“FABRIZIO RUFFO RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI” scritto da Barone Von HELFERT Vol. Terzo (V)

PARTENZA DI FERDINANDO IV DA PALERMO
È stato raccontato a suo luogo come il Nelson, andando alla volta di Napoji incontrasse la sera del 23 di giugno un bastimento da guerra che andava verso Palermo, e gli venisse in ajuto sovvenendolo di acqua. Così sulla nave ammiraglia si ebbero le prime nuove dei fatti del 1921; e sembra che di quella congiuntura profittassero gli Hamilton per trasmettere alla corte di Palermo per mezzo del capitano di quel bastimento notizie, che pur troppo sapevano con quanto desiderio fossero ivi aspettate. La nave giunse nella rada della metropoli siciliana il 25, e portò una lettera piuttosto breve e generica di Fabrizio Ruffo al ministro Acton, un’altra di sir Hamilton al re, ed una terza di lady Hamilton alla regina.
Quanto più le cose di Napoli s erano andate avvicinando a una decisione e certamente favorevole alla causa reale, tanto più la regina si era venuta allontanando da quel disegno di amnistia, che al tempo dei primi buoni successi in Calabria aveva significato. La resistenza che i patriotti nei castelli Nuovo e dell’Uovo, non ostante le ripetute esortazioni ed offerte dei regj, ostinatamente continuavano, l’aveva sommamente esasperata. «Dopo tutti i proclami» — aveva ella scritto negli ultimi giorni a Vienna — «dopo tutte le promesse d’indulgenza e perdono, la baldanza di quei malvagi passa ogni segno, ed è cagione di danni incalcolabili. Il Nelson farà loro sapere, che se non s’arrendono senza indugio e senza condizioni, saranno sottomessi con le armi e trattati come meritano. Poiché l’ostinazione loro è giunta al più alto grado; alle esibizioni della clemenza, alla promessa di lasciarli andar fuorivia, non han voluto prestare orecchio, il che prova sempre più che con sì fatta gente ogni speranza di resipiscenza e miglioramento è vana.»
In tali disposizioni d’animo la trovò la lettera nella quale il Ruffo le faceva conoscere la conclusione dell’armistizio e le pratiche d’accordo ch’erano in corso con i due castelli. La regina andò fuori di sé, e non sapendo signoreggiar la sua passione scrisse al cardinale una lettera, non più come per lo innanzi da riconoscente amica e protettrice, ma da signora e regina, e non troppo clemente e benevola. Le comunicazioni del Ruffo non esser tali da sodisfarla; si sarebbe dovuto profittare dell’entusiasmo del popolo, e prendere, d’assalto gli ostinati castelli; fortuna che le cose erano per prendere un’altra piega: «V. Eminenza ha ora i comandi del suo sovrano, e saprà eseguirli; io desidero che tutto riesca bene per la gloria e per la sicurezza del re, e con questa speranza sono ecc. ecc.» (457).
Più diffusamente, ma anche con maggior violenza ed asprezza, in una lettera dello stesso giorno alla Hamilton, in risposta a quella da costei scritta a bordo del Fulminante, si espresse la regina circa al modo di trattare i ribelli dei due forti secondo l’opinione del re e sua. «Si offre loro perdono ed oblio, e invece di accettare essi si armano daccapo. Il capitano inglese manda al comandante di castel dell’Uovo un messaggio scritto, e quegli risponde a voce nel modo più arrogante e dà la caccia alla nave. Di notte i ribelli fanno una sortita e, mentre dura l’armistizio, s’impossessano delle nostre batterie. È impossibile che io entri con cuor sincero in trattative con tal canaglia. Ora che la imponente armata del Nelson sta innanzi a Napoli, devono andare altrimenti le cose. I patriotti rivoltosi debbono abbassar le armi e arrendersi a discrezione al re. Che se la guarnigione si ostinasse a resistere, allora bisognerebbe allontanar dalla città le povere donne e i fanciulli, sforzare i castelli secondo le regole della guerra, trattare quelli che vi son dentro con le leggi militari, e cosi porre un termine a questa colpevole e pericolosa rivolta. Allora si darà un esempio su i principali ribelli, e gli altri si manderanno fuori del paese con pena di morte in caso di ritorno. Non occorre per ciò né tribunale né processo, i fatti stanno chiari e incontestabili innanzi agli occhi, tanto per gli uomini quanto per le donne, le quali non si son fatte poco notare nella rivoluzione. In una parola, mia cara lady, mylord Nelson deve trattar Napoli come tratterebbe una città ribelle d’Irlanda; un par di migliaja di bricconi di meno non faranno più deboli noi né più forte la Francia. Ma la Francia è per loro una clemenza; l’Affrica, la Crimea converrebbero a loro, meriterebbero di essere marcati a fuoco perché nessuno potesse più essere da essi ingannato» (458).
