“FABRIZIO RUFFO RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI” scritto da Barone Von HELFERT Vol. Terzo (IV)

DALLE ACQUE DI MARITIMO A QUELLE DI NAPOLI
Mentre il Nelson, dopo avere di nuovo sbarcato il principe ereditario e il suo seguito, si accingeva a far vela verso occidente, la regina, che non aveva potuto vedere il suo famoso ed ammirato eroe né parlargli, per mezzo di lady Hamilton gli mandò dicendo: che facea voti ardentissimi perché il cielo in tutte le imprese lo accompagnasse; che ella disegnava compilare un giornale di tutti gli avvenimenti, di tutti i ragguagli che le fossero per giungere; che per mezzo degli Hamilton glielo spedirebbe; e che desiderava ch’egli nella sua saggezza lo esaminasse e per la stessa via le facesse pervenir la risposta (419).
Ciò che più la impensieriva era la sorte di Napoli, dimenticando a quel che pare che il Ruffo era stato ripetutamente avvisato di non far nulla prima che il principe ereditario o gl’inglesi arrivassero. Daccapo ella s’immaginava che la conquista della capitale non fosse nel tutto insieme una cosa difficile. «Io desidero vivissimamente che alla città sia risparmiato lo spargimento di sangue e il saccheggio,» ella aveva il 14 scritto al cardinale. «Né posso figurarmi del resto che i napoletani debbano offrir resistenza, poiché le classi traditrici della popolazione non hanno coraggio, e le inferiori, che ne han mostrato alquanto, sono per noi. Quello che mi dà pensiero è solamente Sant’Elmo. Bisognerà che si metta il comandante fra due; vada via, prendendo seco una cinquantina, tutt’al più un centinajo di giacobini, ma lasciando tutto il materiale di guerra in buono stato. Se non vuol consentire, allora non si darà quartiere nò a lui né a’ suoi; i russi e i turchi avanti, poi una mano dei nostri, e via a prendere un fossato dopo l’altro, ricompensando chi va innanzi il primo e si conduce con lode, io sono convinta che in mezz’ora tutto è finito.» Aggiungeva poi che con Sant’Elmo e col suo comandante francese si poteva entrare in trattative, ma non già co’ sudditi traditori e ribelli. «Il re nella sua clemenza li perdonerà, diminuirà le loro pene; ma non vorrà mai trattar con loro, che del resto son ridotti agli estremi e, volendo ma non potendo far più del male, rassomigliano al topo nella trappola» (420). Né bisognava contentarsi di rimetter l’ordine in Napoli, ma estender l’opera alla occupazione e alla liberazione del territorio romano. Era questa per la regina anche una questione d’onore. Ella pensava che se riuscisse con gli ardenti calabresi di pigliar l’aire, e correre a Roma ed occuparla, ed assicurare a Napoli come confini i monti, allora l’onta della campagna dello scorso autunno sarebbe cancellata, allora sarebbe data prova che al tradimento solo e non già al difetto di coraggio e di valore era da attribuir la colpa del grande infortunio. «Intanto le nostre idee debbono esser libere da qualunque proposito di conquista o di danni verso i legittimi principi di quel paese; ma egualmente dobbiam desiderare che altri stati e soprattutto i nostri potenti vicini non si stanzino nel territorio romano. In una parola, desidererei che avessimo anche l’onore di liberare lo stato romano e di aumentare la sua e la nostra gloria» (421).
Il 17 di giugno, tornando da uno dei numerosi ritiri di signore, che soleva con le principesse di tanto in tanto visitare, ebbe Carolina il primo ragguaglio degli avvenimenti del giorno di S. Antonio; il 18 e il 19 seguirono altre informazioni. Ella fu piena di gioja e di vivissima gratitudine verso il cardinale e le valorose milizie di lui. Tuttavia l’indugio la irrita. La città non ò ancora presa tutta, i forti sono ancora in mano dei ribelli: «Io non penso,» ella dice, «io non sogno, io non ho innanzi agli occhi se non la compiuta occupazione di Napoli e dei castelli col minore danno possibile.» Ciò che cresce l’alterazione dell’animo suo è il non aver nessuna nuova dell’armata nemica. «Nelson è via per cercarla.» E pure sarebbe più necessaria che mai la sua comparsa nelle acque di Napoli. «Non ostante il perdono promesso,» ella scriveva alla sua amica, «i bricconi si sono disperatamente battuti fino all’ultimo; alcuni son fuggiti, su altri sfoga il popolo la sua vendetta. Quello che ci bisogna è un altro 1° agosto, un nuovo Abukir del nostro bravo generale» (422). Nello stesso tempo ella ò sempre ferma, circa il modo di condursi co’ suoi sudditi, alla massima già significata il 14: che co’ francesi si potesse trattare ma non co’ ribelli; che tuttavia una certa quantità di giacobini potesse accompagnarsi ai francesi e con essi partire. «Ad uno solamente non dovrebbe riuscire di scappare e di riparare in Francia; e questi è l’indegno Caracciolo, poiché conoscendo questo ingratissimo fra gli uomini tutti i porti, tutti i più riposti seni di Napoli e di Sicilia, potrebbe darci grandi molestie, e sarebbe per la sicurezza del re grandemente da temere» (423).
