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“FABRIZIO RUFFO RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI” scritto da Barone Von HELFERT Vol. Terzo (VI)

Posted by on Mar 25, 2025

“FABRIZIO RUFFO RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI” scritto da Barone Von HELFERT Vol. Terzo (VI)

CAPUA, GAETA, PESCARA

In Palermo il principe Tommaso Corsini si apparecchiava alla partenza. Prese dal ministro austriaco e dalla regina le più caldo commendatizie per trovare buona accoglienza a Vienna. Gli altri ministri toscani rimasero pel momento in Sicilia. «Sono» scriveva di loro la regina, «gente tranquilla e stimabile; ma si sentono profondamente offesi dal divieto di toccare gli stati imperiali, dal quale si considerano senza veruna loro colpa quasi disonorati, specialmente l’ottimo e povero Seratti.»

Il Corsini potè portare lieti messaggi. Perché il dì 11 di luglio, mentr’egli era in procinto di partire, giunse la novella del felice arrivo del re a Procida. Subito dopo pervennero alla regina altre buone nuove. La sera del 14 sul tardi arrivò nel porto di Palermo Francesco Ruffo, il quale consegnò lettere di suo fratello del 6 e dell’11; e il giorno appresso, ricorrendo la festa di Santa Rosalia, si celebrava appunto nel Duomo un solenne servizio di ringraziamento e la regina e tutta la real famiglia vi assistevano, quando giunse in porto il brigantino che, mandato dal re dopo l’occupazione di S. Elmo e favorito dal vento, avea fatto in meno di tre giorni la traversata da Napoli a Palermo. Le bandiere francesi la regina le fece appendere come segno di vittoria nella cattedrale; per contrario le due bandiere della «Vesuviana» furono per suo ordine trascinate per le strade e sulla piazza innanzi al castello per mano del carnefice arse, e le ceneri buttate nel mare. Seguirono suoni di campane e salve d’ogni maniera del castello, delle navi e del presidio, ed altri simili segni di pubblica allegrezza (495).

In una lettera dello stesso giorno alla Hamilton Maria Carolina attribuiva un ingegnoso significato alla caduta della bandiera repubblicana dai muri di S. Elmo: «Certamente ciò dev’essere accaduto per effetto d’un colpo di cannone tirato dagl’inglesi. E questo, io credo, significa che, avendo il re dato l’impulso che ha riacceso la guerra, del quale impulso ei fu disgraziatamente vittima e sarebbe anche rimasto tale senza l’ajuto della vostra gran nazione e del nostro liberatore Nelson, significa, dico, che questa guerra deve portar distruzione a quella vergognosa repubblica che tante sventure ha portato a noi tutti.» Non rifiniva di ringraziare il Nelson e i suoi bravi capitani che chiamava «allievi del nostro eroe e liberatore,» i quali per lei e pe’ suoi avean tanto lavorato e sofferto (496). Ma anche il cardinale fu da lei vivamente ringraziato per aver contribuito alla onorevole resa del forte, sebbene ella non nascondesse alla sua amica che aveva molte cose nel cuore contro di lui. Innanzi tutto Tesser egli poco diligente nello scriverle e nel mandarle ragguagli diretti e diffusi intorno a ciò che accadeva o che si apparecchiava, era cagione ch’egli le cadesse dall’animo. Oltre di che le nomine che Fabrizio Ruffo faceva, le persone ch’e’ sceglieva ai pubblici ufficj non sempre le piacevano; c’erano, secondo lei, fra quelle molti colpevoli o almeno sospetti, che non si potevano tollerare (497). Dall’altra parte il Ruffo avea più d’una volta rifiutato persone mandategli dai ministri e anche dallo stesso re; del che Carolina era scontenta, e si sentiva specialmente offesa quando il rifiuto toccava a uno de’ suoi protetti. Scriveva a lady Hamilton sembrarle cosa ridicola che il cardinale domandasse di esser lasciato tranquillo dalle spie. Egli tiene quest’espressione da bricconi che l’hanno inventata per rendermi a lui odiosa e per farmi torto $ e in sostanza danno così soltanto a conoscere quanta paura abbiano che sieno scoperti i loro cattivi tiri. Un uomo che teme le spie dà a conoscere checommette azioni di natura equivoca» (498). Chi più aveva perduto nella sua stima era il Micheroux, al quale ella facea carico delle concessioni eh erano state fatte o si volevan fare al nemico. «Il suo affare è infame. Ha forse voluto dividere col Méjean i 150,000 ducati? spero che non li avranno sborsati loro. Ma più vergognoso e più dannoso per noi è l’armistizio, poiché si abbassa nell’opinione dei nostri alleati ed amici, e ci toglie ogni fiducia. Nei tempi più tristi, nei giorni dell’abbandono delle nostre truppe dopo la ritirata da Roma, non eravamo scesi a tanto; nel momento presente sarebbe il colmo della stoltezza» (499).

