’ regj. Il Thurn e il Foote non presero nessuna parte in quelle fazioni; erano occupati nel fare gli apparecchi per l’assalto del domani. Il comandante di Torre dell’Annunziata fu provveduto di palle, cartucce e polvere, poscia la piccola armata prese posto innanzi al forte del Granatello, su le cui mura splendevano i colori repubblicani e francesi. Il presidio, di circa 200 uomini, avea copia sovrabbondante di munizioni né badava a risparmiarle; manteneva senza posa un vivo fuoco contro le diverse schiere irregolari e male armate de’ regj, che cercavano di fermarsi in Portici e specialmente nel palazzo reale. Quel giorno il Caracciolo tenne le sue navi dal combattimento lontane, sia che non si sentisse capace di misurarsi con la squadra anglo-sicula, sia che, al pari del suo avversario, volesse serbare per l’estremo bisogno tutte le sue forze.

La mattina del 13 di giugno mosse di buon’ora Fabrizio Ruffo col suo esercito principale da Nola verso Portici, e tal mossa fu subito nella capitale avvertita. Un colpo di cannone era il segnale convenuto per i patriotti. In un attimo l’interno di Napoli fu deserto; soltanto dalle squadre armate che si conducevano agl’indicati ritrovi, da pattuglie che esplorando a destra e a sinistra percorrevano le strade, era di quando in quando interrotto il pauroso silenzio che regnava in quella già cosi gaja è romorosa città. Era da aspettare che l’assalto dei regj venisse dal lato del Vesuvio, e a quel lato volsero i patriotti la miglior parte delle forze loro. Il generale Wirtz si mise a capo della schiera che dovea difendere il ponte della Maddalena, mentre il Basset con una piccola mano di soldati ebbe ordine di andare al Borgo di S. Antonio per attendervi il momento opportuno e assalire il fianco destro del Ruffo.

La partenza dei combattenti repubblicani fu segnalata da un atto di raffinata crudeltà ed arbitrario, onde furon vittime i fratelli Bacher, Natale d’Angelo e Ferdinando Larossa. Secondo alcuni, una frotta di gente, cui era impossibile tenere a freno irruppe nelle prigioni del castello Nuovo, ne trasse fuori quegl’infelici e sulla piazza del forte li fucilò; secondo altri, ciò accadde per ordine superiore a fine di spaventare e abbatter l’animo dei regj, e dall’altra parte empir di coraggio e di smania guerresca i repubblicani, come accade ai leoni all’odore del sangue.

Wirtz lasciò una riserva dal lato della città sulla riva destra del Sebeto, e col grosso delle sue forze avanzò sul ponte della Maddalena. Le sue spalle eran difese dalle batterie del castello del Carmine, mentre innanzi a lui il forte Vigliena, situato dirimpetto a Portici, offriva un ottimo punto d’appoggio, e le prossime acque erano dalle cannoniere del Caracciolo coperte. Se il Basset arrivava in tempo, e lo Schipani moveva da Torre del Greco su Portici, i regj si trovavano stretti da tutti i lati.

***

La linea del Ruffo era più estesa che mai; la testa toccava già Santo Jorio, mentre gli ultimi carri del treno sterminato non erano ancor partiti da Nola. Sin dalle prime ore del mattino gran moto agitava Portici e I dintorni. Il Foote e il Thurn notarono dalle loro navi quell’insolito viavai lungo tutta la costa Ano a Castellamare, e ne argomentarono che Tarmata cristiana fosse in marcia; ma di quanti vennero dalla terra ferma a chieder loro soccorso nessuno potò informarli del luogo dove il cardinale in persona si trovasse. Fra Portici, dove il Filippis prese stanza, e il forte del Granatello che ancora in possesso del patriotti dava appoggio allo Schipani, durava un vivo fuoco d artiglieria, al quale anche le navi cominciarono a mischiare il loro, mentre dalle vicine pendici torme di contadini armati scendevano producendo per istrada d’ogni maniera disordini; innanzi a una villa ch’essi presero d’assalto si vide conficcata in cima a un palo la testa d’un patriotta. In quel tempo una palla tirata dalla nave del Foote colpì la bandiera repubblicana sulle mura del Granatello, il cui presidio, uscitone in fretta, si ritrasse in Napoli. I regj vi entrarono, quanti vi trovaron viventi passarono a fil di spada, e fecero sventolare la bandiera reale. Il Filippis si recò a bordo del Cavallo marino, e tenne consiglio col Foote intorno all’assalto del forte Vigliena; secondo l’opinione del colonnello, essendo quel giorno destinato ad investire lo Schipani, dovea l’attacco del forte esser differito al giorno seguente. Frattanto il Filippis e il Della Schiava, inseguendo i patriotti che battevano in ritirata, condussero le loro schiere fino a San Giovanni Teduccio, dove fermatisi aprirono il fuoco contro il ponte della Maddalena. I repubblicani della città risposero, e il Caracciolo prese anch’esso parte alla battaglia, mentre la squadra anglo-sicula, trattenuta da venti contrarj, non poteva avvicinarsi tanto da molestare le navi nemiche.

Quando il cardinale col grosso dell’esercito arrivò a Santo Jorio, vivissimo era il fuoco fra S. Giovanni e il ponte della Maddalena. Francesco Ruffo e il Micheroux salirono sulla terrazza di un alto edificio per osservare col cannocchiale la stato delle cose. Il Ruffo ordinò di fare alto e distribuire i viveri: acqua e vino, pane e cacio, ed ai russi anco le tanto gradite cipolle. Ma poi prima ch’egli desse ordine di partire, — il suo disegno si ristringeva per quel giorno, come s’è detto, alle Torri del Greco e dell’Annunziata — un corpo di cacciatori calabresi, eccitati dal tonar de’ cannoni, mosse a occidente verso il campo di battaglia, altri corpi ne seguirono l’esempio, e infine tutta l’armata cristiana fu in marcia verso San Giovanni, talché anche il Cardinal generale, volere o non volere, bisognò che volgesse da quel lato per prender parte alla fazione. Però ebbe ¡’accorgimento di ordinare al Della Schiava e al De Filippis di tornare addietro a fin di tenere d’occhio lo Schipani fra le due Torri; i carriaggi mandò sotto il comando di suo fratello Francesco alla volta di Portici. In tutti i villaggi traversati dall’armata cristiana sonavano le campane a festa; in S. Giovanni il parroco solennemente in processione col Santissimo Sacramento venne incontro al cardinale, che sceso da cavallo e inginocchiatosi ricevette, egli e i suoi soldati, la benedizione.

In Napoli salve d’artiglieria da Sant’Elmo e dal castello Nuovo annunziavano l’appressar del nemico. Il che doveva senza dùbbio servire anche di segnale allo Schipani, perché entrasse in battaglia; egli però non intese o non volle intender l’invito, e se ne stette tutta la giornata tranquillo. Il Ruffo fece marciare le sue schiere in ordine di battaglia, la cavalleria da’ due lati, nel mezzo i 300 russi e gli 84= turchi in linea distesa perché fossero più facilmente visibili e più numerosi apparissero, sapendo egli quanto rispetto incutessero quelle forze straniere ai repubblicani. In città si raddoppiarono gli sforzi per contrastare all’attacco. Quando la testa dell’armata regia si mosse da S. Giovanni, si trovò bersagliata di palle d’ogni sorta dal forte Vigliena, dalle cannoniere del Caracciolo, da tutti i punti di qua e di là dal ponte della Maddalena, talmente che gli ufficiali russi fecero fare alto e si radunarono in consiglio di guerra. E daccapo tre compagnie di cacciatori calabresi sotto il luogotenente colonnello Rapini, senza averne ricevuto l’ordine avanzarono difilato contro il forte Vigliena, scacciarono a fucilate i difensori dalle mura, salendo l’uno sopra le spalle dell’altro scalarono i bastioni (384), e tanto spavento misero nei repubblicani che molti di questi saltando giù dalle mura più basse sull’arena della spiaggia si salvarono sulle navi più vicine. Già la bandiera tricolore era scomparsa, e in suo luogo sventolava l’insegna reale col segno della croce. Allora dovè apparir manifesto a quell’uomo senza carattere ch’era il Caracciolo, quanto la forza delle circostanze alla causa contrastasse ch’egli aveva all’ultimo momento abbracciata, e quanto il prossimo esercito cristiano potesse più dell’armata gallispana ch’era di là da venire; onde opportunamente pensando a mutar proposito, ordinò alla squadra di tornare addietro e nell’interno del porto la ricondusse. Le cannonate dal forte e dal mare eran restate; e dileguatosi il fumo, i repubblicani della città videro sgomenti che quello era in poter del nemico, questo dalle amiche navi sgombrato.