La corrispondenza co’ parenti di Vienna era soggetta a continue e lunghe interruzioni. Settimane e anche mesi passavano senza che un corriere, una lettera, il minimo messaggio arrivasse; poi giungevano a un tratto una mezza dozzina di corrieri con un monte di lettere. «Io guardo sempre» scriveva sul mezzo del maggio alla sua imperial figliuola, «verso la parte di Messina, se si vedesse una nave che mi portasse nuove della tua salute, del tuo stato.» I lamenti di Carolina su queste irregolarità, su questi intervalli senza fine si rinnovano senza posa, e non di rado con un’amarezza come se ne avessero colpa coloro le cui notizie ella così ardentemente desiderava: «Da tutte le parti abbiam nuove di quando in quando; a Costantinopoli potrebbe andare e tornare céleremente un messo; soltanto di voi non sappiamo nulla; è una cosa crudele!» Negli ultimi tempi per altro eran venute di Vienna lettere e doppiamente gradite. La notizia della nascita di un nipotino, e delle buone condizioni della figliuola, la cui salute l’aveva per molti anni tenuta sospesa fra il timore e la speranza, e dall’altro lato la notizia d’un seguito di vittorie che gli eserciti dell’imperial genero avean riportate, eran tali da confortare alquanto i suoi spiriti depressi. Però dalle Alpi a Napoli c’era che ire, e l’imperator Francesco, pur troppo ella e gli amici suoi s’erano oramai persuasi, non potea pel momento portare direttamente soccorso; bisognava ringraziare Iddio, che per i felici successi delle armi alleate sul campo di battaglia del settentrione, il nemico straniero era anche su quello del mezzogiorno così notevolmente indebolito, che non occorreva di combattere se non presidj relativamente di pochissima importanza. Tuttavia contro di questi non bastavano a lottare le schiere poco esperte dei calabresi, come a Palermo fermamente credevano e come il cardinale non esitava di confessare. Il Ruffo poteva con quelli prendere le piazze difese da volontarj e da guardie nazionali; ma a soldati regolari bisognava soldati regolari contrapporre, e Sant’Elmo, Capua, Gaeta non potevano essere se non con assedio regolare sforzati. Solo i russi e gl’inglesi potevano supplire a tal difetto. Ma di quelli, invece del corpo sotto gli ordini del generale Hermann che si aspettava, eran comparse solamente un pajo di compagnie sul campo di battaglia, il che non faceva più tornare il conto, e occorreva tener diligentemente nascosta la cosa alle popolazioni che ne sarebbero furibonde e ne leverebbero alto romore; e quanto agl’inglesi, il Nelson, già sul punto di partire alla volta di Napoli, aveva in sull’ultimo momento ricevuta un’altra destinazione!
Dagli altri stati amici, e propriamente da quelli della penisola italiana, non c’era da aspettare che portassero ma piuttosto che chiedessero soccorsi. La colonia toscana scacciata da Firenze viveva tuttora tranquilla e ritirata in Palermo, di dove, compatita dalla regina, ma veduta di mal occhio dal re, si industriava invano di ottener l’entrata in Austria. Carlo Emanuele di Sardegna, relegato sulla sua isola, poteva tutt’al più giovare mettendo a disposizione del cugino di Sicilia qualche centinajo di cavalli. Lo rappresentava in Palermo il suo grande scudiere Marchese di Balbo, che gli era affezionatissimo e ne godeva tutta la fiducia, ed aveva incarico di perorarne la causa presso le corti di Vienna, di Berlino e di Pietroburgo.
***
Il Nelson, dalle acque di Maritimo, considerava altresì come suo ufficio il proteggere la Sicilia, e tenere in iscacco Napoli che si trovava tuttora in mano del nemico; poiché dei grandi e definitivi successi del Ruffo ei non sapeva ancor nulla. «Io aspetto con ansia,» scriveva all’ammiraglio Keith, «tali rinforzi che mi mettano in grado di cercare l’armata nemica, e, trovatala, non indugiare un momento ad appiccar battaglia; parendomi, con l’attraversar la strada ai francesi, difendere nel miglior modo possibile i possessi di S. M. Siciliana» (424). Egli aspettava continuamente il Foote, e tanto più ardentemente lo desiderava in quanto che non aveva una sola fregata a sua disposizione. Il 18 nelle ore pomeridiane i vascelli di linea Golia e Alessandro salparono da Malta per raggiunger l’armata; e Lord Orazio si sarebbe forse così deciso a eseguire il suo proposito contro l’armata di Tolone e Brest, se non gli fosse il giorno 20 pervenuta una lettera del Keith che lo invitava a lasciar Maritimo e far vela verso Napoli, dappoiché questo era il punto al quale il nemico co’ suoi più prossimi disegni mirava. Niente poteva più di tale incarico giungergli a seconda de’ suoi desiderj. Lo stesso giorno partì col Fulminante, e il 21 comparve nella rada di Palermo, dove nessuno s’immaginava di vederlo così presto.
Fattosi portare a terra, vide il re e la regina, e a quel che sembra assisté pure a un consiglio frettolosamente convocato. Le LL. MM. lo pregarono di far vela senza indugio alla volta di Napoli «per condurre ivi gli affari della M. Sua a un felice successo» (425). Dopo aver passato tre ore nella metropoli siciliana, l’ammiraglio s’imbarcò di nuovo. Lo accompagnarono questa volta gli Hamilton; il che fu manifestamente consigliato anche dalla considerazione, che nelle acque di Napoli fossero probabilmente per occorrere pratiche verbali e scritte, per le quali dovesse all’ammiraglio riuscire non poco opportuna la presenza di quei suoi compatriotti, a cui la lingua e i costumi italiani erano da tanto tempo familiari. Nel corso della giornata del 20 giunsero in Palermo nuove del Ruffo del 17 e del De Curtis da Procida del 18 di giugno. Intorno a ciò l’Acton scriveva a Sir William, che il cardinale doveva trovarsi in non buone condizioni, e che in tal congiuntura S. M. si avvaleva delle amichevoli profferte di Lord Nelson e lo pregava di recarsi a Napoli per appoggiare con l’armata la conquista della città. Nei circoli più competenti a Palermo si aveva la convinzione, che non ci fosse pel momento da temer nulla dalle navi nemiche; ma si sapeva però del pari che i combattenti del Ponte della Maddalena erano impensieriti della imminente catastrofe, e non senza ragione si dubitava che, per uscire dalle pericolose condizioni in cui s’eran messi, potessero indursi a fare ai francesi ed ai patriotti concessioni, che alla corte e al governo reale non sembrasser compatibili con la dignità della corona (426). Solo il vincitore di Abukir poteva a ciò riparare!