In quel tempo l’animo di Carolina era singolarmente amareggiato. I clamorosi omaggi che suo marito nel golfo di Napoli riceveva, poteano certamente rallegrarla; ma poi ricominciava a domandare a sé stessa: «Mi deve ciò illudere? Hanno fatto lo stesso per lo Championnet, e lo farebbero pel Macdonald se con 60,000 uomini ritornasse» (500). Dopo la presa di S. Elmo scrisse a lady Hamilton che sperava ch’ella volesse senza indugio fare una visita al castello per respirare migliore aria e godere della magnifica occhiata. Vedrete,» aggiungeva con amaro scherzo, «in tal congiuntura tutte le dame e i signori; spero che ne sarete sodisfatta» (501). La stessa disposizione d’animo appariva dalle sue lettere a Vienna, alla qual città sperava ormai di potere scrivere più spesso, e di averne regolarmente risposta; tutti gli otto giorni doveva partire un bastimento diretto al littorale austriaco. Se non che il principio di queste regolari partenze fu differito da una settimana all’altra, senza dubbio per paura dell’armata francese e spagnuola, delle cui manovre si faceva daccapo un gran discorrere.

Dopo la caduta di S. Elmo il Nelson attendeva a prendere disposizioni per assediar Capua e Gaeta con maggiori forze, quando venne un ordine di lord Keith, del 27 di giugno e del seguente tenore: «Il contrammiraglio farà partire quante più navi sarà possibile per le acque di Minorca, salvo il caso che bisogni badare a qualche squadra francese, sia nelle vicinanze della Sicilia sia nella linea verso Siria o Egitto.» La esecuzione di quest’ordine avrebbe attraversato tutti i disegni del Nelson contro Napoli. Avendo sbarcato tutti gli uomini di cui poteva fare a meno sulle navi a fin che cooperassero alla conquista del regno, non poteva lasciar partire né pure una nave; «e se si volesse decidere quale fosse da preferire, il possesso delle Baleari o l’assicurazione dei due regni di Napoli e Sicilia, la scelta non poteva essere dubbia.» Non si dissimulò la portata di tal disobbedienza: «ma come in precedenti congiunture ho spesso arrischiato la vita per la buona causa, cosi volentieri arrischio ora il mio posto; un tribunale di guerra può giudicarmi colpevole, il mondo approverà la mia condotta.» S’era talmente messo in capo di essere il liberatore e sostenitore del trono di qua e di là dal Faro, che a nessun patto voleva cessar l’opera prima di averla recata a compimento. In questo senso rispose al suo superiore: «Appena la sicurezza dei regni di S. M. siciliana sarà garantita, non indugerò a adempiere gl’incarichi commessimi; ma fino a che i francesi si trovano in possesso di una delle fortezze del paese, tutto sarebbe rimesso in pericolo se non vedessero più la mia armata» (502).