Il cardinale stava ancora a S. Giovanni a Teduccio, quando un ufficiale gli recò la lieta novella che il forte Vigliena era in mano de’ suoi prodi calabresi. Senza indugio e’ si mise col suo stato maggiore alla testa di una schiera di russi per raggiungere il corpo che era andato innanzi verso il ponte della Maddalena. Come furono presso al forte conquistato, sentirono uno scoppio terribile; si seppe più tardi ch’era scoppiata una mina, e ne erano rimasti vittime tredici calabresi e il prode comandante Rapini (385).

Gli armati sul ponte della Maddalena all’avvicinarsi del pericolo non furon più potuti trattenere. Come un contagio e’attaccò loro la paura e la viltà; quanti si trovavano sulla sinistra riva del Sebeto s’accalcarono sul ponte per fuggire verso Napoli, e tanto scompiglio ne nacque fra le riserve sulla riva destra che anch’esse volsero le spalle. Il generale Wirtz accorse per ricondurre i suoi sul ponte. Già i russi e il colonnello Carbone eran di là sull’entrata di esso; un capitano del calabresi prende il fucile d’un soldato e lo scarica contro il Wirtz; questi mortalmente ferito cade, ed è portato al castello Nuovo. Allora ogni freno di ordine e disciplina scompare. I regj assaltano il ponte; i russi trasportano in cima di esso i loro cannoni, e tempestano di colpi le torme di repubblicani fuggenti, che verso l’entrata della città si affollano e pigiano. Tanto l’ansietà e lo sbigottimento s’impadronirono degli animi, che anche il presidio di Monte Olivete, così lontano dal campo di battaglia, lasciò il suo posto aprendo libera via allo scampo dei parenti del cardinale e di altri prigionieri tenuti in ostaggio, ai quali era stata già minacciata la fucilazione.

Il campo dei repubblicani da’ due lati del Sebeto con tutti i cannoni, carriaggi, armi e munizioni era in potere dei regj. E anche morti e feriti erano in mano loro, giacenti in ispecie fitti presso la città, dove nella stretta della fuga erano la più parte caduti. Due giorni appresso ancora si portavano di là cadaveri al camposanto; fra gli altri, alcuni pongono quello dell’avvocato e scrittore Luigi Serio, già tanto festeggiato in corte; mentre altri sostengono che Luigi Serio scomparve, nò i suoi avanzi mortali più si ritrovarono.

La sera dopo la vittoria il cardinale collocò soltanto i turchi e parte dei cacciatori calabresi sulla destra riva del Sebeto; il ponte della Maddalena era occupato dai russi; il grosso dell’esercito regio rimase di qua dal ponte. Egli in persona stava fra i suoi in una timonella somministratagli dal duca di San Valentino, e di là impartiva i suoi ordini. A dormire quella notte non era da pensarvi neppure, poiché ogni momento poteva sopravvenire qualche cosa di nuovo.

***

I patriotti napoletani facean sempre assegnamento sull’armata gallispana che dovea portare un considerabile rinforzo di milizie da sbarco. È vero ch’essi non nascondevano alla popolazione il pericolo della patria; ma nello stesso tempo s’industriavano con ogni potere di alimentar la fiducia nella buona riuscita. Faceano girare per la città cavalieri con l’incarico di annunziare vittoria e gioja, di assicurare che i nemici erano stati respinti, di esortar tutti a prender le armi per compire la disfatta degli audaci invasori, contadini travestiti da russi e da turchi. Se non che il cerchio nel quale comandavano, andava restringendosi secondo che quello dei realisti s’allargava, i quali aveano già molteplici relazioni con i precursori dell’armata cristiana. Alcuni calabresi a cavallo, chi dalla spiaggia e chi da porta Capuana, s’erano arrischiati a entrare in città, e il loro grido «Viva il re» avea subito trovato favorevole riscontro e da una strada all’altra si propagava. Le finestre s’illuminavano, i terrazzi s’empivano di gente, tanti, che avean passato lunghi ed angosciosi giorni tappati in casa, si precipitavano per le strade, e versando lacrime di gioja levavano le mani al cielo, o, per significare con maggiore effusione i sentimenti dell’animo loro, si prostravano a baciare quella terra che i piedi degli stranieri stavano per liberare.

Le sconfitte schiere dei repubblicani eran fuggite in diverse direzioni, parecchie centinaja di essi verso il centro della città, dove parte nell’edificio degl’Incurabili presso il largo delle Pigne, parte nei locali anche più vasti della Conservazione de’ Grani all’uscita di via Toledo si asserragliavano; altri nei castelli Nuovo e dell’Uovo e nel quartiere di Pizzofalcone presso quest’ultimo. Qualche centinajo di patriotti volevano ricoverarsi in castel Sant’Elmo; ma il Méjean proibì che si aprissero le porte, talché dovettero fermarsi a S. Martino sotto i cannoni della fortezza. Lo stesso governo provvisorio, che non si sentiva oramai più sicuro, trasferì la sua sede nel castello Nuovo, che per un andito sotterraneo col palazzo reale comunicava. Le sue condizioni divenivano ogni momento più gravi, poiché da per tutto lo scoraggiamento cresceva, e specialmente fra coloro che aveano appartenuto all’antico esercito accadevano deserzioni, il cui esempio poteva essere contagioso (386). Nei quartieri sgombrati dalle milizie repubblicane dominava la moltitudine, e cominciava a esercitare terribilmente le sue vendette su’francesi e sugli amici loro, trucidandoli per le strade, penetrando nelle loro case, saccheggiandole e bruciandole. Nel cuor della notte un calabrese accompagnato da due camerati, comparve dinanzi al palazzo del cardinale arcivescovo, volle che gli si consegnasse la bandiera donata a quello dal generale Championnet, e la portò come trofeo al quartier generale del Ruffo (387).

Nello stesso tempo, senza ordine del generale in capo e senza dargli avviso, avanzarono i calabresi di là dal ponte della Maddalena insieme co’ turchi e, occupate alcune case presso il castello del Carmine, questo al sonare della mezzanotte assaltarono e, sfondata la porta, in un momento se ne impadronirono; passarono i difensori a fìl di spada (388), salvo il comandante che essendo straniero e, com’egli diceva, amico della causa del re e personalmente noto al Ruffo, desiderò di esser condotto al quartier generale. Sul ponte della Maddalena e dall’altra parte di esso, per effetto del fuoco, di cui non si sapevano spiegar le cagioni, tutti erano in allarme e pronti al combattimento i soldati, in quella che si vide passare il comandante e si seppe a un tempo della occupazione dell’importante castello. Fabrizio Ruffo mise senza indugio in libertà il prigioniero (389).