Il 21 di giugno la miglior parte dell’armata giungendo dalle acque di Marítimo fu in vista di Palermo, e la parola d’ordine fu tosto: «Al golfo di Napoli!»
***
Quale incarico assunse il Nelson partendo per Napoli? E quali facoltà gli furono concesse per eseguirlo? L’incarico era: riconquistar Napoli al legittimo sovrano; le facoltà non erano limitate da nessuna condizione; nel dare tutti quei passi che potevan condurre al conseguimento di quel fine, egli poteva riguardarsi rivestito di un’autorità incondizionata. Tutte le espressioni, verbali e scritte, della corte erano per tal rispetto tanto generiche, dimostravano tanto sconfinata fiducia nell’eroe inglese, che appariva indubbiamente manifesto essere state in lui riposte tutte le speranze, commesso nelle sue mani ogni potere.
Quanto a lui, e’ non era di certo uomo da aver della sua missione un concetto meno adeguato, da non valersi della piena autorità sua quanto le gravi circostanze potessero richiedere. A’ suoi sottoposti imperiosamente comandava, né dagli altri, portassero anche il bastone di maresciallo o il cappello cardinalizio, era punto disposto a lasciarsi attraversare la strada. Al che s’aggiungeva anche un’altra cosa. Oltre al disprezzo malamente celato verso le persone estranee al mare e le imprese loro, egli sentiva una singolare animosità contro «il prete borioso,» il Ruffo, che osava parlare delle forze navali inglesi e di chi le comandava come se non servissero se non ad ajutar lui. Pareva che il Nelson credesse che i buoni successi fin allora ottenuti contro i ribelli avrebbero potuto ottenerli da sé soli i suoi impareggiabili ufficiali e marinari, o che almeno a tutt’altri fossero da attribuirsi piuttosto che a quel buono a nulla di cardinale, «that worthless fellow» (427). D’accordo co’ sentimenti del suo capo il Foote annuuziava il successo del 13 scrivendo, che il forte Vigliena e il ponte della Maddalena erano stati presi dal cardinale «o più propriamente dai russi.» Il Nelson e il capitano del Cavallo marino chiusero a bello studio gli occhi per non vedere, che all’arrivo dei russi il Ruffo aveva già conseguito per la massima parte il suo scopo, e che dall’altra parte senza di lui gl’inglesi non avrebbero ottenuto successi durevoli. Nessuno è che neghi grandissima stima al coraggio, al valore dei marinari inglesi anche nelle imprese terrestri; ma quando nel maggio presero con audace assalto Castellamare, Salerno e Torre del Greco, dovettero pure, appunto perché il Ruffo con le sue squadre non era ancora arrivato, sgombrare l’una dopo l’altra quelle forti piazze maritime con la stessa sollecitudine con cui le avevano occupate.
I sentimenti del Nelson verso i nemici a cui andava incontro erano, come tutti gli altri nel caldo e irritabile animo suo, pieni di passioni e di ardore. All’orgoglio nazionale britannico, all’odio succhiato col latte materno contro i francesi, si accoppiava in lui un culto profondamente radicato verso la legittimità, verso la monarchia, verso la maestà regale, e per conseguenza un’amara avversione contro le sommosse e le ribellioni (428). Dopo lo scoppio della rivoluzione francese tali sentimenti avean preso ancora più forza; gli facevano grandissimo orrore e ribrezzo quegli eccessi, quelle orge repubblicane, quel popolo, già famoso per la cortesia e la grazia delle sue maniere, divenuto così rozzo e selvaggio. I francesi oramai gli apparivan simili a bande di ladri e di assassini, di spergiuri e di sleali, di uomini senza onore né religione: «a set of infidel robbers and murderers.» Egli e la più parte de’ suoi ufficiali anelavano che si offrisse loro il destro di prendere, seguendo gl’impulsi del cuore, vendetta di quegli scellerati francesi e il loro caporione Bonaparte, «that horde of thieves with that arch-thief Bonaparte,» «that man of blood, that despoiler of the weak.» Di non minore avversione e di maggior disprezzo erano argomento i ribelli napoletani, a cui soltanto con ¡scherno e con ira si dava l’usurpato titolo di patriotti. Con siffatta genia bisognava andare per le spicce; rammentiamo l’esortazione del Nelson al Troubridge: «fatemi sapere che un pajo di teste son cadute, e sarà questo un refrigerio al mio cuore;» e dall’altra parte il rincrescimento del comodoro per non poter mandare la testa di un ribelle giustiziato, temendo che nel viaggio a cagione del caldo andasse a male e desse cattivo odore. Già l’11 di maggio aveva lo stesso Troubridge scritto al suo superiore in modo certa mente concorde al sentimento di lui: «Io spero che S. M. nel momento che avrà riconquistato la sua città darà un grande esempio a questi tristi nobili.»
Tale era lo stato delle cose e la disposizione degli animi, quando la sera del 23 di giugno una nave napoletana da guerra in rotta verso Palermo incontrò per mare l’armata del Nelson, e questi fu informato di ciò che in quel mentre era accaduto dentro e fuori di Napoli, cioè in primo luogo le capitolazioni dei forti Nuovo e dell’Uovo, e poi per sommi capi le concessioni fatte dagli alleati ai vinti. Il brigantino Mutine, che lo raggiunse la mattina del 24 sull’entrata del golfo di Napoli, gli portò la conferma di tali fatti (429). Si erano verificati i timori della corte palermitana; e il giudizio che ne faceva il Nelson si compendiava in una parola: «infamous!»
VII
OCCUPAZIONE DEI CASTELLI NUOVO E DELL’UOVO
Dalla spiaggia di Napoli fino dall’alba del 24 di giugno fu scorta una grossa squadra all’altezza di Capri. I patriotti nei castelli non sapevano figurarsi che fosse altro se non che la Gallispana desiderata così ardentemente e da più settimane aspettata; e già cominciavano a pentirsi di aver condisceso a trattare con gli strumenti del tiranno (430). Anche gli alleati dal canto loro erano inquieti, ma per un altro verso. Mentre il Foote ordinava di levar le ancore per esser pronti a tutti i casi, comparve il capitano Harward del San Leon con l’annunzio che l’armata del Nelson si avvicinava. Le illusioni dei ribelli furon pure di corta durata; poche ore dopo essi sapevano essere britanniche e portoghesi le bandiere delle navi che si approssimavano. E tre ore dopo mezzogiorno l’ammiraglio inglese con la sua superba armata — 18 vascelli, 2 brulotti — giunse in vista della metropoli napoletana.