Ma con la ripresa delle fortezze non era tutto finito. Il regno continentale, sebbene in tutte le sue parti riconquistato, non era tuttavia sicuro da nuovi torbidi fino a che di là dal confine un usurpato potere dispotico continuava la sua opera disordinata. Fu dunque risoluto, secondo le idee di Carolina che già da un pezzo avea trattato di ciò col cardinale, che, appena ristabilita la legittima autorità in Napoli, si procedesse a fare il simile nei vicini stati papali. Si faceva assegnamentoper quest’impresa sul gran corpo russo, che l’imperator Paolo da lungo tempo aveva promesso e che si congetturava già giunto nel ferrarese e in procinto di marciare verso il mezzogiorno (503). A questo fine doveva una divisione dell’armata cristiana avanzare come vanguardia oltre al confine, e il cardinale ne affidò il comando al suo luogotenente colonnello Rodio (16, 17 di luglio). Il quale non indugiò ad annunziare il suo prossimo arrivo alle popolazioni dello stato romano ed a tutti gli ufficiali pubblici tanto del governo pontificio quanto del governo provvisorio repubblicano, intimando loro che all’autorità sua si sottomettessero. Proclamò l’ordine e la legalità affermando che non andava a punire ma a liberare; promise grazia ed obblio in nome del re ch’e’ rappresentava, salvo a coloro che armata mano alla marcia delle sue colonne contrastassero. Ordinò che dappertutto gli alberi della libertà si abbattessero, si deponessero le armi, e in testimonianza dei mutati sentimenti s’inalberasse il segno della croce, quale soleva portare l’armata cristiana, e a canto a quello i colori napoletani. Pensava finalmente ai loro bisogni, alla penuria dei mezzi di sussistenza; Napoli sovverrebbe, poiché «sebbene i nemici abbiano in sette mesi d’infelice dimora nel regno tentata ogni via per impoverirlo, è non pertanto cosi feconda di generi, che potrà con l’unione sua amichevole al vostro stato somministrarvi quel molto che a voi manca, e che avete finora desiderato inutilmente» (504).

In quel mentre una parte dell’armata francese aveva compito la sua riunione con la spagnuola; la Gallispana, 43 vascelli di linea in tutto, aveva, il 29 di giugno, lasciato il porto di Gartagena, passato l’89 di luglio (505), lo stretto di Gibilterra, e gittate l’ancora nel porto di Cadice. L’ armata poteva avere per iscopo l’imboccatura del Tago a fin di prendere Lisbona; dall’altra parte si faceva sempre più stringente il timore che si potesse mirare a un colpo sulle isole inglesi, per la cui difesa non c’era in quelle acque una sufficiente forza navale disponibile. Seguì un secondo, poi un terzo ordine del Keitb, in data del 9 e del 14 di luglio, i quali giunsero il 19 e il 22 nelle mani del Nelson e gli facevano le più vive premure di riunirsi alla grande armata con tutte le sue navi o almeno con la maggior parte di esse. Ma anche questa volta il Nelson sul punto principale rimase fermo al suo antico proposito: «prima di aver cacciato dal regno quei birboni dei francesi egli non poteva privarsi di una sola nave; la sicucurezza del regno napoletano dipendeva dalla dimora della sua armata; valer meglio il difender Napoli e rischiar Minorca che difender Minorca e rischiar Napoli» (506). Nello stesso tempo però vedendo che, non ostante la cura ch’egli voleva dare al suo principale ufficio, non poteva lasciare senza soccorso l’armata delle Baleari, mandò da prima il contrammiraglio Duckworth con tre vascelli di linea e una corvetta a Minorca (507), gli diè facoltà di prender seco quanti navi amiche incontrasse per via, e provvide che dalla parte della squadra di Siria e di quello di Malta altri vascelli di linea fossero messi a disposizione del Keith.

S’esponeva a un doppio rischio, poiché, oltre al disobbedire a ordini superiori, impiegava i suoi uomini, soldati e marinari, a fini a cui non erano destinati, ordinando dopo la presa di S. Elmo, quando quella di Capua doveva essere con maggiori forze procurata, che i suoi uomini si spingessero a parecchie miglia dentro nel paese, dove, se l’impresa falliva, potevano esser tagliati fuori e andar perduti per le navi rimaste quasi senza nessuno. Né mancò l’ammiragliato di biasimare per l’una e per l’altra cosa lord Nelson (508); se non che in quel precipitare degli avvenimenti e con la lentezza delle comunicazioni fra il Mediterraneo e Londra, le condizioni delle cose cambiavano presto, in modo che le esortazioni e i biasimi non eran più opportuni.

La fortuna sorrideva oramai al suo favorito, i cui successi superavano qualunque ardita aspettazione. Erano 4000 fra calabresi, svizzeri, russi e albanesi con 1000 suoi uomini, che sotto il comando del Troubridge e dell’Hallowell mossero verso Capua, dove giunsero il 19 e il 20. La città, com’è noto, assediavano da alcune settimane le schiere irregolari del duca di Roccaromana, alle quali poi s’era aggiunto un corpo di siciliani sotto il generale Burkhardt. Il Roccaromana, dopo aver definitivamente rotto con la rivoluzione, era, a quanto pare, rientrato nella piena grazia della coppia reale. Il Nelson solamente, più severo della corte, non voleva saperne nulla, ed esortò i suoi capitani a non fidarsi punto di lui, anzi a non permettergli neppure di comparir loro dinanzi (509). Come essi potessero eseguir si fatto ordine, dovendo operare in comune con i soldati e con i volontarj indigeni, non è noto; fatto sta che l’assedio progredì felicemente, e la riuscita finale non poteva esser dubbio.