Nel campo dei regj si attendeva a quegli ordinamenti che la conquista inaspettata di un nuovo e cosi rilevante punto d’appoggio rendeva necessarj, quando fu vista nel golfo una barca che uscita dalla Darsena procedeva alla volta di Portici. Senza por tempo in mezzo le si dette la caccia e con buon successo. La barca portava un ordine del ministro della guerra allo Schipani, che dalla Torre del Greco venisse innanzi, e presso il palazzo di Portici facesse segnali, perché, appena vedutili, anche dalla città si movesse all’attacco. Nel quartier generale non si cessava di prendere opportuni provvedimenti. L’ispettore dell’esercito, che comandava in Portici e Resina, ebbe da suo fratello l’incarico di raddoppiar la vigilanza dal lato delle due Torri, e prepararsi a un assalto da quella parte. Dal campo del ponte della Maddalena mosse il de’ Sectis con un buon nerbo di soldati del Ruffo, con 125 russi comandati dal tenente Alexander e con due cannoni (390) verso Resina, dove anche Io Schiava e il Filippis doveano mettersi sotto i suoi ordini.

Sull’alba del 14, che era un venerdì, lo Schipani avea cominciato ad avanzare da Torre del Greco. Una parte della cavalleria regia sotto Don Luca gli venne incontro; ma colpito da una fucilata questi dovett’essere ricondotto a Portici, e i suoi soldati si volsero in disordinata fuga verso Resina, dove recarono confusione e scompiglio. Lo Schipani, ch’era in via d’entrar vincitore in Portici, si fermò a un tratto presso il casino della Favorita, incerto come dovesse interpretare i segnali che gli si andavano successivamente facendo da Sant’Elmo. Così guadagnò tempo il de’ Sectis per raccogliere i suoi. Una colonna di cacciatori calabresi fu ordinata dietro Resina sulle pendici del Vesuvio, dove, nelle ville e nelle case coloniche fortificandosi, doveva aspettare l’assalto che i russi eran per muovere dalle strade contro la Favorita. In breve il fuoco fu vivo dalle due parti, e dalle due parti vi furon perdite. Allora il De Sectis scese contro il fianco destro dello Schipani; ma avendo il tenente Alexander spinto innanzi i suoi soldati alla bajonetta, l’esito della giornata fu deciso. I vecchi soldati tra le file dello Schipani, ai quali era stato fatto credere che non avessero da combattere altro che marmaglia e scomposta moltitudine, si videro incontro milizie regolari, e sentendole gridare: Viva il re l’abbassarono le armi. L’esempio loro fu seguito dalla guardia nazionale napoletana. Soltanto i calabresi, fedeli al capo, affrontarono alle falde del Vesuvio i cacciatori compatriotti loro. Ma quando dalla Torre dell’Annunziata Panedigrano con forze superiori si fece innanzi, trovandosi fra due fuochi una parte di essi cadde, un’altra si dette alla fuga. B fece il simile, da pochi seguaci accompagnato, lo Schipani, il quale, giunto alla spiaggia e corsi mille pericoli, fu poi riconosciuto, sebbene travestito, alcuni giorni più tardi in Sorrento, e preso e consegnato al tribunal criminale di Procida (391).

V

CAPITOLAZIONE

Fabrizio Ruffo aveva il 14 di giugno ricevuto per l’appunto la nuova della definitiva vittoria presso Torre del Greco, quando il corriere mandato da Palermo nella seconda metà di maggio, il quale, come abbiam detto di sopra, avea dovuto fare un gran giro per il capo di Spartimento e Leuca e oltre a ciò parecchie fermate durante il viaggio, giunse al ponte della Maddalena e gli consegnò la lettera reale, che gli ingiungeva d’indugiare l’assalto contro la città fino a che l’ammiraglio con la sua armata non fosse alle viste di Napoli. Lasciando stare che quest’ordine del 15 di maggio era stato di gran lunga precorso da quello del 9 o 10 di giugno, non poteva più esser questione di uniformarvisi dopo gli avvenimenti definitivi del giorno precedente e della mattina stessa, e anche a cagione degli orrori a cui la furia dei lazzaroni esponeva le migliori classi della cittadinanza (392). Per contrario il cardinale dovea desiderare il pronto arrivo del re e dei soccorsi inglesi, come quegli ch’era costretto a tenere possibilmente lontana da qualunque attinenza con la plebe di Napoli la maggior parte del suo esercito, cioè gl’irregolari, che pur troppo inclinavano ad aver comuni coi lazzaroni i gusti del saccheggio e della violenza, e d’altronde sopra una parte assai piccola dell’armata cristiana poteva fare assegnamento per mantenere l’ordine e la sicurezza in una città così estesa e popolata come Napoli. Era quindi non meno dall’umanità che da ragioni militari e politiche consigliato di assoggettare quanto più presto era possibile la capitale al potere legittimo. In questo tenore scrisse il cardinale al suo sovrano, e lo stesso giorno pel medesimo corriere mandò la lettera a Palermo (393).

Il giorno 15 di giugno fu destinato alla conquista della città ed all’investimento dei castelli ancora occupati dai repubblicani. A mezzogiorno di Napoli due punti soli erano tuttora in mano dei patrioti; e il capitano Foote, al quale il Thurn somministrò per questo fine tre galee siciliane, si offerì di sottometterli, e di andar poi a Sorrento per imbarcarvi i siciliani comandati dallo Tschudy e condurli a Chiaja, è nello stesso tempo portare cannoni per assediare più efficacemente i castelli.

Sin dalla mattina i diversi corpi dell’esercito cristiano mossero verso il centro della città. Panedigrano doveva occupare la Madonna dei sette dolori, Santa Lucia del Monte e S. Nicola Tolentino, punti che i cannoni di Sant’Elmo non potevano offendere. Il de’ Filippis doveva avanzarsi per Monte Calvario e la Concordia sino a Santa Caterina da Siena per riunirsi a Panedigrano, occupare l’imboccatura del Ritiro di Mondragone e stendersi fino al ponte di Chiaja. Il capitano Baillle, appoggiato dal Carbone, ebbe ordine d impadronirsi della via di Toledo, e procedere verso il castello Nuovo, che intanto il de’ Sectis dovea tener d’occhio. In breve il fuoco fu vivo da per tutto; dalle mura dei castelli tonavano le artiglierie; dalle vigne di S. Martino i patriotti tempestavano di colpi d’ogni. maniera quelle contigue parti della città, dove supponevano le schiere di Panedigrano. Per la seconda volta in un anno, anzi in uno spazio di neppure cinque mesi, alla bella e gaja città toccò sopportare tutti gli spaventi e gli orrori, tutte le calamità e le rovine di una guerra selvaggia! In molti punti la lotta fu accanita. Dallo spedale degl’Incurabili, dove un certo numero di studenti s’era chiuso, le colonne de’ regj furono così aspramente combattute, che dovettero procedere all’assalto; e penetrate dentro, quante persone occorsero al loro primo furore tante ne immolarono. Quelli che non poterono fuggire furono presi prigionieri, specialmente gl’infermi, la cui debolezza di mente fu creduta dai vincitori finzione. Uno dei poveri pazzi, che non sapendo quel che si facesse schiaffeggiò un ufficiale, fu da questo con una sciabolata steso al suolo (394). Alcuni balconi nella via di Toledo erano occupati da gente armata, talvolta anche provvista di piccoli cannoni, talché le colonne del Baillie e del Carbone erano offese da tutte le parti, persino del piombo fuso fu versato su di loro; fra il de’ Filippis intanto e i patriotti di Pizzofalcone e del palazzo nazionale con vicendevole e sempre crescente furore si combatteva.