Di su il ponte del Fulminante il Nelson avea scorto alla prima occhiata le bandiere bianche che sventolavano cosi sulle mura dei due castelli come sulle navi degli alleati e sulla fregata del Foote; su S. Elmo facea bella mostra di sé la tricolore francese; i colori soltanto di S. M. siciliana non apparivano in nessun posto. L’ammiraglio fece subito segnalare al comandante del Cavallo marino: che facesse tirar giù la bandiera di pace, poiché l’armistizio non era riconosciuto. Il trattato corso fra le due parti aveva perso agli occhi suoi ogni forza ed efficacia per lo stesso effetto del suo arrivo; poiché l’accordo, secondo lui, conteneva la tacita riserva, che fino all’esecuzione di esso le cose dovessero durare reciprocamente nel medesimo stato. «O forse i francesi, — così egli diceva — se in luogo mio fossero qui ora arrivati, sarebbero voluti rimanere spettatori indifferenti di cose, deliberate a lor danno prima del loro arrivo, ma fortunatamente non ancora recate in atto?» (431)
Fatta fermare l’armata a circa mezzo miglio di mare dalla punta del Molo, ordinò che fossero ancorate le navi in stretto ordine di battaglia e che tutte le cannoniere e bombarde disponibili venissero da Procida per assicurargli i due fianchi. Alle quattro di sera il Foote era sulla nave ammiraglia, e addossava, a quel che sembra, tutta la colpa dei fatti accaduti al cardinale, che, rivestito della fiducia e dei pieni poteri del re, era meglio di tutti in obbligo di sapere fino a che punto dovesse mostrarsi verso i ribelli condiscendente. Con le quali parole il Foote certamente cercava di piacere al suo capo. E il Nelson fin dal principio si industriò di trar fuori il suo immediato sottoposto da quella disgustosa faccenda; non voleva aver che fare se non col Ruffo (432). Dimenticava per altro o a bello studio trasandava di osservare, che il suo interlocutore in un altro luogo operando da sé aveva messo quelle stesse condizioni, che nel trattato coi castelli Nuovo e dell’Uovo il Ruffo lo avrebbe ora persuaso ad accettare; poiché, come già sappiamo, fin dal 15 i forti di Castellamare e dell’isola di Ravigliano erano invitati ad arrendersi agli stessi patti che, quattro giorni più tardi, condussero alla resa i due castelli napoletani sotto gli auspicj del Ruffo.
Era intenzione del Nelson intimare ai castelli di Napoli, compreso S. Elmo, la resa nel termine di due ore; in tal modo soltanto poteva esser concesso ai francesi di tornar liberamente in patria; quanto ai ribelli e traditori nessun potere al mondo avea diritto d’interporsi fra essi e il loro legittimo sovrano; non avevano a far altro che inchinarsi senza indugio innanzi alla grazia e clemenza di lui; e perciò non poteva esser permesso ai francesi di fare in una capitolazione nò anche menzione dei nativi (433). Infatti il Nelson scrisse due dichiarazioni di questo tenore, una pel comandante di S. Elmo, e un’altra per i giacobini napoletani, che si trovavano negli altri due castelli. Non sembra però che gli scritti arrivassero direttamente al recapito (434); poiché per procedere secondo questi principj, l’ammiraglio inglese avea bisogno della cooperazione, e però innanzi tutto del consenso, del real vicario generale, per quanto gli dovesse tornare molesto il mettersi a pari di quel «prete borioso.»
Per desiderio del Nelson scrisse Sir William Hamilton alcune righe a Fabrizio Ruffo per dirgli: che l’ammiraglio aveva avuto dal capitano Foote una copia della capitolazione del 19; ch’egli la disapprovava del tutto; che era fermamente risoluto di non rimanere, con le cospicue forze a cui aveva l’onore di comandare, semplice spettatore inoperoso; che aveva ordinato ai capitani Troubridge del Culloden e Ball dell’Alessandro di riunire le forze loro a quelle del cardinale; e sperava che questi fosse per essere d’accordo con lui (435). Una lancia portò al quartier generale presso il porto della Maddalena questa lettera, che fu cagione di non poca perplessità, il cardinale, pronto come sempre a prendere una risoluzione, si fece dalla stessa lancia condurre sulla nave ammiraglia. L’accoglienza che vi ebbe fu tale da non lasciar nulla da desiderare: una salva di 13 colpi lo salutò, il Nelson venne giù a riceverlo, e il simile fecero gli Hamilton, che servirono poi nell’abboccamento da interpetri. Il Ruffo impiegò tutta la sua eloquenza esponendo le cagioni che l’aveano indotto a concludere il trattato, e chiedendone con fermezza la leale osservanza; dopo l’ultima lettera del re da un momento all’altro si aspettava l’arrivo della Gallispana, e prima che arrivasse bisognava a tutti i costi impossessarsi dei punti principali di Napoli; del resto tutto era stato fatto d’accordo col capitano Foote e con la sua cooperazione, come lo provava il nome di lui sotto il testo del trattato. Non senza una certa irritazione l’Hamilton esclamò: «i monarchi non sogliono venire a patti con i sudditi ribelli;» e tenne sodo al principio che «l’accordo, sebbene formalmente concluso, non era stato ancora recato ad effetto, e però avea bisogno, per divenir valido, dell’approvazione di S. Maestà.» Se non che il cardinale assai vinceva d’eloquenza il suo