Ferdinando IV sul Fulminante ebbe in quei giorni un continuo seguito di buone nuove. Il 27 le salve di tutte le navi del Nelson salutarono la presa di Livorno per opera degli austriaci e dei russi, che cominciavano a prevalere definitivamente nell’Alta Italia. Il fatto non poteva non esercitare efficacia sulle cose del mezzogiorno. Il 28 di luglio alle 4 di sera il capitano Troubridge salì a bordo della nave ammiraglia con la notizia della caduta di Capua, e poco appresso portò il capitano Oswald le bandiere prese ai nemico. La capitolazione, firmata per parte dei francesi dal generale di brigata Girardon comandante di Gaeta, e per parte degli alleati da Troubridge, Burkhardt e Baillie (510), era conclusa alle stesse condizioni di quella di S. Elmo, e si riferiva strettamente al presidio francese-polacco-cisalpino — 2817 uomini al momento della resa — escludendo i nativi italiani che erano abbandonati a discrezione del re; uno dei patriotti che travestito da capitano cisalpino voleva svignarsela, fu riconosciuto dal commissario francese, preso pel collo e consegnato al commissario degli alleati (511).

***

Fabrizio Ruffo avea messo piede sul continente il dì 8 di febbraio; era un venerdì, secondo la general credenza giorno nefasto, nel quale non bisognerebbe por mano a nulla. Ma per lui fu il venerdì sempre di buon augurio, poiché i suoi più felici successi furono in quel giorno conseguiti: dal 21 al 22 di marzo, che era un venerdì, cadde in suo potere Cotrone; il 10 di maggio, anche un venerdì, Altamura, la più importante e forte piazza dei ribelli in quella regione, fu vinta; dopo che nella notte del venerdì 14 di giugno fu preso il castello del Carmine, nelle ore seguenti le colonne dell’armata cristiana entrarono nella capitale; il venerdì 12 di luglio, per la prima volta dopo i sanguinosi combattimenti del gennajo, sventolò novamente la bandiera reale sulle mura di S. Elmo che avea capitolato il giorno innanzi; e se Capua si arrese di domenica, le trattative erano cominciate il giorno di venerdì 26 di luglio (512).

Alle operazioni innanzi a Gaeta sembra che l’esercito del Ruffo non prendesse parte degna d’esser menzionata, il che si spiega per la situazione di quella piazza forte, che andava specialmente attaccata dal lato del mare. Il Nelson non tardò a fare gli apparecchi d’un formale assedio. Al capitano Louis del Minotauro ordinò che, preso un certo numero di soldati. di marina a bordo, facesse vela a quella volta, e giunto innanzi la fortezza invitasse il comandante a seguir l’esempio di S. Elmo e di Capua ed arrendersi. Già il 31 si mostrò il Girardon pronto alla capitolazione, che lo stesso giorno a bordo della nave ammiraglia inglese fu conclusa, e dal ministro Acton e dall’ammiraglio Nelson firmata (513). Non essendo stata la fortezza regolarmente assediata, ma bloccata solamente, i patti furono pel presidio più favorevoli: poterono uscire con gli onori militari e non furono considerati come prigionieri di guerra; solo ai sudditi del re Ferdinando toccò la stessa sorte che a quelli di S. Elmo e di Capua; si trovava tra loro il principe Pignatelli-Moliterno.

Quasi nello stesso tempo capitolarono Pescara sull’Adriatico e il forte di Civitella del Tronto; il comandante di entrambi, il conte di Ruvo, che a uso repubblicano si chiamava semplicemente Ettore Carafa, dovette arrendersi a discrezione; senza dubbio fu Pronio co’ suoi calabresi che riportò questa vittoria. Il conte Ruvo fu consegnato ai tribunali di Napoli.