Venivano ormai sempre più messaggi dal Cardinal Ruffo, dall’isola di Procida, dalla nave ammiraglia del Nelson. Il 27 di giugno una fregata siciliana, capitano Naselli, gittò l’ancora nella rada di Palermo, probabilmente la Sirena, mandata da Fabrizio Ruffo e dal conte Thurn dopo aver concluso la capitolazione. Il 1(o)di luglio il capitano Foote giunse a Palermo e portò il testo del trattato; le sue comunicazioni verbali e lo scritto di lady Hamilton fecero conoscere i provvedimenti che il Nelson giungendo nel golfo di Napoli avea presi. La lettura del trattato amareggiò sommamente l’animo della regina, la quale, del pari che il Nelson, non sapea farsi ragione delle circostanze che aveano indotto il cardinale e i suoi colleghi a dare quel passo. Come era egli possibile — così la regina mulinava nella sua testa — trattare sì benignamente i ribelli? come entrare in trattative con loro? come lasciarsi da essi imporre condizioni quasi fossero al paro del loro legittimo signore e re? come si ardiva conceder loro gli onori militari? come del resto parlar d’onore con gente trovata in istato di aperta ribellione? come assicurar loro il godimento degli averi e dei possessi, la libera scelta della dimora, senza dare né ad essi né ai loro aderenti nessuna molestia? non era ciò forse un consigliare la gente che un’altra volta meglio condotta e preparata rifacesse quel che aveva fatto? non era lo stesso che incitare altri a seguirne l’esempio, provocare a simili tentativi quelli che in Sicilia pensavano allo stesso modo, dando lor fiducia che non avrebbero nulla da perdere, tutto da guadagnare? come mai s’era potuto, quasi si fosse dalla parte più debole e si avesse torto, promettere ostaggi ai rivoltosi nella maniera che chiaramente esprimeva l’articolo 8 per rispetto all’arcivescovo di Salerno, al Micheroux, al vescovo di Avellino? come finalmente, per colmar la misura dell’onta e dell’umiliazione, si era potuto subordinar la validità della capitolazione al consenso del comandante di S. Elmo, tralasciando di menzionare l’approvazione del proprio sovrano? «Questa capitolazione» così concludeva la regina le note in margine all’esemplare del trattato, «è una tal vergogna e una tale stoltezza, che mi ripugna di spenderci sopra più parole, ed è lecito supporre che gli autori di essa non sapevano quel che si facessero. Per ribelli dimentichi dei doveri e giuramenti loro è ammesso il principio di libertà e d’indulgenza, quasi per stimolarli a ritentare con miglior successo l’opera scellerata. È in una parola un trattato così indegno, che se un miracolo della Provvidenza con qualche inaspettato avvenimento non l’attraversa in modo che perda ogni forza ed efficacia, io mi riguardo come perduta o disonorata. Poiché questa vergognosa capitolazione, se dovesse aver valore, mi affliggerebbe molto più che la perdita del regno non mi afflisse, e gli effetti ne sarebbero anche molto più tristi, le conseguenze molto maggiori e più dannose» (459).
Come dallo sfogo finale apparisce, la regina non aveva allora sentore degli avvenimenti del 26 e del 27 di giugno, dei quali fu solamente informata dalle lettere di lady Hamilton (460), che il capitano Willoh della scialuppa portoghese Ballon le portò il 2 di luglio. Fu per lei un vero conforto che almeno il Nelson avesse in parte riparato all’errore commesso. «I giacobini ch’ei fa arrestare,» così scriveva all’amica inglese, «appartengono ai più tristi che abbiamo avuti. Ho veduto anche la trista e meritata fine dell’infelice forsennato Caracciolo. Sento tutto quello che deve aver provato il vostro ottimo cuore.» L’avida domanda del comandante di S. Elmo la riempì d’indignazione: «Io vi scongiuro che al Méjean non si dia neppure un soldo dopo sì ostinata resistenza; evitate questa debolezza ed umiliazione, come il bravo ammiraglio ha giù evitato il vergognoso armistizio e la capitolazione co’ nostri ribelli.» (461).
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Il capitano Foote aveva avuto ordine dall’ammiraglio di mettere la sua nave alla disposizione delle L. M. siciliane per passare a Napoli. Il Nelson desiderava la loro presenza perché, quantunque onorato d’illimitata fiducia, non voleva su di sé il carico di decidere la sorte dei cittadini compresi nella capitolazione dei castelli Nuovo e dell’Uovo. È singolare che per rispetto ai forti di Castellamare e Revigliano, i cui presidj avean capitolato ai medesimi patti, il Foote desiderò dalla corte «come favore personale» l’approvazione del trattato da lui concluso, e non ostante che l’Acton sul principio si opponesse, finalmente l’ottenne (462).
Né l’ammiraglio inglese soltanto, anche Fabrizio Ruffo desiderava la presenza del re, sebbene per motivi certamente diversi. «Desolazioni, crudeltà, delitti sono inseparabili dalle guerre civili» — cosi egli insistentemente esponeva al suo sovrano — «ma non appena i popoli ritornano obbedienti, aspettano di trovare presso il principe grazia e clemenza; violazione di trattati e versamento di sangue macchiano le monarchie; il Nelson, violando la capitolazione, avea recato danno alla dignità della corona e alla buona opinione dei compagni di guerra ecc.» Onde il cardinale desiderava la presenza del re per rimediare al male fatto dal Nelson, ma anche per rimettere sotto l’impero delle leggi la plebe, che nel suo furore contro i giacobini non era per anco potuta frenare; tutto era dolore, tutto spavento nella città; le strade di Napoli profanate da cadaveri d’innocenti, ecc. ecc. (463). Quest’ultima ragione trovava riscontro nelle grida e nei lamenti, nelle preghiere e rimostranze che venivan da Napoli e descrivevano la terribile signoria della plebe, le crudeltà e violenze dei lazzaroni, che la sola autorità reale era capace di domare. Si aggiungevano le suppliche ipocritamente umili di molti, specialmente nobili, che ora tutti, a volere prestar fede alle proteste loro, erano puri di qualunque colpa o tutt’al più, come l’ammiraglio Caracciolo, solo per forza avean piegato alla repubblica. «Eccetto i generali e quelli che sono stati presi nei castelli con le armi alla mano,» scriveva Maria Carolina a Vienna, «e che per conseguenza non possono mentire, tutti pretendono d’essere innocenti e desiderano di vedere il re; io per parte mia li conosco — pour moi je les connais, c’est pour la vie, ils ne m’attraperont plus.»