avversario, onde l’Hamilton alla fine cadde spossato sopra una seggiola, e sua moglie dové proseguire la conversazione per lui. Ma non ostante la sua facondia e l’incanto della sua voce, né anch’ella riuscì ad avere efficacia sul risoluto calabrese. Il Nelson non fece tutto il tempo che andar su e giù silenzioso; ma in fine, fermatosi a un tratto, disse che vedea bene come con tal contesa di parole non si approdava a nulla, e che si sarebbe industriato d’intendersi col cardinale per via di lettera. Così ebbe termine dopo due ore il colloquio, senza che Fabrizio Ruffo con tutta la sua arte oratoria riuscisse ad avanzare di un sol passo. Ma neppure gli avversarj ebbero a y lodarsi del successo. Con quel chiacchierone d’italiano — cosi ebbe a riferire il Nelson al suo superiore — egli si trovava a mal partito: «an Admiral is no match with a Cardinal;» e al Duckworth scrisse: «Al cardinale più che l’onore del suo re sta a cuore il conservare una casa in Napoli; e si ostina a chiamare patriotti i ribelli — what a prostitution of the word!» (436)
Appena tornato a terra il Ruffo non indugiò ad informare di ciò ch’era accaduto i sottoscrittori e mallevadori della capitolazione, eccettuato il capitano Foote. Il russo e il turco si mostrarono ugualmente sdegnati, parendo loro che sarebbe una biasimevole offesa alla pubblica lealtà il mancare a un trattato concluso in buona fede e con tutte le forme legali. Si rivolsero per iscritto all’ammiraglio inglese dichiarando che «erano risoluti ad eseguire puntualmente il trattato,» e chiunque s’attentasse ad impedirlo dovrebbe risponderne innanzi a Dio e al mondo. Il Micheroux, al quale per via del suo parente trattenuto in S. Elmo importava grandemente che la cosa precedesse in regola, si offerì di portare egli stesso la lettera a bordo del Fulminante, e di fare anche verbalmente al Nelson le più vive rappresentazioni (437). Il cardinale fece anche di più. Fece sapere al general Massa nel castello Nuovo quello ch’era accaduto, e gli diè libertà di uscir con i suoi a fin di cercare per terra, non potendo per mare a cagione degl’inglesi, una via di scampo; come avean fatto pochi giorni prima i patriotti di S. Martino. Ma il Massa respinse la proposta; rispose ch’egli teneva fermo all’accordo, e aspettava che gli altri facessero il simigliante; del resto non era da credere che egli ed i suoi fossero a tal segno scoraggiati ed avviliti da non sapere all’occorrenza riprender l’armi e ricominciare le ostilità (438). Ma il vero motivo del rifiuto era questo, che i patriotti assai più temevano il favore dei lor compatriotti rimasti fedeli che non la inimicizia degl’inglesi.
Il Nelson s’ingegnò ancora di trarre il cardinale dalla sua. Pareva che l’indole orgogliosa ed eccitabile del britanno volesse provar la sua forza contro il carattere del calabrese non meno violento ed altiero. Scrisse i suoi intendimenti, e mandato lo scritto al Ruffo, glieli fece spiegare. Ma il Ruffo non diè retta (439); anzi si lasciò correre fino alla minaccia, che se il Nelson non voleva mantenere l’accordo, egli ricederebbe tutti i punti che il nemico avea per effetto di esso accordo sgombrati, ritirerebbe tutte le sue forze ai luoghi che occupavano prima di trattare, e lascerebbe agl’inglesi la cura di conquistare ciò che lor paresse necessario. Il Nelson rimase duro, e il Ruffo del pari. In breve comparvero, mandati dall’ammiraglio, il Troubridge e il Ball al ponte della Maddalena, per chiedere al vicario generale se, nel caso che il Nelson giudicasse di dovere attaccare i castelli, aveva intenzione di appoggiarlo. «Né con un uomo, né con un cannone» rispose il Ruffo. Allora fu recapitato un altro biglietto: «Il contrammiraglio Nelson è d’avviso che l’accordo non possa essere eseguito senza l’approvazione del re, del conte di Saint-Vincent e di Lord Keith» (440).
***
Lo stato d’incertezza e di irresoluzione, a cui tale screzio dava luogo, era tanto più argomento di tristezza e di pericolo al tempo stesso, in quanto la città si trovava sempre dominata dai partiti, il popolo non cessava d’imperversare, e tutti coloro che gli davan sospetto di essere giacobini o ne faceva giustizia sommaria, o li consegnava, non più come prima al cardinale, ma direttamente al tribunale di Procida. Persino il cardinale era ormai sospettato di esser di balla co’ giacobini; il suo proclama conciliante del 15 fu strappato dai muri e messo in pezzi, gittate per terra e calpestato. Il Ruffo deputò una parte de’ suoi cacciatori calabresi a rimetter l’ordine; e in fatti, messisi all’opera, uccisi alcuni dei ribelli, imprigionatine molti altri, vi riuscirono per qualche po’ di tempo. Se non che il male non istava solo nel popolo. Parecchi realisti delle classi più elette, che nei mesi passati s’eran tenuti tranquilli o anche per propria sicurezza avean preso sembianza di patriotti credevano di potere alla fine far mostra di zelo per un altro verso, comunicavano segretamente con le autorità di Procida, somministravan loro indizj a carico altrui, ovvero mandavano attorno arcieri, che le persone indicate prendessero e per la via più corta a quella temuta isola trasportassero.