Mentre così ferveva nella capitale la mischia, giunse nei pressi di quella un drappello di prigionieri della colonna Schipani. Era fra essi il giovine Guglielmo Pepe, che avea servito nel battaglione degli ufficiali, e nell’incontro co’ mille di Panedigrano era stato ferito e poi preso. A lui ed a’ suoi compagni tristi momenti soprastavano. Non altrimenti che se fossero state bestie salvati che, erano argomento della curiosità universale; alle donne che dai contorni accorrevano, fra i dileggi e le beffe da quei mercenarj li mostrarono a dito. Quanto i prigionieri avevano in dosso era lor tolto; non riuscendo a levare abbastanza presto gli stivali da’ piedi del Pepe, uno di quei selvaggi propose che per prenderli più facilmente le gambe si tagliassero. Legati a due a due, scamiciati e scalzi, dovettero quegl’infelici marciare verso Napoli. Via facendo s’imbatterono in altri simili drappelli che faceano compassione a vedere, uomini e donne in miserevole stato; il Pepe ne osservò molti affatto nudi, fra i clamori e gli scherni di quelle sozze torme in cui potere si trovavano. Intanto i patriotti non credevano fossero condotti a Napoli, che si figuravano ancora in possesso de’ loro aderenti; giudicavano passeggiero il trionfo dei «servi del tiranno.» Era loro materia di sodisfazione e di orgoglio il chiamarsi vicendevolmente «cittadini;» pieni e gonfj delle vittorie francesi nell’Italia superiore, delle quali il Monitore napoletano fino agli ultimi giorni avea dato ragguaglio, erano persuasi che la Gallispana, il cui arrivo non poteva tardare, avrebbe in poco d’ora messo termine all’audacia degli avversarj. Intanto, arrivati al ponte della Maddalena, erano provvisoriamente collocati in un locale terreno dirimpetto ai granili. Ivi trovarono una folla di gente di diversa qualità; plebe e cospicui cittadini, ecclesiastici e frati, dotti ed artisti, ufficiali d’ogni grado. Alcuni erano nudi — così racconta il Pepe — altri ancora nei travestimenti che avean presi a fin di sfuggire alla furia del popolo; fra questi ultimi riconobbe un giovane di Catanzaro, Gaetano Rodinò (395), vestito da prete, ma lacero e in lacrimevole stato. Vide anche il dotto frate olivetano P. Cavallo, professore all’università, il reverendo Jerocades, il marchese Borio, il professore di giurisprudenza abate Marino Guarano, il frate scalzo e predicatore repubblicano P. Belloni ed altri. Di tanto in tanto si sentivano di fuori scoppj di fucilate; quei rinchiusi credevano che toccassero a colleghi presi di mezzo a loro, e che simil destino a tutti soprastasse, talché il padre Cavallo, da essi pregatone, impartì loro la suprema benedizione. In fatti di ora in ora venti o trenta eran presi e condotti via, ma non per essere fucilati, sibbene trasferiti nei prossimi Granili; però nel breve tragitto a più d’uno toccava lasciarci la vita, poiché il popolo furente lo strappava dalle file, e con mazze e altr’ arme lo finiva. Quelli che ne uscivano salvi rimanevano ammucchiati sino a nuov’ordine in quei locali ampj, nudi ed inospiti, che fra gli avanzi, di grani e d’ogni maniera immondizie formicolavano d’insetti. La stanza, nella quale fu messo il Pepe, era piena di circa trecento persone, che come lui sulla nuda terra dormivano. E nello stesso tempo soffrivano la fame e la sete, non perché di proposito si volesse a tali tormenti assoggettarli, ma perché al gran numero di prigioni, che da tutte le parti venivano, non si poteva adeguatamente provvedere (396).

***

In questo mentre il capitano Foote aveva disimpegnato fincarico suo per quel giorno assai più facilmente che non s’era aspettato. Il suo solo apparire innanzi ai forti di Castellamare e di Revigliano era bastato per indurre i deboli presidj repubblicani a sottomettersi. Il Foote «per quel sentimento di umanità da cui ogni vero soldato deve farsi guidare» concesse ai francesi libera uscita con gli onori militari; ai napoletani eh eran fra loro, fu dato a scegliere o di rimanere in patria o di andar fuorivia; nel secondo caso potevano mettersi sotto la protezione della bandiera inglese per lasciarsi menare in Francia; nel primo caso era assicurata la protezione della legge alla persona ed ai beni loro mobili ed immobili contro ogni offesa ed eccesso (397). Furono nello stesso giorno presi gli opportuni provvedimenti per imbarcare sulle navi, che stavano all’ancora nella rada di Castellammare, i francesi e i napoletani che volevano andar via e gli averi che desideravano portar seco, per condurli, appena le circostanze lo permettessero, a Tolone o a Marsiglia. Il giorno appresso, 16 di giugno, prese il Foote in nome di Ferdinando IV formale possesso del forte.

Nel medesimo tempo Fabrizio Ruffo fece portare dalla strada del Piliero, che corre lungo la marina, e dalla piazza di Porto cannoni contro il castello Nuovo. Dal Molo facean fuoco i russi. Nella strada Medina presso S. Giuseppe si faceano apparecchi per collocare un’altra batteria. Contro il castello dell’Uovo era messa all’estremità della Villa reale nna batteria, ch’eran deputati a servire i cacciatori calabresi sotto Papasodaro e il reggimento Tschudy recentemente arrivato. Mentre si facevano questi ordinamenti guerreschi, il comandante in capo tentava la via degli accordi. Il cavaliere Micheroux si recò per commissione del Ruffo dal comandante del castello Nuovo, Oronzio Massa, a proporgli onorevoli condizioni simili a quelle che il capitano Foote avea fatte ai due altri forti del golfo: ai francesi l’uscita libera con gli onori militari e il trasporto delle persone, dei parenti e dei beni loro in Francia a spesa del re Ferdinando; ai nativi libera scelta fra il rimanere o ilriunirsi ai francesi portando seco gli averi loro, l’una e l’altra cosa però a loro spese. Oronzio Massa, leccese di nascita, e ufficiale di artiglieria, già stato al servizio del re, non credette di dovere accogliere le proposte del cavaliere Micheroux; egli, del pari che tutti gli altri della sua parte, facevano più che mai assegnamento sull’arrivo della Gallispana. Se non che appunto per questo gli parve opportuno una sospensione di ostilità, e perciò chiese due giorni di riflessione. Ma nel campo de’ regj le cose andavano per l’appunto all’opposto; al cardinale importava moltissimo di menare prontamente a termine le pratiche; egli concesse al Massa soltanto due ore, scorse le quali aprirebbe il fuoco. Anche col presidio del castello dell’Uovo il Ruffo appiccò trattato; se non che gli fu prontamente risposto, che né francesi né patriotti intendevano sottomettersi a un uomo vestito d’abiti ecclesiastici.