Il regno continentale era oramai sgombro da ogni resistenza armata. Soltanto nel vicino stato romano si trovavano ancora francesi co’ loro aderenti; nel castel Sant’Angelo, in Civitavecchia che dopo mesi di accanita resistenza si era dovuta arrendere, nel Perugino, in Ancona. Già il Rodio con una divisione dell’armata cristiana era entrato nel territorio degli stati già pontiflcj, ed aveva invitato la popolazione a seguire il suo re. Si mise all’opera anche il Nelson; il quale, com’egli stesso scrisse al conte Spencer, riguardava suo principio e dovere «l’entrare con tutte le sue forze in campo quando si trattava di mandare al diavolo i francesi e ridonare pace e ben essere all’umanità (514). Subito dopo la resa di Gaeta ei mandò 500 de’ suoi marinari contro Civitavecchia; Fabrizio Ruffo fece partire per lo stesso scopo 600 svizzeri. Ebbe il comando delle forze d’assedio il capitano Hallowell, mentre il suo compatriotto e compagno d’armi Louis doveva appoggiar col Minotauro l’assalto dal lato di mare. Nello stesso tempo una parte della squadra inglese doveva incrociare lungo le coste sino a Livorno, tenere in iscacco, per quanto era possibile, i francesi, e promuovere e ajutare la rivolta della popolazione (515).

Anche degli ordini del suo superiore il Nelson si ricordò, e spedì due altri vascelli di linea, Belle-rofonte e Zelante, a Fort Mahon. La Gallispana aveva intanto lasciato le acque di Cadice il 20 di luglio, lord Keith incrociava a occidente di Gibilterra, e per il momento ogni pericolo nel Mediterraneo era dileguato.

XI

LA CORONA AL MERITO

Per lo spazio di più di quattro settimane Ferdinando IV si era privato del suo godimento favorito a fin di dedicarsi a quei doveri che la sua qualità in tal congiuntura suprema gl imponeva (516). Il Ruffo non credeva che il re avesse ancora adempiuto al suo incarico, giudicava anzi che la presenza di lui fosse più che mai necessaria, mentre al difficile ufficio dèi giudice doveva accompagnarsi il lavoro del carnefice. Ma Ferdinando non si lasciò più trattenere, e anche la regina desiderò ch’egli si riducesse in luogo sicuro, non volendo più tollerare le angustie onde le era cagione il saperlo presso il focolare della rivolta. Col re doveva anche il Nelson tornare in Sicilia; il commodoro Troubridge prenderebbe, come due mesi prima, il comando della squadra rimasta nel golfo di Napoli, mettendosi costantemente d’accordo col luogotenente reale.

Quest’ultimo ufficio fu conservato al Cardinal Ruffo, verso il quale tanto più si largheggiò di lodi e di lusinghe (517) quanto meno si aveva intenzione di lasciargli, come per lo innanzi, braccio libero. Prima che il re si accingesse a partire dal suo regno continentale, prese provvedimenti per la condotta dei pubblici affari durante la sua assenza. Il posto di vicario generale, creato per le passate circostanze straordinarie, fu abolito; il cardinale Fabrizio Ruffo doveva per l’avvenire portare il titolo di luogotenente e di capitano generale a capo della suprema Giunta del buon governo; la Giunta dipendere immediatamente dal re, e per mezzo dell’Acton e del Castelcicala riceverne gli ordini. Il Ruffo nella sua nuova qualità si trasferì, per volere di Ferdinando, al palazzo reale. Membri della Giunta di governo erano: il consigliere di stato Marchese Don Saverio Simonetti, i due luogotenenti generali Filippo Spinelli e Daniele Gambs, dei quali uno doveva sempre prender parte alle deliberazioni; il direttore di finanza Gius. Zurlo; il direttore della giustizia Eman. Parisi; il direttore degli affari ecclesiastici Fra. Migliorini; a vicenda uno dei direttori della guerra, maresciallo Ferd. Lorgerot, colonnello Gio. Batt. Colajanni, e luogotenente colonnello Ant. de’ Torrebruna; uno dei principi della chiesa, arcivescovo Capobianchi di Capua e vescovo Torrusio di Capaccio; come segretario con voto l’avvocato fiscale D. Domenico Martucci (518). Fu per l Acton e pel Nelson una gran sodisfazione che per tal modo all’onnipotenza del Ruffo, il quale secondo loro aveva usurpato il suo primo ufficio di vicario generale, fossero assegnati salutari confini; poiché quanti lo circondavano erano talmente corrotti che non si otteneva nulla se non per danaro. «I soli uomini incorruttibili,» soggiungeva l’ammiraglio al conte Spencer, «mi sembrano l’Acton e il Belmonte» (519).