Motivi affatto diversi da quelli del Nelson e del cardinale indussero l’Acton a consigliare il viaggio del re. Innanzi tutto il manifesto ed innegabile screzio fra il Nelson e il Ruffo, a cui occorreva porre un termine; se gl’inglesi avessero abbandonato il campo, tutto sarebbe stato rimesso in forse; ma non meno pericoloso egli era il lasciar braccio libero all’uno o all’altro. Era l’Acton legato al Nelson dalla comunanza di patria e di sentimenti; tuttavia l’ammiraglio non doveva, vinto oramai il punto principale, esser solo a far da padrone; bisognava che il re e il suo primo ministro fossero sul luogo per prendere i provvedimenti opportuni (464). Quanto ai ribelli, e circa al modo di trattarli, il ministro la pensava appunto come l’ammiraglio, e teneva da quel partito numeroso in corte, che di grazia e clemenza non voleva saperne. Non era la rivoluzione di Napoli un eco di quella di Parigi? Le idee, i propositi, gli sforzi erano stati gli stessi, soltanto la forza e l’occasione eran mancate perché in Napoli le cose andassero tant’oltre quanto sulla Senna. Bisognava un severo esempio per impedire il ritorno di simili avvenimenti. Per rispetto poi alle così dette capitolazioni, trattati di tal genere fra un monarca e i suoi sudditi erano una mostruosità; chi potrebbe consigliare al re di venire a patti coi ribelli? Una capitolazione è concepibile fra due parti belligeranti, e non già tra rivoltosi e il potere legittimo. E non erano forse i giacobini stati i primi a dar l’esempio del come convenga condursi in simili casi? Bastava rammentare il Tallien e i realisti di Quiberon (465).
Secondo il disegno del Nelson non il re solamente ma anche la regina doveva venire a Napoli, e tale era anche il desiderio di Carolina. Ma all’ultimo momento fu preso un altro partito, e Ferdinando solo s’imbarcò per Napoli. Se non che invece d’imbarcarsi sul Cavallo Marino, come gl’inglesi avean proposto, ei salì sulla fregata Sirena; si credette di non dovere far torto agli ufficiali nativi rimasti fedeli, giovandosi di nave straniera. Forse si pensò al Caracciolo, al quale nel viaggio alla volta di Palermo si era recata, certamente senza volerlo, una simile offesa, che non doveva aver poco contribuito allo sdegno e poi al tradimento di lui.
A un’altra cosa doveva riparare la regina prima di congedarsi dal marito. Poiché nel frattempo il Cardinal Ruffo avea ricevuto la sua aspra dichiarazione del 25, e nulla avrebbe potuto più vivamente offenderlo. Troppo leale e riguardoso egli era di certo da muover lamento dell’immeritato disfavore della regina e del torto ch’ella gli avea fatto. Si ristrinse a dichiarare che avea bisogno di riposo, e a significare il desiderio che gli si concedesse di ritirarsi, e la continuazione dell’opera da lui cominciata ad altre mani si affidasse.
La lettera del Ruffo, in data del 28 di giugno, era forse pervenuta a Palermo con la Sirena. La regina rispose senza indugio e sul medesimo tuono. Dacché se il cardinale era scaltro, non meno di lui era tale Carolina. Egli non avea detto di sentirsi offeso; né di averlo offeso la regina si mostrò consapevole. Tuttavia le parole di lei sonavano del tutto simili a espressioni di pentimento e di preghiera; ed ella le proferì col nobile impeto d una donna signoreggiata dalla coscienza di aver commesso un’ingiustizia. Che ritiro, che altre mani! Il cardinale dovea rimanere; chi poteva condurre a termine l’impresa così gloriosamente da lui avviata? Lo pregava, lo scongiurava di continuar l’opera. «L’ingegno, l’operosità, il cuore di V. Eminenza mi fanno sperar tutto. Domani il re parte; a voce potete meglio intendervi e mettere ogni cosa in ordine. Io pregherò tutti quelli che accompagnano il re a farsi presso di V. Eminenza interpetri della mia sincera e profonda gratitudine, della mia schietta ammirazione pe’ vostri grandi successi pressoché favolosi» (466).
E cosi furono dalle due parti ripristinate le antiche relazioni. È vero che il cardinale tornò più volte a significare il desiderio di potersi riposare dopo tante fatiche; ma forse ciò avvenne piuttosto per dileguare il sospetto che la prima volta avesse manifestato quel desiderio in un momento di stizza, ovvero per meglio provare se la regina nel pregarlo di restare al suo posto parlasse sul serio. E sul serio ella parlava davvero.
«Intendo, troppo bene quanto debba desiderare riposo e ritiro chi ha dovuto sopportare incomodi e travagli d’ogni maniera, e la ingratitudine che accompagna tutti i benefizj. Vostra Eminenza ha sperimentato ciò da alquanti mesi; s immagini quali debbono essere i miei sentimenti dopo trentun’anno! Posso quindi ammettere la sua noja, ma non la sua stanchezza. Chi opera fatti e scrive lettere piene di spirito e di finezza come lei, non può essere che le sue forze declinino» (467).