Questa objezione però non poteva reggere per rispetto al capitano Foote che in quel momento entrava nel golfo. Egli aveva lasciato a Castellamare la Sirena, sotto la cui protezione dovevano anche venir via le cannoniere e bombarde che si trovavano in quella rada, e col Cavallo marino e col Perseo facea vela alla volta di Posillipo, quando seppe degli apparecchi che si facevano nella spiaggia per attaccare i castelli. Mandò un ufficiale al ponte della Maddalena, il quale tornò dicendo da parte del cardinale, che il Foote dovesse spiegare dirimpetto al castello dell’Uovo la bandiera inglese, perché cosi forse il presidio inclinerebbe a intavolare le trattative. Intanto il termine di due ore accordato al Massa era trascorso; ed ecco sulle mura del castello Nuovo apparire una bandiera bianca, e un parlamentario presentarsi al quartier generale de’ regj, e proporre in nome del suo generale, che le ostilità fossero dall’una e dall’altra parte sospese, fino a che il co’ mandante del castello potesse mettersi d’accordo col comandante francese di Sant’Elmo, da’ cui ordini egli e il suo presidio dipendevano; e perciò domandava un salvacondotto per andare da un forte all’altro. A tali condizioni il Ruffo fu anche meno disposto a consentire, e fece aprire il fuoco contro al castello Nuovo, mentre il Foote si disponeva ad attaccare quello dell’Uovo.

Tuttavia sì fatti tentativi di terminare pacificamente la lotta non rimasero interamente inefficaci. Se anche nei giorni precedenti non eran mancati ufficiali che domandavano di essere accolti nel quartier generale del Ruffo, simili deserzioni dalla causa repubblicana diventarono poi sempre più frequenti, tanto che il cardinale si vide costretto a fissare a tal proposito delle norme. Erano per la più parte ufficiali dell’antico esercito regio, i quali chiedevano di servire sotto le bandiere del re come volontarj. Né c’era da ridir nulla in contrario, se la condotta da loro tenuta nel frattempo non meritava biasimo; ma se essi erano stati al servizio e allo stipendio della repubblica, il Ruffo non solamente li respingeva, ma dava ordini severi che dovessero una volta per sempre spogliar la divisa a cui erano stati infedeli (398).

I lavori nella villa di Chiaja durarono tutto il 16. Verso sera lo Tschudy condusse il suo reggimento nella grotta di Posillipo, lasciando soltanto Papasodaro co’ cacciatori presso la batteria non ancora finita. La qual cosa fu notata in Sant’Elmo, e dette occasione a ordire un colpo di mano. Mentre i patriotti aveano ordine di fare un vivo fuoco da S. Martino per tenere attento Panedigrano e di mandare un drappello con alto suono di tamburi nel quartiere dell’Infrascata, una forte colonna di francesi mosse chetamente pel Petraro, per S. Maria Apparente e pel vico del Vasto verso la piazza dello stesso nome. Ivi una parte rimase di guardia; il grosso della colonna marciò verso il largo della Vittoria, mentre nello stesso tempo, a un segnale dato da Sant’Elmo, il presidio del castello dell’Uovo faceva una sortita, e dalla lingua di terra che unisce il forte al continente piegava nella via del Chiatamone. A un tratto i soldati di Papasodaro si videro assaliti dalle due parti, e presi da timor panico cercarono lo scampo nella fuga; circa trenta caddero sotto i colpi degli assalitori, i quali poi inchiodarono i cannoni, saccheggiarono i luoghi vicini, devastarono compiutamente il caffè di Carlo Busto. Il proprietario con la moglie si salvò rifugiandosi nella cantina.

Il lieto successo dei repubblicani non ebbe però lunga durata. Poiché in quel mentre il De Filippis, che stava presso S. Maria degli Angeli, s’era chetamente, passando per l’Egiziaca, appressato al quartiere di Pizzofalcone, dove gli riuscì di sorprendere un posto con due cannoni. La qual cosa mise tanto spavento nel presidio, che tutti si precipitarono verso il Chiatamone e di lì sulla lingua di terra che mena al castello dell’Uovo. Il Filippis senza por tempo in mezzo occupò Pizzofalcone, e tagliò in tal maniera ogni comunicazione del castello con la terra ferma e con la Darsena.

Il 17 sul far del giorno cominciò di nuovo il fuoco da tutti i punti occupati dai regj e dai repubblicani, e dalla parte dei primi assai più vivo e gagliardo di quello del giorno innanzi. Contro il castello Nuovo operava già da S. Giuseppe la terza batteria; in breve le mura del castello mostravano danni rilevanti; i colpi d’una batteria russa presso il Molo misero il fuoco a un edifìcio attiguo alla porta, ed essendo vicino il magazzino delle polveri, regnò nell’interno del castello la massima confusione finché non riuscì di spengere il fuoco. Ma quando poi il cardinale si apparecchiò all’assalto e per dare maggiormente nell’occhio fece portare una gran quantità di scale, cadde del tutto l’animo dei difensori, fu alzata la bandiera bianca, e il Micheroux ebbe dal Ruffo l’incarico di entrare (n trattato col Méjean. Il vescovo di Avellino, l’arcivescovo De Dillon di Salerno, il maresciallo Micheroux ed altri si trovavano sempre come ostaggi nelle mani dei patriota; e però il rappresentante del Ruffo inclinava a fare le più larghe concessioni a fine di salvare da più trista sorte suo cugino. Ma il Méjean accampò una così impudente pretesa di danaro, che il cardinale troncò le pratiche, e intimò la resa del castello nel termine di 24 ore.

***

Il cardinale Fabrizio Ruffo si trovava in difficili e pericolose condizioni. Nei diversi partiti che avea dovuto fin allora prendere secondo le diverse vicende dell’ardita sua impresa, chiaramente gli erano sempre apparsi e il fine a cui doveva mirare e i mezzi e le vie che a quel fine potevano condurre. Ma adesso stavano altrimenti le cose. Il fine di certo non poteva essere altro che quello di domare compiutamente la ribellione e sottomettere la capitale all’autorità del legittimo sovrano; ma in che maniera? sotto qual forma? in quanto tempo?

Nel mandato generale conferitogli dal re gli era ingiunto di non dare passi importanti senza prima chiedere l’approvazione reale, salvo che le circostanze non lo impedissero. Non cadeva forse il caso presente in tale eccezione? Fra la domanda e la risposta da Palermo non potean correre meno di cinque o sei giorni; ma poteva anco accadere che ne corresse il doppio; e in questo mentre più di una buona occasione poteva andar perduta. La sera del 17 di giugno il capitano Foote, che con la sua nave incrociava presso Posillipo (399), ebbe per mezzo del conte Thurn e del governatore di Procida la notizia che l’armata del suo ammiraglio aveva pel momento cambiato di destinazione, e mentre stava già in via per Napoli, s’era a un tratto fermata ed avea volto a occidente. Che altro poteva argomentarsene, se non che al Nelson fossero giunte novelle dell’armata nemica, le quali gli consigliassero di provvedere alla sicurezza della Sicilia, ovvero di andare incontro al nemico? Non potevano forse i ribelli essere meglio informati intorno a ciò? Non era forse pervenuta loro notizia del prossimo arrivo dell’armata gallispana? La ostinata resistenza dei castelli faceva credere qualche cosa di simile!… Pel capitano Foote la questione della gallispana era di molto maggior momento che pel cardinale. Il Ruffo poteva, all’apparire d’una minacciosa forza navale nel golfo, ritirarsi nei suoi monti, fra’ suoi fedeli calabresi, dove l’avversario non lo poteva raggiungere; il Foote e il Thurn per contrario, con le loro poche navi e di grado inferiore, correvano rischio di essere, per la superiorità delle forze nemiche, o tagliati fuori o distrutti o catturati, e tanto maggiore diveniva il rischio se la grande armata, a cui appartenevano, si fosse trovata in cattive condizioni e le fossero toccati dei danni (400).