Anche la Giunta di stato ebbe un nuovo ordinamento e un cerchio di funzioni circoscritto. Ne stava a capo come presidente Felice Damiani, giudici erano La Rossa, Di Fiore, Sambuto, Speciale; faceva da fiscale il Guidobaldi, da segretario Salvatore di Giovanni; avevano ufficio di difensori il Vanvitelli e il Moles, di procuratore de’ rei Alessandro Nava; l’esecutore si chiamava Tommaso Paradiso. La Giunta doveva conformarsi alle «procedure sicule» ed era munita di straordinarj poteri. Dovevano pure esser mandate nelle province le «visite di Stato» con istruzioni e ufficj uguali a quelli della Giunta; al qual provvedimento invano il Ruffo si oppose, dichiarandolo anche superfluo, poiché i patriotti delle province o erano già puniti con multe, o dalla furia popolare uccisi, o rifugiatisi nella capitale (520). Fu finalmente formata una giunta di generali sotto la presidenza del luogotenente generale Spinelli per ricercare la condotta degli ufficiali negli ultimi tempi e consegnare i colpevoli al tribunale di guerra.

Per rispetto a coloro che erano compresi nelle capitolazioni dei castelli Nuovo e dell’Uovo e non si trovavano in prigione o sotto accusa, bisognava finalmente prendere un partito. In un «appuntamento» della gran Giunta del 1° di agosto furono condannati all’esilio e al sequestro dei beni; e fu ordinata una esatta descrizione di ciascuno di loro. A tale effetto il giudice di polizia con due membri della Vicaria si recò sulle polacche, dove furono tutti chiamati l’uno dopo l’altro e dovettero sottoscrivere un foglio, obbligandosi a star lungi dai confini dei reali dominj sotto pena di morte, e con impunità, in caso di contravenzione, a chiunque gli ucciderebbe (521). Gl’indugi che furono l’effetto di tali procedimenti impedirono ancora che le polacche rimanessero libere, e quelli che vi dimoravano videro differita di molti e molti giorni la speranza di essere trasportati in Francia.

Il 1° di agosto 1799 fu celebrato nel golfo di Napoli l’anniversario della battaglia navale di Abukir. Il re pranzò dall’ammiraglio, e quando bevve alla sua salute, 21 colpo di cannone da tutte le navi, da tutti i castelli annunziarono al mare e alla terra la gloria del Nelson. Giunse una lettera della regina che chiamava quel giorno eternamente per lei memorabile. «Consegnate questa mia lettera» ella diceva alla sua confidente, «all’eroe del Nilo, al valoroso Nelson, al difensore d’Italia, al liberatore delle Due Sicilie, al quale, finché gli occhi miei non si chiuderanno, professerò eterna gratitudine.» Quanto deplorava di non potere esser presente e gridare con tutto il cuore tre volte evviva, in modo che, non ostante il

tonar del cannone, fosse udita la sua voce (522)! La sera tutte le navi erano illuminate, un grosso trasporto, trasformato in galea romana e ornato di 200 lampioncini di diversi colori, aveva nel mezzo una colonna formata di speroni col nome del Nelson, e dalla parte di poppa un genio con l’effigie di lui; un’orchestra sonava inni in onore dell’invincibile, che avea ridonato a Napoli felicità e pace.