luoghi di custodia così sull’isola come sul continente erano orribili, poiché la più parte delle stanze eran piene zeppe, e i prigionieri eran pigiati in un modo da dover quasi soffocare; verso sera si riputavan fortunati coloro che potevano giungere a una finestra per ristorarsi respirando qualche boccata di fresca aria marina. Oltre di che si lasciava lor patire tutti gli strazj della fame e della sete, per guisa che molti temevano che soprastasse loro la fine del conte Ugolino e dei suoi due figliuoli. Molti rimanevan chiusi tutto il giorno prima che in quel piglio e quella immensa confusione pervenisse loro un tozzo di pane e qualche goccia d’acqua; Guglielmo Pepe scrisse molti anni dopo, che gli pareva di sentire ancora quell’ardente avidità con cui mandava giù l’acqua in modo da perdere quasi il fiato. Con l’andar del tempo amici e parenti ebbero cura di portare ai prigionieri miglior vitto, vestimenti e biancheria da letto; e molte donne traversando quelle orde feroci che assediavan le carceri, dettero prova di coraggiosa abnegazione. Ma non tutti quegl’infelici ebbero la sorte di essere provveduti da parenti, perché questi erano o in prigione anch’essi o costretti a nascondersi per non essere imprigionati; talché alla sofferenza, a cui essi medesimi eran soggetti, si aggiungeva quella di cui era loro cagione l’incerto destino di persone care. Ad alcuni dal troppo spavento cominciò a dar volta il cervello. Né della propria vita erano anche sicuri, poiché i guardiani alla minima contradizione o rozza risposta facevano uso delle armi. Accadde ancora che le sentinelle di fuori con crudele baldanza tirassero fucilate dentro le carceri, e le palle rimbalzando dalle pareti parecchi ferissero, alcuni anche uccidessero.
Tale fu lo stato delle cose sino alla mattina del 26, quando il Nelson, perduta ogni speranza di smuovere il cardinale, si deliberò con grandissimo rincrescimento ad effettuare nella parte principale la capitolazione, facendo senza dubbio in cuor suo la riserva che, almeno in casi gravi ed urgenti, di proprio arbitrio prenderebbe i provvedimenti necessarj, aspettando che il re venisse di persona a decidere come giudice supremo. E lo fece nel senso del già menzionato scritto «ai giacobini napoletani dei forti Nuovo e dell’Uovo,» la cui comunicazione dovette appunto allora esser fatta per la prima volta a coloro cui si riferiva (441).
Verso il mezzogiorno del 26 i capitani Troubridge e Ball si trovarono al quartier generale del Ruffo, al quale consegnarono un biglietto dell’Hamilton cosi concepito: «Myl. Nelson me prie d’assurer Votre Éminence qu’il s’est résolu de’ ne rien faire qui puisse rompre l’armistice que V. E. a accordé aux châteaux de’ Naples.» Nel tempo stesso entrambi dichiararono di aver avuto facoltà dal contrammiraglio di assicurare che egli non si opporrebbe all’imbarco dei ribelli e dei presidj dei forti Nuovo e dell’Uovo; e richiestone dal Ruffo il Troubridge mise tale assicurazione in iscritto, ma non volle apporvi la sua firma (442). Alcune ore più tardi i due capitani, dopo aver lasciato sbarcare alcune centinaja dei loro soldati di marina, si recarono, accompagnati dal Micheroux, al castello Nuovo e, occupato il castello, l’interno del porto e il palazzo reale, permisero che i repubblicani s’imbarcassero. Di una uscita con gli onori militari, con bandiere e con armi da essere solamente consegnate sulla spiaggia, non c’era più da discorrerne; erano prigionieri, s’erano arresi a discrezione, e come tali dovevano esser trattati (443). Lo stesso accadde al castello dell’Uovo, dove i particolari del fatto furono regolati fra il brigadiere regio Minichini e il colonnello repubblicano l’Auro: l’imbarco del presidio doveva effettuarsi con tre barche; dopo la uscita della prima doveva essere consegnato il ponte levatojo e la saracinesca, dopo la partenza della seconda le casematte, e finalmente dopo la terza la intiera piazza. Dalle barche furono condotti al Molo e di lì a bordo d’una nave che stava pronta ad accoglierli, e che doveva, com’essi credevano e speravano, condurli in Francia.
Innanzi tutto l’ammiraglio cercò di adoperare per tutti i versi il vantaggio ottenuto sul continente. La stessa sera sventolavano sui castelli le bandiere del legittimo sovrano, e il Minichini ebbe l’incarico di esaminare le opere di fortificazione e di metterle in perfetto stato di difesa. Al comandante di S. Elmo il Nelson intimò di ceder la fortezza nel termine di due ore «ai noti patti convenuti col Cardinal Ruffo e l’ufficiale dell’armata russa,» altrimenti avrebbe ei solo a sopportare tutte le conseguenze. Il capitano Hoste andò per incarico del Nelson coi trasporti Mutine e San Leon nelle acque di Gaeta, per mettersi d’accordo con Fra Diavolo a fine di impossessarsene; ma in nessun caso non doveva lasciarsi persuadere a concedere ai ribelli altro che la sottomissione incondizionata al loro re (444).
Per dare più peso alla minaccia rivolta a S. Elmo e per operare nello stesso tempo contro Capua, dove erano parimente francesi, il Nelson ordinò a’ suoi capitani di sbarcare 1300 fra marinari, soldati di marina ed artiglieri (445). Chiese ugualmente al Marchese de’ Niza di sbarcare da ciascuna delle navi portoghesi 100 uomini; i quali poi uniti ai russi sotto il Baillie e ad una parte dei regj sotto il duca di Salandra, compresi gli svizzeri condotti dallo Tschudv, dovean procedere all’assedio del castello; il Troubridge avrebbe il comando, sotto di lui starebbe il Ball. La prima cosa che il Troubridge fece, dopo avere la mattina del 27 sbarcato una parte de’ suoi uomini, fu quella che il Nelson gli aveva commessa, cioè abbattere gli alberi della libertà che ancora erano in piedi, portarli innanzi al palazzo reale, ed ivi bruciarli. Il Gigante di palazzo, statua colossale di Giove Terminale presso la reggia. I patriotti lo avevano decorato di un tricolore e di un berretto frigio: la plebe si scagliò contro la statua, strappò le insegne repubblicane, le attaccò alla coda d’un asino, e questo con urli, fischi, canti e d’ogni maniera clamori andò cacciando per le strade della città. Il resto del giorno fu impiegato a sbarcare i marinari e a preparare l’assedio di S. Elmo. Oltre i provvedimenti già menzionati doveva Ahmed marciare co’ suoi turchi contro Caserta, il generale Burkhard con una parte dell’esercito del Ruffo contro Capua, la qual piazza già le torme di cittadini del duca di Roccaromana da tutte le parti circondavano.