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La squadra reale levò le ancore la sera del 3 di luglio. Si componeva della Sirena, che aveva il re a bordo, e del Cavallo Marino, della scialuppa portoghese Ballon e d’una piccola nave da guerra siciliana Strombolo; la seguivano 37 bastimenti mercantili. Accompagnavano re Ferdinando l’Acton, il Castelcicala, l’Ascoli. Nello stesso tempo partirono da Palermo 1000 fanti e 600 cavalli, che già da parecchi giorni si tenevan pronti; i generali Burkhardt e Giuseppe Acton li condussero, per terra a quel che sembra, a Messina, a fin d’imbarcarli colà pel continente. Presero con sé nel partire la lettera di Carolina al cardinale e un’altra a lady Hamilton; in quest’ultima ella raccomandava al Nelson gl’interessi e la fama della sua casa, e nello stesso tempo significava il suo rincrescimento per non potere andare in persona e di viva voce assicurarlo della sua gratitudine per tutto ciò che avea fatto per lei e pe’ suoi (468).
Le cagioni per cui la regina rimase a Palermo non sono sicuramente chiarite, né con maggior certezza può dirsi se per propria risoluzione o perché da altri persuasa abbandonasse quel disegno che sulle prime senza dubbio avea formato (469). Forse le fu fatto notare, o notò ella stessa, che mentre ancora le passioni fervevano, la sua presenza non poteva servire che ad accenderle maggiormente. Il che non era verisimile, poiché la parte repubblicana giaceva atterrata, i capi di essa eran ridotti all’impotenza, mentre dall’altra parte entusiasmo toccava il più alto grado. Tuttavia è un fatto che questa cagione fu principalmente messa innanzi da Carolina alla sua fida amica: «Ho creduto di nuocere all’amore e all’entusiasmo che il re ispirerà e che verso di me non è lo stesso. Poiché odiata come io sono, addosserebbero a me tutta la colpa, mi rappresenterebbero come lo spirito del male e della vendetta» (470). Pure assai a malincuore si deliberò di restare. «È stato per me un sacrificio di non accompagnarlo,» confessava alcune settimane più tardi alla sua imperial figliuola; «ma dovetti convenire che la necessità e il dovere lo comandavano.» Nella lettera alla Hamilton si mescolavano espressioni di amarezza: «Che farei d’altronde in Napoli? Nessuno mi desidera.» E un’altra volta: «Noi qui andiamo tutti i giorni in chiesa a ringraziare Iddio, a portare in processione il SS. Sacramento perché benedica il mare, a pregare pel re e per Napoli. Questo è tutto quello ch’io fo, e lo fo volentieri; poiché nel resto sono inutile» (471). Più d’ogni altra cosa le stringeva il cuore e le riusciva difficile a sopportare che la mettessero in certo modo in disparte, trascurassero di farle pervenir notizie, non le lasciassero conoscere il corso degli avvenimenti. «Quando il re sarà a Procida e si troverà ivi la sorgente d’ogni bene e d’ogni male, debbo rassegnarmi ad essere dimenticata, ad esser lasciata nella pena e nell’incertezza. Ma» ella soggiunge «la mia buona amica vorrà, sebbene io sia relegata a Palermo, non dimenticarmi.» Talvolta pensava che la sua presenza in Napoli era necessaria, che senza di lei non potrebbero accomodarsi le cose, per esempio gli screzj fra l’ammiraglio e il cardinale: «Io prevedo tempeste, e allora sentiranno dolorosamente la mia assenza.» Ma allora tornava a dichiarare di non voler più rimettere il piede in Napoli, o almeno non prima che l’onore del trono fosse ripristinato e in modo tale da non lasciar più temere una recidiva pel futuro: «O il regno riprende la sua antica sicurezza e tranquillità, e allora tornerò ma come straniera che assolutamente non s’ingerisca di nulla; o il moto dei partiti continua come per l’innanzi, e allora resterò in Sicilia o mi ritirerò in qualche altra parte del mondo» (472).
Ella supponeva suo marito già nel golfo di Napoli mentre questi, non favorito anzi contrariato dai venti, si trovava an cora in alto mare. Una barca partita da Napoli il 5 incontrò la squadra reale a quaranta miglia marine di là da Capri; talché la regina avea ragione di supporre nel giorno 7 che fosse già arrivata; ma arrivata realmente non era. Dall’altra parte ella desiderava che Ferdinando non si trattenesse lungamente innanzi a Napoli e che non esponesse la sua persona: poiché di cattiva gente ce n’è ancora un grandissimo numero. in Napoli, e sapranno trovare il modo di avvicinarsegli» (473). Questa inquietudine, il dispiacere dell’insolita separazione (e mai non siamo stati tanto lontani, e per di più separati dal mare!»), il desiderio di rivederlo presto in seno alla famiglia, non la lasciavano più; ell’era in ¡spirito intorno a lui, lo accompagnava lungo il viaggio, contava le ore che dalla meta lo dividevano; udiva le grida di giubilo, vedeva i segni di gioja con cui il popolo saluterebbe l’amato sovrano; ma tuttavia voleva piuttosto vederlo ritornare sano e salvo, voleva che fedele alla promessa fattale si mostrasse si a’ suoi napoletani, ma rimanesse a bordo e non discendesse a terra (474).