Se in simile congiuntura era prescritto il non lasciar passare il momento che poteva condurre a una definitiva conclusione, fino a che punto conveniva di mostrarsi pieghevole verso il soccombente nemico? Il capitano Foote aveva offerto assai favorevoli condizioni ai difensori di Revigliano e di Castellamare, e il simile avea fatto Antonio Micheroux con quelli del castello Nuovo e castel dell’Uovo. Colà era accaduta la resa alla prima intimazione; e qui si era voluto e sperato di ottenere la medesima cosa. Se non che pareva oramai che nei castelli il dispetto prevalesse sul pentimento; non eran più. traviati, ma ribelli che nel loro errore perfidiavano. Bisognava egli usare tuttavia indulgenza verso di loro, se alla fine si umiliassero? Senza dubbio il re e la regina avevano significato al cardinale la speranza, che potesse riuscire di ricondurre all’obbedienza la città senza spargimento di sangue, senza danni e rovine, senza vicendevole infuriare delle fazioni. Ma gli era stato anche detto e le mille volte ripetuto di non usar clemenza a coloro che fossero per durare nella resistenza; che coloro, i quali non meritassero per gravi colpe una pena severa, dovessero uscir dal regno per sempre; agli altri dovessero essere sequestrati i beni.

C’era un altro particolar motivo che consigliava il Ruffo a condurre a qualunque costo le cose a termine, n popolo napoletano — così dice il Cuoco — è per la sua indole buono; ma caldo come il clima nel quale vive, e facile alle commozioni, rassomiglia nell’irrompere delle sue passioni al Vesuvio. E tale egli apparve nei giorni che seguirono alla vittoria sul ponte della Maddalena, quando i lazzaroni credettero alla fine di potere sfogar la vendetta che sin dalle terribili giornate di gennajo ribolliva loro nell’animo. Per porre un termine alle arbitrarie e infinite carcerazioni il cardinale avea proibito ai direttori delle prigioni di accoglier gente senza suo ordine. Ma questo provvedimento ebbe effetto diverso da quello che il Ruffo desiderava; poiché il popolo, che non voleva esser privato della sua preda, dava, innanzi alla porta delle carceri, addosso ai nemici e gli ammazzava, dopo averli talvolta assoggettati ai più atroci tormenti. Nei luoghi dove non erano soldati accaddero fatti terribili. La plebe era instancabile nel braccare i supposti giacobini, e trovatili, esercitava su loro le più orribili vendette. Avevano i lazzaroni innanzi tutto preso di mira i magazzini municipali delle granaglie, dove i patriotti scacciati dal ponte della Maddalena s’erano in grandissimo numero rifugiati; e volevano appiccarvi il fuoco, il che avrebbe avuto conseguenze spaventevoli. In alcuni punti avean rizzato roghi nei quali non poche vittime del loro furore tuttor viventi gettarono; si racconta che vi siano stati mostri che si vantarono di aver gustato carne umana arrostita. A una cantonata, dove un friggitore teneva la sua caldaja piena d’olio bollente, un uomo voleva comprar qualche cosa da mangiare; riconosciuto per un giacobino o creduto tale, forse perché portava i capelli alla foggia de’ repubblicani, fu preso dalla folla e messo con la testa nell’olio bollente e tenutovi dentro finché morì; e, come vuol far credere un contemporaneo, seguitarono a mangiare di ciò che si trovava nella orribil caldaja (401). Si era sparsa la voce avere i repubblicani giurato che ucciderebbero tutti i lazzaroni; e i fanciulli solamente, al contrario di ciò che avvenne a Betlemme, conserverebbero in vita a fin di tirarli su senza religione; dunque la moltitudine, penetrando nelle case, se s’imbatteva in qualche cosa che paresse confermare tale sciocca dicerìa, una fune, una corda e simili, senza pietà tutti uccideva e straziava. Si disse poi che i giacobini portavano segnato a fuoco sulla spalla l’albero della libertà; e allora si cominciò a spogliare in mezzo di strada le persone meglio vestite, così uomini come donne, per ricercare se avessero quella impronta traditrice. E tanto gusto prese il popolo a tale opera, che strappando dal letto le donne dell’alta classe, le facea correre, appena coperte d’un lenzuolo, per le strade della città, e nude affatto, come la dea della ragione a Parigi, le metteva alla berlina (402). Era cosa da stringere il cuore a vedere un drappello di prigionieri, di ogni sesso ed età, strappati loro gli abiti, alcuni con la camicia brutta di sangue, procedere nella lor trista via continuamente minacciati di essere uccisi, impiccati, messi in pezzi, e assaltati con pietre, e coperti di mota, e fatti segno a tali maltrattamenti, che più d’uno gravemente ferito o morto cadeva in mezzo di strada. I miseri patriotti ricorrevano a espedienti d’ogni maniera per isfuggire a’ lor persecutori. Sul capo pelato, segno del giacobinismo (403), mettevano capelli artificiali, e si travestivano da abati e da eremiti, con la chierica e la corona. Ma questo mezzo divenne in breve inefficace; anzi ne seguì che alla fine i veri preti e frati, per non essere creduti giacobini travestiti, non si arrischiavano a uscire; e il popolo strappava i falsi capelli, e appiccatili In segno di trionfo a un fanale o in cima a un bastone, sugl’infelici che li portavano sfogava la sua ira feroce (404). Alcuni perseguitati indossarono vesti femminili; altri si rimpiattarono nelle cloache, donde spinti dalla fame ad uscire eran presi da coloro che stavano in agguato e che li toglievano per sempre dalla necessità di cercar nutrimento.

Fabrizio Ruffo fece quanto stava in suo potere per porre un termine a tanti orrori (405). A fin di evitare che accadesse peggio lasciò chiudere nei granili reali coloro ch’erano stati dalla plebe cacciati verso il ponte della Maddalena, promettendo loro, se non erano stati presi con le armi alla mano, che alla prima favorevole occasione li rimetterebbe in libertà. Ma per ciò che nell’interno della città succedeva, egli aveva le mani legate. Le sue milizie regolari erano occupate in combattere da per tutto, e mandare le sue irregolari nei luoghi dove la plebe aveva il sopravvento era, secondo la sua convinzione pur troppo fondata, un rimedio peggiore del male. La sola cosa che potò fare fu di pubblicare un proclama, nel quale «sotto le più gravi pene da estendersi anche alla pena di morte» proibiva qualunque violenza contro coloro non eran presi con le armi alla mano o in atto di resistere e di recare ingiuria, quando pure avessero fatto cose simili per l’addietro. Parimente ingiungeva che, se un parlamentario apparisse, tutti gli armati dovessero fargli largo e astenersi dall’offenderlo: «con tale contegno» egli diceva «mostrerete il vostro amore al sovrano e promoverete il bene della patria meglio che facendo co’ vostri eccessi di questo bel paese un deserto» (406). Simili esortazioni diede il vicario generale alla Giunta di Stato, che egli pose sotto la presidenza del marchese Gregorio Bisogni, caporuota di Santa Chiara; vi teneva ufficio di fiscale il consigliere Matteo La Fragola; ne erano giudici Bernardo Navarro, Ant. della Rossa, Angelo di Fiore; segretario con voto Carlo Pedicini, giudice alla Vicaria. Da tutti gli atti del Ruffo appariva manifesto il proposito di evitare lo spargimento del sangue. E’non volle che agli assassini, che avevano avuto incarico d’ucciderlo, fosse fatto processo, e profittò della prima occasione per rilasciarli liberi (407). Non fece però il simile verso tutti i ribelli. I più dei colpevoli meritavano punizione, massimamente quando non si mostravano pentiti e desiderosi di correggersi, come quel repubblicano che fino all’ultimo momento rifiutò i conforti della religione, e stando sotto le forche non parve darsi premura d’altro che di sapere «se si vedeva apparire la Gallispana» (408).