Nel corso del medesimo giorno, 27 di giugno, il Nelson ordinò al capitano Foote di far vela senza indugio verso Palermo, di presentarsi ivi al ministro Acton, e procurare in tutti i modi che le Loro Maestà sulla sua fregata s’imbarcassero per lasciarsi condurre a Napoli. Anche il luogotenente Sargeant, comandante del cutter Conte St. Vincent, ebbe ordine di partire sollecitamente per Palermo con dispacci per l’Acton (446). Alcuni giorni dopo, una terza nave fece vela nella stessa direzione, e fu la scialuppa portoghese Ballon; il capitano Willoh che la comandava, aveva lo speciale incarico di recarsi al palazzo reale, consegnare alla regina alcune carte, e «aspettando nel palazzo gli ordini di lei» ricevere altre carte; si trattava senza dubbio di lettere scritte da lady Hamilton, alla quale non pareva mai di scrivere lettere lunghe e frequenti abbastanza alla sua real protettrice.
***
La mattina del 27 di giugno Fabrizio Ruffo, nella sua doppia qualità di cardinale della romana chiesa e di vicario generale del regno, comparve con solenne corteo nella chiesa del Carmine, dove fu celebrato un servizio di rendimento di grazie. Egli e l’Hamilton si scambiarono congratulazioni pel felice successo della comune impresa. Tuttavia le cose non dovevano procedere cosi facilmente, come le assicurazioni date dal Nelson il giorno innanzi e le testimonianze di gioja porte quel giorno stesso dal ministro inglese avrebbero potuto far credere.
Le navi da trasporto con i già rinchiusi nei forti Nuovo e dell’Uovo, invece di spiegar le vele alla volta di Francia, furono invece messe in più vicine e poco amichevoli relazioni con l’armata del Nelson. Le quattordici polacche dovettero, saldamente ormeggiate insieme, gittar l’ancora innanzi alla linea di battaglia degl’inglesi e portoghesi per modo che ogni trasporto si trovava sotto i cannoni di una nave da guerra e sotto il comando speciale di un ufficiale inglese (447).
Nello stesso tempo furono esattamente descritte le persone e registrati i nomi di coloro, che come membri della commissione legislativa o esecutiva, come alti ufficiali ovvero operosi pubblicisti, si erano fatti singolarmente notare pel loro zelo verso la repubblica. Il 28 comparvero uomini armati su ciascuna nave, chiamarono le indicate persone e le arrestarono. Erano in quel numero il ministro della guerra partenopeo Manthoné, i generali Massa e Bassetti due presidenti delle commissioni Ercole d’Agnese e Domenico Cirillo, Emanuele Borga, Piatti ed altri. Furono prima condotti a bordo del Fulminante, e dopo essere stati colà penosamente passati in rassegna, fra le altre navi da guerra distribuiti. Né si fermarono a questa prima giacchiata. Nei giorni seguenti, via via che altre persone davan nell’occhio o erano da altre parti segnalate, alla stessa procedura le assoggettavano, per modo che tutti coloro che si trovavano sulle polacche, oltre all’incomoda dimora e alle privazioni che dovean sopportare, erano senza posa agitati fra la speranza di essere lasciati partire per la Francia e il timore di essere anch’essi presi e serbati a incerta e, secondo ogni probabilità, tristissima sorte. Anche sul continente il numero dei prigionieri andò sempre crescendo (448), talché, non bastando più le carceri disponibili, alcune navi disalberate fecero l’ufficio di prigioni.
Si dura fatica a concepire come il Nelson, con la sua dirittura di carattere (449), potesse in tali circostanze credere e cercar di persuadere al cardinale che la capitolazione del 19 non era menomamente violata. Nello stesso giorno che per suo comando i più compromessi erano arrestati, egli faceva dal ministro inglese scrivere al Ruffo, «ch’ei non voleva a nessun patto rompere l’armistizio concluso dal cardinale;» anzi scriveva anche egli stesso: «Io spero che V. Em. sarà contenta di vedere ch’io appoggio le suo idee;» e gli mandò novamente i capitani Troubridge e Ball, «perché con S. Em. concertassero tutto ciò che alla presa di S. Elmo si riferiva» (450). Ora l’attacco di S. Elmo era senza dubbio secondo le idee del cardinale; ma nell’altro punto questi era e durò sempre di avviso affatto contrario a quello dell’ammiraglio inglese. Se non che inutilmente gl’imbarcati si rivolsero supplichevoli a lui, al Micheroux, al Baillie (451); inutilmente il Ruffo fece premura all’ammiraglio che non volesse, mancando alla fede, macchiare il suo nome, la sua fama guadagnata in gloriosi combattimenti, e mettere in pericolo la vita degli ostaggi rinchiusi a S. Elmo; il Nelson perfidiò a dire che non poteva arrogarsi il diritto di sottrarre al giudizio del legittimo sovrano sudditi che così gravemente aveano verso di lui mancato. Ma andò anche più oltre. Pubblicò dalla sua nave ammiraglia un editto, secondo il quale tutti gli ufficiali e gl’impiegati al servizio della «vergognosa repubblica napoletana» dovevano nel termine di 24 o, se si trovavano fuori della città, nel termine di 48 ore presentarsi al comando di uno de’ due castelli e abbandonarsi alla clemenza del loro monarca, altrimenti egli li riguarderebbe e tratterebbe come colti in attual ribellione e come nemici di S. M. siciliana (452).