Intanto ella non voleva restare inoperosa sulla sua isola. Secondo il suo costume e quella irrequieta attività che le era propria, ella si ingegnava di cooperare da lontano, per quanto stava in lei, a promuovere l’impresa, dalla cui riuscita l’avvenire suo e de’ suoi dipendeva. Faceva pervenire all’ammirato eroe comunicazioni e ragguagli (475); gli mandava persone che credeva gli potessero per uno scopo o per un altro essere utili; un certo Angelo, fra gli altri, ardito cosentino, che conosceva gli aditi sotterranei di Sant’Elmo; il quale però ebbe la disgrazia di cadere in mano di corsari, che spogliatolo lo sbarcarono a Cagliari.
IX
IL RE E I SUOI MINISTRI A BORDO DEL FULMINANTE
In Napoli il Méjean teneva sempre S. Elmo, assediato da forze composte di marinari inglesi e portoghesi, di milizie calabresi e di soldati russi. Pei francesi non si trattava più di difender Napoli; l’unica cosa che potevan fare era di uscirne sani e salvi per riunirsi agli altri corpi occupati nell’Italia superiore. Le condizioni eran per loro così sfavorevoli che pel momento dovevano abbandonare ogni disegno sull’Italia del centro e del mezzogiorno; si vedeva oramai quanto giustamente il Moreau avesse consigliato di ritirare tutte le truppe da quelle regioni, che facilmente si riconquisterebbero poi se nell’alta Italia si vincesse. Ma in mezzo alla irritazione, alla sete di vendetta, che dopo i combattimenti del gennajo agitavano gli animi del popolo non della capitale soltanto ma anche della campagna, neppure l’uscir sani e salvi appariva agevole impresa. Aggiungi che il Méjean, come tutti i generali francesi di quei tempi, voleva dalla funesta congiuntura trarre almeno qualche vantaggio personale, cioè mettere a prezzo la resa del forte ch’egli difendeva, ma che a lungo non poteva più resistere. Senza questo caso singolare, i francesi, non ostante la prevalenza dei nemici, avrebbero potuto giovarsi di parecchie occasioni per difendere con buon successo la fortezza.
Nel campo degli alleati le cose non procedevan mica meglio. Comandavano in primo luogo il Troubridge, in secondo il Ball e, quando questi dové tornare a bloccar Malta, l’Hallowell; tutti, s’intende, sotto gl’immediati ordini del Nelson. Ma anche il Ruffo, i cui poteri di vicario generale erano sempre in vigore, conservava la sua influenza e sapeva anche farla valere, dal che per l’animosità del Nelson contro di lui e per l’antagonismo nazionale fra napoletani, inglesi e moscoviti nascevano dissapori e contrasti d’ogni maniera. Il Troubridge senza credersi, come uomo di mare, legato alle prescrizioni d’un assedio in regola, aveva collocato alcune batterie a poco meno di 600 piedi dal castello, e oltre a ciò praticava delle mine per farlo saltare in aria. Pensava che se ciò gli riuscisse, importerebbe poco di mandare all’altro mondo quanti eran li dentro, nobili e repubblicani. Il Ruffo però, che amava la sua bella Napoli, si spaventò di tanta barbarie, e fece al capitano le più vive rimostranze contro un atto che per fortuna non fu recato a compimento. Poiché il Méjean alzò il capo, si mostrò come tutti i suoi pari baldo e tracotante, e minacciò di far di Napoli un mucchio di rovine. Se non che il Ruffo gli scrisse che farebbe passare a ili di spada tutto il presidio, e chiamerebbe il comandante responsabile di tutti i danni volontariamente recati alla città. Il Troubridge dal canto suo gli fece dire che, se continuava a mandare lettere scrittovi in fronte «Liberté, Egalité, Guerre aux tyrans» ecc. non che tenerne di conto, e’ non le leggerebbe neppure. Il francese da allora in poi prese un tono più conveniente. Ritornò anzi alle sue proposte interessate di resa, offrendo di consegnare il castello se l’avversario volesse sborsargli 1,500,000 franchi. Il Troubridge non credè necessario questo sacrificio di danaro; e il cardinale rispose: «con le armi e non con l’oro si fa la guerra.»
Come nelle alte sfere degli alleati regnava la discordia, cosi non mancavano pure animosità e contrasti d’ogni maniera tra le Ale dell’esercito assediante. I soldati regolari inglesi e russi guardavano con disprezzo le frotte poco disciplinate del duca di Salandra; al marinaro inglese i moscoviti parean barbari e non li poteva patire; e persino le forze regolari indigene gli sembravano di stare alla pari col resto della «marmaglia» napoletana. Il Troubridge si sfogava co’ suoi compatrioti lamentandosi amaramente dell’esercito del cardinale; «birboni e vili» egli diceva «come non ho mai visto i simili.» Lavorando innanzi al castello, un giorno entrò loro la paura addosso e si misero così disordinatamente a fuggire, che il Troubridge dové minacciare l’immediata fucilazione a chi non fosse trovato al posto assegnatogli. E tanto poco concetto credeva che avessero di giustizia e di convenienza, che la polvere, messa a sua disposizione dal Nelson, la faceva portare sotto la protezione degl’inglesi, «perché altrimenti i farabutti napolitani ne avrebbero rubata la metà e barattata l’altra con merce peggiore» (476). Certamente v’era in tali accuse del vero; ma il Troubridge e i compagni suoi sarebbero dovuti essere abbastanza equi da non lasciare inosservato ciò che in favore di quella gente militava. Casi d’improvviso spavento accadono anche ai migliori eserciti; e la lista dei morti e feriti, che nel corpo del Salandra toccavano una cifra senza paragone più alta che in quello del Baillie e del capitano inglese, porgevano eloquente testimonianza che i calabresi in generale non iscansavano le palle nemiche. Dall’altra parte non avrebber dovuto ignorare gl’inglesi di quanta afflizione, di quante cure e fatiche quell’accozzaglia, detta armata cristiana, era stata cagione a colui che l’aveva raccolta, e quali provvedimenti egli aveva dovuto prendere per evitare almeno i disordini più grandi. E infine era quella stessa gente che sotto gli auspicj del cardinale e col segno della croce avea compiuto l’inudita impresa, traversato da un capo all’altro il regno, e da poche piazze in fuori ricondottolo all’obbedienza. Che del resto anche gli uomini del Nelson in punto di disciplina non fossero angioli, lo dimostravano, appunto nel tempo dell’assedio, e il caso del soldato di marina o marinaro John Jolly che solo la benevolenza dell’ammiraglio salvò dalla pena di morte inflittagli dal tribunale di guerra, e le esortazioni che in tal congiuntura l’ammiraglio medesimo rivolse al capitano Troubridge perché più severamente punisse ogni violazione di disciplina e specialmente il «crime of drunkennes» (477).