Già il quartier generale del Ruffo presso il ponte della Maddalena era il punto, al quale accorrevano tutti quelli che desideravano il ripristinamento dell’ordine. Mentre ancora ferveva la mischia nelle strade, si trovavano colà presso di lui molti notevoli personaggi dell’antico governo, fra i quali i luogotenenti generali duca della Salandra e principe della Ripa, a cui il Ruffb commise il riordinamento dell’esercito reale, e il marchese Saverio Simonetti, col quale conferì intorno la formazione d’un ministero provvisorio. Il Simonetti vi doveva reggere la grazia e giustizia e i culti, Giuseppe Zurlo le finanze, Nicola Vivenzio la casa reale, Francesco Ruffo la guerra e la marina; a prestar servizio presso la sua propria persona il cardinale elesse Felice Amati e Gius. Clari.

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Il capitano Foote, appena ricevuto dal Thurn e dal de’ Curtís l’avviso che il Nelson avea lasciato le acque di Maritimo, mandò il capitano Oswald del Perseo a Fabrizio Ruffo per fargli sapere, che gli sembrava cosa necessaria ed urgente l’impossessarsi dei castelli «quando anche si dovessero a tal fine concedere condizioni vantaggiose.» E poiché tal era pure pe’già detti motivi l’opinione del cardinale, fu concordato che il Foote dovesse la mattina seguente fare un nuovo tentativo per indurre i comandanti dei castelli Nuovo e dell’Uovo a spontaneamente sgombrarli, promettendo ad essi e al presidio tutte quelle concessioni che fossero compatibili con le circostanze.

Con questo intendimento la mattina del 18 di giugno si recò il capitano Oswald da prima al castello dell’Uovo, al cui comandante portò una lettera del Foote. L’effetto non fu quale si sperava. L’ufficiale nemico, eh e era un francese, non volle rispondere per iscritto, e si contentò di dire in tono declamatorio all’Oswald: «Noi vogliamo la repubblica una ed indivisibile e per essa morremo! Questa ò la nostra risposta; e voi, cittadino, badate a ritirarvi il più presto che potete» (409). Riferita dall’Oswald sì fatta risposta al Foote, questi non giudicò opportuno l’esporsi anche nel castello Nuovo a simile successo, e deliberò di procedere d’accordo col cardinale a risoluto provvedimento. Secondo i consigli del Ruffo si doveva non solamente fare ogni sforzo per prendere i due castelli occupati per la massima parte dai patriotti, ma muovere nello stesso tempo anche all’assalto di Sant’Elmo. A questo fine il Ruffo chiese agl’inglesi di aggiungere a’ due ch’egli possedeva due altri mortaj e alcuni cannoni di grosso calibro con le relative munizioni; il Foote promise di procurarglieli da Castellamare, e in fatti anche prima di sera mantenne la promessa. Prima di tutto doveva essere attaccato il castello dell’Uovo, poiché ivi, come l’esperienza aveva fin allora dimostrato, era la sede della maggior resistenza a qualunque componimento. Il Ruffo dispose 200 soldati stranieri e 500 dei suoi irregolari lungo Chiaja; questi ultimi, poco inclinati a tale specie di combattimento, furono distribuiti per. le case, acciò che non fossero scopertamente esposti al fuoco nemico. La città doveva per ordine del generale essere sul far della notte in tutti i quartieri illuminata. Il capitano Oswald si collocò col Perseo innanzi al castello, e cominciò il bombardamento che continuò tutta la notte. Una sortita, che fecero i francesi da Sant’Elmo, fu dalle milizie del Ruffo respinta con gravi perdite de’ nemici (410).

Il castello Nuovo aveva in quel tempo cessata ogni resistenza. Nella notte del 18 al 19 di giugno, comparvero a quel che sembra due parlamentarj presso il Micheroux, e gli chiesero licenza e scorta sicura per condursi a Sant’Elmo. Il cavaliere in tal congiuntura rappresentò due parti, una come rappresentante del re, un’altra come plenipotenziario dei russi, ai quali sin da Corfù s’era accompagnato e prestava i suoi servigi tutte le volte che c’era qualche cosa da fare in via diplomatica. E così potette in un certo modo condurre con indipendenza quel trattato, e non solo accettò senza indugiol’offerta del castello Nuovo, ma ordinò pure a tutti i corpi da Chiaja al Carmine di cessare immediatamente le ostilità, e di tutto ciò dette poi avviso al quartier generale. Il Ruffo ricevette la comunicazione il mattino del 19, e a prima giunta ne fu alquanto maravigliato e dispiacente, come quegli che temeva non avessero i patriotti a valersi dell’intervallo per mettere in assetto le nuove opere di difesa e prepararsi a una efficace resistenza (411).

Anche meno contento di tali novità fu i) Foote, tanto più che gli si chiese di sospendere le ostilità. Egli domandò, come alleato, di esser messo a cognizione di tutto ciò che accadeva, e avendolo il cardinale pregato che si rivolgesse al Micheroux, gli mandò dicendo: ch’egli non conosceva il cavalier Micheroux, ma conosceva soltanto il plenipotenziario di S. M. Siciliana, e questo era il cardinale; e che avrebbe continuato a bombardare il castello dell’Uovo, che non aveva alzato la bandiera bianca. La condotta dal Ruffo fu anche determinata da un’altra circostanza. La sospensione avvenuta nelle operazioni guerresche e la più facile comunicazione col di fuori per effetto di quella, furono adoperate da parecchi, che ne’ due castelli eran rinchiusi, sì francesi come italiani, per guadagnare il largo. Saputo questo, il cardinale fece collocare i suoi ufficiali intorno ai castelli, affinché accogliessero i fuggenti e promettessero loro perdono ed oblio. Del qual provvedimento ebbe a lodarsi; poiché quanta più gente usciva dai castelli, tanto meno i rimanenti erano capaci di resistere. E questa circostanza egli fece notare al Foote, il quale, avendo sempre innanzi agli occhi l’arrivo dell’armata gallispana, giudicava che convenisse, attaccando senza indugio, «non lasciare al nemico il tempo di respirare.» In fatti ricominciò il Foote a tirare sul castello dell’Uovo; il che senza dubbio contribuì molto a portare più presto a maturità il frutto delle precedenti trattative.

Né passò molto tempo prima che il Micheroux, così presso il cardinale come presso il Foote, apparisse pienamente giustificato. Non solamente fu manifesto che la offerta del castello Nuovo non era stato un inganno, ma anche nel castello dell’Uovo accadeva un movimento di simil qualità. La novella dell’aspro rifiuto incontratovi dal messaggiero di pace del capitano inglese, sparsasi fra il presidio, vi eccitò tale alterazione di animi, che al comandante francese dovette esserne sostituito un altro indigeno, per nome l’Aurora, il quale non indugiò a far alzare la bandiera bianca. Né anche allora però il Foote volle smettere il fuoco, non tanto per vincere la resistenza dei ribelli quanto per sollecitare la conclusione delle pratiche (412). Il cardinale, il quale di fronte al forte seguiva la politica di mettere innanzi i russi come se tutto dipendesse da loro (413), desiderava non meno di lui la sollecita conclusione del trattato; ed era come lui per gli stessi motivi persuaso che si dovessero fare ai ribelli assai maggiori concessioni che non intendesse la corte di Palermo. Si trovavano entrambi in condizioni sommamente penose, e n’era cagione l’essere affatto al bujo di ciò che avveniva fuorivia.