Fra i nomi di coloro, che erano o trattenuti sulle polacche o altrimenti assicurati, mancava sempre quello di un uomo, alla cui cattura negli ultimi giorni diligentemente si dava opera ed era stato anche assegnato un premio. Francesco Caracciolo dopo essersi, come abbiamo già detto, fermato qualche tempo nel castello Nuovo, accorgendosi del declinar delle cose, se n’era novamente allontanato; poiché maestro egli si credeva nell’arte poco invidiabile di navigare secondo ogni vento. Così s’era condotto con la corte di Palermo nel mese di gennajo; così il 13 di giugno nella difesa del forte di Vigliena; così il 16 e 17 con la sua armatella ancorata nella darsena; cosi finalmente si condusse anche nel castello Nuovo, fra le cui salde mura avea cercato asilo (453). La mattina del 23 si trovava presso Portici, ed al duca di Castropignano (454), che ivi dimorava, fece recapitare uno scritto presso a poco del seguente tenore: che temendo non avessero i briganti ad attentare alla sua vita, ei chiedeva che il duca lo proteggesse e al Cardinal Ruffo lo raccomandasse; soggiungendo che sperava, i pochi giorni di servizio forzatamente prestato sotto il comando francese non dovessero far dimenticare i leali servigi da lui prestati per lo spazio di quarant’anni. Ma non avendo risposta né dal duca né dal cardinale, si travestì da marinaro, entrò in Napoli di soppiatto, e pregò la principessa di Motta Bagnara che domandasse consiglio al Cardinal Ruffo suo zio per sapere se doveva rimanere o fuggire. E poiché la principessa, non ostante il suo stato d’inoltrata gravidanza, si fu recata dal Ruffo ed ebbe riportata al Caracciolo la risposta: che fugga! egli si procurò povere vesti, si rifugiò su i monti ed ivi parecchi giorni andò in giro; ma finalmente costretto dalla fame a lasciare il nascondiglio e tradito da un servo infedele, cadde nelle mani di Scipione della Marra, il quale lo fece legare, e a fine di non metter sossopra il quartier generale e soprattutto di non fare saper nulla al Ruffo, di nottetempo lo fece imbarcare al Granatello e condurre alla grande armata.
Era la nona ora del mattino del 29 di giugno quando il capitano Hardy, che si trovava sul ponte del Fulminante, vide avvicinarsi una barca, e un uomo in essa, apparentemente fra i sessanta e settant’anni, di cui la nobile persona e le espressive fattezze con le vesti contadinesche mal s accordavano, e anche meno col disordine e abbandono che pareva dar indizio di lunghi strapazzi ed oltraggi. Come la barca fu presso la nave ammiraglia, coloro che accompagnavano quell’uomo ad alta voce gridarono: questo è il traditore Caracciolo che noi portiamo! A bordo del Fulminante s’accalcava e pigiava la gente intorno al prigioniero imprecando e maledicendo; talché il capitano dové intervenire per liberarlo, e slegatolo e fattolo condurre in una stanza, vi mise innanzi due uomini di guardia. Ordinò che gli fossero dati dei rinfreschi, che del resto il prigioniero non toccò, e lo commise alla custodia del primo luogotenente M. S. Parkinson.
Appena il Nelson seppe tal novella, scrisse un biglietto al conte Thurn pregandolo che con cinque degli ufficiali più anziani venisse a bordo del Fulminante a fin di giudicare il prigioniero, che stava sotto l’accusa di ribellione contro il suo legittimo sovrano e di aver fatto fuoco contro la bandiera reale a bordo della Minerva; e di condannarlo, quando le accuse risultassero fondate. Alle 10 della mattina cominciò il giudizio, al quale molti ufficiali inglesi da semplici spettatori assistettero. I fatti che al Caracciolo s’imputavano erano notorj; la sola cosa che potè addurre in sua discolpa fu che lo avevano costretto «con minaccia della vita a prender servizio sotto la repubblica e a condurre, contro ogni sua volontà ed inclinazione, le armi contro i colori di S. Maestà.» Richiesto perché, come tanti altri, non avesse cercato di riparare alla vicina Procida, dove né minacce né violenze non avrebbero potuto raggiungerlo, dette poco sodisfacenti risposte e fra le altre questa, che non si era fidato, che aveva temuto di esservi male accolto. Il Caracciolo si contenne e parlò pacato e raccolto, si può dire, pieno di dignità. Ma i suoi discorsi si ristrinsero a frasi comuni, a vuote affermazioni non sorrette da prova, il che produsse sugli astanti un poco favorevole effetto (455).
Verso il tocco era finito il giudizio. La sentenza di morte, dal più dei voti approvata, fu sottoposta al Nelson come superior comandante. Il Caracciolo si volse al luogotenente Parkinson pregandolo che gli ottenesse un nuovo processo con altri giudici, poiché il conte Thurn era suo personale nemico. L’ammiraglio respinse la domanda perché egli «era stato secondo tutte le forme legali giudicato da ufficiali del suo stesso paese; né c’era ragione per cambiar nulla.» Il Nelson confermò la sentenza e dette incarico al conte Thuru di «far appiccare alle 5 della sera il reo all’antenna dell’albero di trinchetto della fregata di S. M. siciliana Minerva, lasciarvelo fino al tramonto del sole, e poi far levare il cadavere e gittarlo in mare» (456). Di nuovo il Caracciolo si rivolse al suo custode dicendo: «io sono vecchio e non lascio famiglia che mi pianga; è da credere che non mi stia troppo a cuore il prolungar la vita; ma l’onta di essere impiccato è terribile; s’io debbo morire mi si conceda la morte del soldato con una palla.» Ma il Parkinson ebbe questa seconda volta anco peggiore accoglienza dall’ammiraglio che gli disse imperioso: «Andate al vostro posto, e fate il vostro dovere!» Pregato dal Caracciolo, e’ volle tentare di commuovere il cuore della potentissima lady Hamilton; ma non fu possibile di trovarla, e le cose ebbero il loro corso.
Il condannato fu condotto dal Fulminante sulla Minerva, e alle 5 puntualmente, secondo gli ordini del Nelson, la condanna fu eseguita. Dopo il tramonto del sole, levato il cadavere e portato sur una barca più in alto mare, fu con gravi pesi ai piedi buttato nei flutti.
fonte
https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1885-Fabrizio-Ruffo-Barone-von-HELFERT-2025.html#LIBRO_TERZO