Rimprovero non infondato però era quello che i soldati dell’armata cristiana avessero in gran parte colpa nei disordini e negli orrori che nella città non erano ancora del tutto cessati. Le strade e piazze che si trovavano fuori dell’azione militare offrivano ogni giorno lo spettacolo di schiamazzi e tumulti, talché le persone appartenenti alle migliori classi della cittadinanza per paura di esser segnalate come giacobini, e sotto tal pretesto rubate e maltrattate, non si arrischiavano di passarvi. Nei pressi di Napoli gli abitanti eran costretti a temere da una parte la plebe della città, dall’altra i giacobini dei castelli non ancora arresi; così a Posillipo dove i patriotti tenevan sempre una batteria, finché ad un notare, che godeva di una certa autorità presso di loro, venne fatto d’indurre il posto, forte di 25 uomini, alla partenza (23 di luglio) (478). Il cardinal Ruffo avea preveduto sì fatto scompiglio, e per questa ragione aveva anche desiderato la presenza del re. La plebe di Napoli credeva di operare secondo le intenzioni del suo offeso e scacciato monarca, quando tutti quelli che aveano aspetto di giacobini e patriotti perseguitava e sterminava. Allorché poi l’8 di luglio corse voce del prossimo arrivo del re, la sommossa scoppiò novamente. I furti e gl’incendj, la persecuzione e gli arresti dei sospetti imperversarono come alcune settimane innanzi, né mancarono daccapo casi di giustizia sommariamente fatta dalla moltitudine (479). Il capitano Hood, a cui il Nelson aveva affidato con un corpo di soldati di marina il comando del castello Nuovo e che, a quanto pare, seppe all’adempimento di tale ufficio unire anche quello del comando militare su tutta la città, fece i più grandi sforzi per rimettervi l’ordine (480); ma com’era egli possibile il togliere a quei selvaggi la fede che la loro condotta era conforme allo spirito della buona causa, quando aveano innanzi agli occhi ciò che accadeva sulle navi del Nelson e sull’isola di Procida, dove continuamente cresceva il numero dei carcerati e si sentiva sempre parlare di nuove condanne del tribunal militare? (481)
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Abbiamo già notato che il viaggio della squadra reale da Palermo a Napoli ebbe a soffrire per mancanza di venti favorevoli e però fu lentissimo. Quelli che circondavano Ferdinando ebbero in tal modo tutto l’agio di pensare a ciò che nella capitale li aspettava; e si dice che facessero in modo che il re durante il viaggio non udisse e non vedesse altro che cose atte ad accendere il suo sdegno contro i repubblicani (482). Lo scritto che Ferdinando IV diresse l’8 di luglio dalla squadra reale «ai suoi fedeli e amati popoli della capitale e del regno» (483) parve a coloro troppo mite. Cominciava col rammentare la divina Provvidenza, la quale avea coronato di buon successo gli sforzi suoi e degli alti alleati, mercé l’instancabile zelo del fedele e degno vicario generale Cardinal Ruffo e dei bravi capitani che avean con lui cooperato. Io son venuto» proseguiva a dire, «per far cessare l’anarchia, per difendere gli averi, per assicurarli contro gli assalti e gl’inganni degli empj ribelli, co’ quali non ho mai voluto che si trattasse, poiché le mie istruzioni sono sempre state che non rimanesse a loro altro scampo che la mia grazia e clemenza che sola essi potevano e dovevano invocare.» Ai sudditi serbatisi fedeli, che per difendere la santa religione e la corona avean preso le armi, egli significava la sua piena riconoscenza; e concludeva con la promessa che, come avea fatto pel passato, cosi per l’avvenire consacrerebbe la sua incessante e indefessa cura al loro bene, alla loro difesa, alla sicurezza loro. «Dio vi colmi delle sue celesti benedizioni a seconda dei voti del vostro amatissimo Padre e Re.»
Il giorno, di cui portava la data un tal manifesto, alle 9 della mattina la squadra reale entrò nello stretto di Procida. Il capitano Foote comparve a bordo della Sirena per prendere gli ordini di Ferdinando, che lo pregò di condurre il resto delle navi a Capri mentitegli con la sua fregata resterebbe a Procida. Il Foote stesso ebbe immediatamente dopo, insieme col capitano Nisbet della Talia, una missione per un’altra parte del Mediterraneo; era manifesto che al Nelson importava di allontanarlo da Napoli dove appunto allora la capitolazione, che portava la sottoscrizione del Foote, doveva essere rimessa in forse.