Anche fra i patriotti non si sapeva in che termini si fosse; sull’arrivo della Gallispana già sorgevano gravi dubbj. Tuttavia non volevano alcuni sentir parlare di accordi col cardinale. Quando nel direttorio venne in discussione l’affare del castello Nuovo, sembra che il Manthoné proponesse di raccogliere i presidj dei tre castelli, di uscir fuori nottetempo, di liberare ed armare tutti i patriotti che si trovavano prigionieri nei granili municipali e reali, e con essi muovere verso Capua e Gaeta, e afforzati da quei presidj e dagli altri di Roma, Civitavecchia e altre città fermarsi sul territorio romano e aspettarvi occasioni più favorevoli (414). Sembra però pure che il Manthoné rimanesse solo a sostenere tal proposta; i più parvero desiderosi di uscire, salvando la pelle, dal gineprajo in cui a’ erano cacciati. La prima cosa, dopo che si fu d’accordo sulla pace, chiesero una tregua di quattro giorni per assodare e formulare i patti della capitolazione. Il Foote era contrario, finché il Ruffo gli fece mutar proposito rappresentandogli che si guadagnava con quell’indugio il tempo per mettere in assetto le batterie e in ordine di difesa le cannoniere, per il caso che all’armata inglese toccasse qualche disgrazia, o che una porzione dell’armata nemica apparisse. Alla parte avversa però il cardinale tenne un altro linguaggio; subordinò la concessione della tregua al patto che fossero prima sgombrati e fatti occupare alle sue milizie alcuni punti di gran rilievo per dominare le fortezze e i dintorni loro; il Fondo, la Posta, S. Ferdinando, Santo Spirito, S. Luigi di Palazzo; e nel caso che la resa non seguisse, non si potessero riprendere le ostilità senza darne avviso ventiquattr’ore prima.

L’ufficiale mandato dal Foote al ponte della Maddalena, Fabrizio Ruffo lo rimandò al Micheroux pregandolo che sollecitasse di fissare il proposto ritrovo. Il Méjean non si mostrò troppo difficile in punti che riguardavano i due castelli non occupati da’ suoi francesi; talché l’accordo potette esser compiuto nel corso del 19. I termini ne erano nella parte principale i seguenti: i castelli Nuovo e dell’Uovo saranno consegnati ai regj con tutto il materiale di guerra, le munizioni ed i viveri; i presidj di entrambi usciranno con tutti gli onori militari, a bandiere spiegate, a suono di tamburi e con micce accese a’ due cannoni che sarà lor concesso di portar via, e solamente sulla spiaggia deporranno le armi; il presidio e tutti coloro che si trovano nei castelli e che vogliano accompagnarsi ad esso, avranno facoltà di recarsi in Francia; i presidj stessi occuperanno i due forti, fino a che le navi saran pronte a far vela per Tolone; le persone e gli averi di quanti si trovano nelle due fortezze saranno custoditi e difesi; l’arcivescovo di Salerno, il maresciallo Micheroux, il vescovo di Avellino saran dati in custodia al comandante di Sant’Elmo, ed ivi resteranno come statichi fino a che l’imbarco per andare a Tolone non sarà seguito; tutti gli altri ostaggi e prigionieri che si trovano nei castelli, saranno senza indugio messi in libertà (415).

La capitolazione fu prontamente firmata dal cardinale 0 dal comandante dei russi, e la sera stessa alle 10 mandata al Foote. Il capitano incrociava con la sua nave e col Perseo nelle acque di Posilipo, la bombarda Bulldog era nel golfo; la corvetta Mutine si trovava al lato occidentale d’Ischia; il Thurn con la piccola armata siciliana presso Procida. Al Foote parve il trattato molto favorevole ai repubblicani; tuttavia per non intralciare con difficoltà la faccenda, vi appose il suo nome; d’altronde, secondo il capitano inglese, il cardinale, onorato della fiducia e dei pieni poteri del re, doveva sapere meglio di ogni altro quel che faceva e perché lo facesse.

Il Ruffo, mandando le due proposte di capitolazione al comandante inglese, lo avea nello stesso tempo fatto pregare che volesse prendere provvedimenti per il viaggio dei prigionieri a Tolone: «il re mio signore ne pagherà le spese; nè, essendo piena la rada di navi, potranno mancar modi per tal trasporto.» Anche a questo desiderio del Ruffo condiscese prestissimo il Foote: «egli apparecchierebbe una delle sue navi da guerra in maniera che potesse, appena ve ne fosse il bisogno, far vela nel termine di due ore;» quanto a navi da trasporto, non c’era quasi nessun legno a tre alberi, di quelli che si chiamavano polacche; il Foote dovette rivolgersi al conte Thurn, e nello stesso tempo il Ruffo scrisse a Sorrento perché senza indugio lo sovvenissero.

Il 21 mandò il cardinale al capitano Foote il documento messo in debita forma e firmato da Oronzio Massa e l’Aurora, comandanti de’ due forti, e per parte degli alleati da lui e dal Micheroux; il Foote a mezzanotte 2122 vi appose il suo nome, dopo di che anche il Baillie in nome dei russi e Achmed in quello dei turchi lo sottoscrissero (416). Il 22 a Sant’Elmo il Méjean, dopo aver tenuto un consiglio di guerra, vi mise la sua approvazione; e non mancava oramai più altro che recare il trattato ad effetto. Il Foote era pronto; la corvetta Bulldog, capitano Drummond, con le vele spiegate aspettava un cenno per prendere il suo ufficio di scorta. Se non che le polacche non erano ancora in quantità sufficiente; onde rimbarco dei capitolanti fu soggetto a ritardo. In quel mentre il conte Thurn fece salpare uno de’ suoi trasporti da guerra alla volta di Palermo con una lettera del cardinale al ministro Acton, nella quale brevemente lo ragguagliava di ciò che dal 17 era avvenuto. Probabilmente il capitano ebbe nello stesso tempo una lettera che il comandante inglese scriveva al suo ammiraglio.

Una copia del documento di capitolazione, munito dell’approvazione del Méjean, fu mandata dal cardinale al comandante inglese; essa doveva, con l’allegata lettera del Ruffo, e con quella del Foote all’ammiraglio Nelson, essere spedita a Palermo. «Io ho sottoscritto il trattato,» dichiarava il Foote al suo ammiraglio, «a fin che, se la fortuna della guerra ci abbandonasse o se apparisse l’armata nemica, non si potesse dire essere stato il mio rifiuto cagione della sventura» (417). Il Foote era sul punto di fare la spedizione, quando la mattina del 24 per tempo gli giunse l’ordine, mandatogli il 18 dall’alto mare, di andare con tutte le sue navi a raggiunger l’armata. L’ordine era già di sei giorni innanzi; in quel mentre potevano esser accaduti assai novità presso l’armata dell’ammiraglio; in ogni modo per rispetto alla capitale napoletana le cose erano arrivate a un punto tale, che il Foote non poteva risolversi a lasciare in tronco tutti i vantaggi acquistati o che sperava di acquistare. Deliberò quindi di rimanere col Perseo, e mettere a disposizione dell’ammiraglio la corvetta Mutine.

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Ma che era intanto avvenuto dell’uomo il quale, preso poco tempo innanzi il più alto grado nella marina partenopea, avea dato tanto da fare al comandante dell’armata anglo-sicula? Il Caracciolo già da un pezzo non avei più voglia di fare il prode repubblicano. Dopo la caduta di Vigliena, quand’egli avea fatto rifugiare le sue cannoniere nell’interno del porto, non si era per qualche tempo lasciato né vedere né sentire; poi era comparso nel castello Nuovo che è attiguo alla Darsena, in maniera da far credere che volesse prender parte ai vantaggi della capitolazione. Se non che prima che questa acquistasse forza di legge, ei lasciò chetamente il suo asilo, e cercò nell’interno del paese un nascondiglio (418).

fonte

https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1885-Fabrizio-Ruffo-Barone-von-HELFERT-2025.html#LIBRO_TERZO

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