Re Ferdinando non aveva in animo di rimanere a Procida e a bordo della sua fregata Sirena; già in Palermo era stato deciso ch’egli disporrebbe della nave ammiraglia inglese e prenderebbe su questa la sua sede. La nuova del suo imminente arrivo si diffuse con la rapidità del lampo in tutte le parti della città, donde giovani e vecchi, uomini e donne di tutte le classi alla spiaggia di Chiaja e della Marinella affluirono. Molti si gettarono in barche; e queste in breve, infinite di numero, con le loro varie banderuole sventolanti, solcarono il mare per correre incontro al monarca sì lungamente desiderato. Quando il 10 di luglio verso le 10 della mattina la nave reale si mostrò nel golfo, scoppiò da per tutto un alto grido di benvenuto, tutte le navi da guerra fecero salve, e anche le batterie del Troubridge tonarono con forza raddoppiata contro le mura di S. Elmo, che lo stesso giorno di buon’ora aveva alzato la bandiera bianca, ma al comparire della nave reale nel golfo l’aveva abbassata daccapo e inalberata invece la tricolore francese. La folla sul lido e sulle barche parve come impazzata; da per ogni dove un chiamare, un gridare, un far cenni, un dimenar di cappelli, un’esaltazione insomma quale soltanto la più sfrenata gioja e il più. appassionato desiderio posson produrre, talché persino gli stranieri che si trovavan presenti ne furono colpiti e commossi. Si mescolavano però a tanto strepito anche grida selvagge; alcuni levavano in alto le armi, giuravano morte e sterminio ai repubblicani, ai patriotti, ai giacobini, invocavano con stridula voce: Giustizia! Giustizia!, alludendo ai tribunali militari.
L’aspettazione di coloro che credevano il re scendesse a terra, rimase delusa. Ciò non era nel suo disegno, ed egli aveva, com’è detto dianzi, promesso alla regina di non farlo. D’altronde le condizioni di Napoli e specialmente quelle del palazzo reale, situato sotto il cannone di S. Elmo, non erano tali da consigliare al re la dimora nella sua riacquistata metropoli (484). Alle 4 di sera Ferdinando montò a bordo del Fulminante, dove tutto era preparato per accoglierlo (485). Il suo arrivo si riscontrò con un fatto che parve bene augurato. Il re stava sul ponte del vascello e dirigeva il cannocchiale verso S. Elmo, quando una palla degli alleati colpì l’antenna della bandiera tricolore, talché quella andò in pezzi e questa cadde nella polvere. Subito dopo fu alzata la bandiera parlamentare, per la seconda volta in quel giorno, e gli assedienti cessarono il fuoco. Intanto Fabrizio Ruffo s’era recato sul vascello del re. Dopo i primi saluti cadde il discorso sulle capitolazioni dei castelli Nuovo e dell’Uovo, che il cardinale difendeva e volea veder puntualmente eseguite; il che contrastava manifestamente all’opera del Nelson, il quale s’era permesso di mettere in carcere coloro che avean capitolato. Ma l’Hamilton tenne fermo alla sua massima: non convenire al re il trattar con i ribelli; mentre il Nelson sosteneva il principio politico e militare, che bisognava profittar del momento per estirpare il male dalle radici; se i repubblicani andavano impuniti, servirebbe l’esempio ad accender lo zelo di molti altri male intenzionati, e simili altre cose; fino a che Ferdinando, che in cuor suo inclinava senz’altro da questa parte, si dichiarò per l’opinione dei due inglesi (486).
La sera dell’11 di luglio fu conclusa fra il colonnello Méjean dalla parte francese, e il duca di Salandra e i capitani Troubridge e Baillie dalla parte degli alleati una capitolazione, secondo la quale il presidio francese si dava prigioniero di guerra e, fino a tanto che non fosse accaduto uno scambio regolare, si obbligava a non prestar servizio contro gli alleati; gli ufficiali conservavano le armi, e insieme con i soldati, ma questi senz’armi, dovevano su navi della loro nazione esser condotti in Francia; per contrario dovevano esser consegnati tutti i sudditi di S. M. Siciliana che si trovavano nel castello e tutti i danari pubblici ovvero provenienti da saccheggi (487). Il giorno seguente si procedè all’esecuzione del trattato; la quale cominciò col fare uscire tutti gli abitanti del castello a fin di scernere e separare quelli che come napoletani non erano compresi nella capitolazione. Qualcuno di essi avea cercato di scapolarsela travestito in uniforme francese; ma fu riconosciuto e lo stesso Méjean prestò in tali ricerche servizio agli alleati (488). Il general Matera, che avea servito nell’esercito francese e però credeva di poter come francese considerarsi, dovette allo stesso modo essere consegnato come napoletano; così pure il generale Belpuzzi o, come scrive il Pepe, Belpulsy. Poiché questo tristo lavoro fu finito, il presidio francese si mise in marcia senz’armi e senza suon di tamburo, soltanto col sacco sulle spalle; e anche questo giunti sulla riva dovettero, prima d’imbarcarsi, lasciar frugare, se per caso vi si trovasse roba nascosta.
Alle 9 della mattina, alzata solennemente e con 21 colpo di cannone dalle navi del Nelson salutata, la bandiera reale sventolava sulle mura di S. Elmo; e nel Carmine maggiore si celebrava un servizio divino di lode e ringraziamento al Dio degli eserciti per un tal fatto che assicurava in tutta la città la vittoria alla causa del re. Mentre il cardinale, alteramente a cavallo e circondato da numeroso stato maggiore, faceva il suo ingresso in città e scendeva al palazzo della famiglia Bagnare al Mercatello dove pose il suo quartier generale, il capitano Troubridge si recava sul Fulminante per consegnare al re le chiavi di S. Elmo e le bandiere del presidio repubblicano (489). Ferdinando fece senza indugio partire alla volta di Palermo una nave perché rimettesse nelle mani della regina i trofei.
Lusingavano l’animo di Ferdinando gli omaggi che continuamente dalla città gli venivano; ogni giorno centinaja di barche, adorne dei colori reali, con suoni e grida intorno al Fulminante si stavano, aspettando che il re si facesse vedere. Anche deputazioni giungevano dalla città e da diverse parti del regno; erano ricevute nella parte posteriore della nave ammiraglia, dove il re teneva formalmente la sua corte, dava udienza come avrebbe potuto fare in palazzo, conferiva con l’Acton, col Nelson, col cardinale. Una questione che domandava d’essere urgentemente decisa era quella circa le persone che si trovavano sulle polacche tuttora trattenute dall’armata inglese. La lunga incertezza della sorte che le aspettava faceva il loro stato quasi intollerabile, e per travagli e incomodità inferiore soltanto a quello dei loro antichi compagni, che su «navi prigioni» attendevano giudizio e condanna. Poiché questi erano veri e proprj carcerati, i quali fatti segno agl’insulti e mali trattamenti dei loro guardiani calabresi, nutriti appena tanto da non morire di fame, taluni mezzo nudi e in zucca esposti sopra coperta agli ardenti raggi del sole o ammucchiati a centinaja negli spazj sottostanti, menavano una esistenza veramente tormentosa. Il re ordinò che fossero assoggettati a formale processo e consegnati alle autorità deputate a tale ufficio.
Queste cagioni forse, o i provvedimenti presi dal Nelson per la partenza dei prigionieri da guerra di S. Elmo alla volta di Tolone (490), spinsero i già rinchiusi negli altri due forti a fare d’accordo un passo per la loro finale liberazione. «Da ventiquattro giorni,» così essi si lamentavano, «stiamo qui senza poter partire, come un trattato concluso con una delle più colte nazioni d’Europa ci aveva promesso» (491). Si lasciavano mancare delle cose più necessarie, dormire sulla nuda terra, nutrire di pane ammuffito con acqua putrida e con vino mescolato ad acqua di mare; «già s’eran dati casi di malattie contagiose che la vita di tutti minacciavano.» Alle rimostranze loro il Nelson fece il sordo; rispose che la lor sorte dipendeva dal re, «il quale era il giudice più atto a giudicare il merito o demerito de’ suoi sudditi.» Se l’ammiraglio mettesse la supplica nelle mani di Ferdinando, non è noto; certo è solamente che l’ora della liberazione non sonò per quegli infelici.
Ferdinando stava sempre in forse tra la severità e la clemenza. Come in Palermo, così a bordo del Fulminante c’erano su questa materia due partiti che si disputavano l’efficacia sull’animo del re. Ma la decisione definitiva non pareva dubbia. Per l’intero perdono parlava presso il re solamente il Ruffo co’ suoi aderenti; da lontano lord Keith ammoniva il suo famoso collega che non tirasse troppo la corda, che non prestasse troppo orecchio agl’incitamenti dei realisti che lo circondavano (492). Ma il Nelson non dava ascolto se non alla passione che lo signoreggiava, ed alla sua propria maniera di vedere che, quanto grande e nobile nelle cose della sua professione, tanto era debole e meschina in politica. Era del resto, come da più luoghi delle sue lettere apparisce, sofferente di salute in tutto quel tempo, il che dava stimolo alla sua eccitabilità naturale e lo faceva inclinare a quei ciechi sentimenti di rigore e di vendetta che intorno al re dominavano. In tale stato di cose le accuse, le ricerche, le persecuzioni, gli arresti delle persone, i sequestri dei beni dovean prendere di giorno in giorno maggiore estensione. «Già più di 4000 famiglie hanno parenti in prigione,» scriveva verso la fine di luglio il Troubridge, al quale, già zelante fautore di severo governo, parve poi che le cose fossero spinte tropp’oltre, talché scrisse: «se non si dà un’amnistia, non si può sapere dove si andrà a finire. La popolazione non ha altro pensiero dalla vendetta in fuori, e presterà mille giuramenti per procurarsela in qualche modo. Fanno a gara a pigliar di mira le persone con l’intendimento poi di rubarle. Dei beni sequestrati poca cosa arriva al tesoro del re, perché tutti rubano» (493).
I giudici sedevano sempre a Procida come per ¡’innanzi, ma per la crescente quantità di affari ne fu aumentato il numero. A mezzo il luglio giunse da Palermo Gius. Guidobaldi; oltre di lui erano siciliani per la più parte quelli che a tale ufficio si adoperavano. Ma il più temuto nome rimase sempre quello di Vincenzo Speciale, che sotto un aspetto di malvagità e crudeltà diabolica era dalla fama rappresentato. Non va dimenticato però che tutto si esagerava; e non sembrano affatto nel torto coloro a cui lo Speciale apparve come un bambino innocente a paragone di Giorgio Jeffreys in Inghilterra e Fouquier-Tinville in Francia (494).
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https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1885-Fabrizio-Ruffo-Barone-von-HELFERT-2025.html#LIBRO_TERZO