Quattro giorni appresso, il 5 di agosto, il Fulminante che aveva a bordo il re, John Acton, l’ammiraglio e gli Hamilton, levò l’ancora insieme col Principe reale del marchese Niza; la sera dell’8 erano all’altezza di Palermo, dove tutte le navi che vi si trovavano ancorate frettolosamente s’ornarono e tiraron salve, il cui tonare si confondeva con quello delle artiglierie delle mura e dei forti. La regina, il principe ereditario, i principi e le principesse reali andarono incontro e, salutati da 21 colpo di cannone, montarono sul Fulminante, dove per la prima volta dopo più di quattro settimane di separazione col capo della famiglia e col festeggiato eroe e liberatore del regno a una mensa comune s’assisero. Alle quattro il re lasciò la nave ammiraglia, e aspettato sul Molo da una infinita moltitudine fece il suo solenne ingresso in Palermo. Vi entrò in carrozza; andò dapprima al Duomo, dove il senato, le autorità municipali, la corte e la nobiltà lo accolsero, e fu cantato un Te Deum; e poscia al palazzo reale, dal cui balcone egli e la regina dovettero mostrarsi per salutare e ringraziare con affabili gesti il popolo, che gridando e applaudendo tutto il tempo li aveva in folla fin lì accompagnati. La sera illuminazione della città e fuochi d’artifizio; e poi passeggiata in carrozza della famiglia reale senza alcuna scorta per le strade della città in mezzo alla moltitudine giubilante (523). Il ministro imperiale conte Esterhazy ebbe il singolar favore di restare con la famiglia reale in tutte le feste, a cominciare dal banchetto sul Fulminante. Maria Carolina anche in presenza di altri gli dichiarò apertamente che, se la riconquista del regno e la liberazione d’Italia erano riuscite, bisognava in primo luogo farne merito agli armamenti dell’Austria ed ai fatti d’arme dell’esercito imperiale, e che il considerar ciò la moveva a vivissima gratitudine verso l’imperatore (524).

Né minori di tali dimostrazioni di gioja furono le onorificenze con cui la corte di Palermo significò la sua gratitudine. Innanzi a tutti, come conformemente alla general disposizione degli animi era da aspettarsi, andò l’ammiraglio inglese; fu creato duca di Bronte, con un ricco possesso e con una rendita di 18000 ducati. Il Nelson, a quel che dicono i suoi biografi, sulle prime non voleva accettare il real dono; ma lady Hamilton in nome di Ferdinando gli fece osservare che «egli collocava il suo onore troppo in alto, se rifiutava di accettare ciò che il re e la regina per l’onor loro riguardavano come inevitabile.» Ferdinando stesso gli rivolse la domanda: «Volete voi che il vostro nome soltanto passi con onore alla posterità, e che invece sul mio rimanga la macchia dell’ingratitudine?» (525) Alla vezzosa amica del Nelson la regina porse il suo ritratto in diamanti con la iscrizione: «Eterna gratitudine,» appeso a una catena d’oro da mettere intorno al collo. Altri doni per lei del re, per lei e pel marito Hamilton del re e della regina, raggiungevano il valore di 6000 ghinee; tabacchiere, orologi, anelli e simili, il tutto riccamente montato e di gran pregio, ai capitani Foote, Troubridge, Hardy; minori doni all’equipaggio del Fulminante e del Cavallo marino.

Si poteva fra tante feste e gioje pensare agl’infelici ch’erano stati lasciati nel golfo di Napoli? Dopo la partenza del re per la Sicilia il loro numero era cresciuto. Il 5 di agosto Guglielmo Pepe con la maggior parte de’ suoi compagni di carcere, e fra gli altri Vincenzo Russo e il prof. Fil. Guidi, era stato dai Granili condotto sulla corvetta Stabia, che al pari di tante altre navi faceva l’ufficio di prigione. Ivi essi stavano, come i prigionieri del 26 di giugno, sotto i cannoni delle navi inglesi, e non erano meno duramente trattati, poiché dormivano sulla nuda terra e non avevano per lo più da mangiare se non pane asciutto (526). Finalmente sonò l’ora della liberazione pei rinchiusi sulle polacche — ma non per quelli della corvetta Stabia, la cui uscita fu rimessa a tempo più lontano. Dopo tante carcerazioni, di 1300 che, al dire degli accusatori della corte, il 26 di giugno erano stati per ordine del Nelson fatti uscir fuori dai castelli Nuovo e dell’Uovo, 500 appena il 12 di agosto partirono dal golfo di Napoli verso il settentrione. Di certo alle insistenti premure del Ruffo andavano essi debitori dell’essere finalmente lasciati partire per la Francia. Cosi la promessa che, costretto dalle circostanze, avea fatta sulla sua parola e sull’onor suo al vinto nemico, fu almeno in parte mantenuta; ed egli potè dire, che per riguardo suo non tutti almeno erano stati messi in carcere e abbandonati a quei tribunali, che per mesi e mesi e anche per anni dovevano esercitare il loro severo e spesso sanguinoso ufficio.

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Fra le molte dimostrazioni di favore, che il Nelson seguitò ad avere dalla real famiglia, vi fu il dono che Ferdinando gli fece della spada ornata di preziosi diamanti, che un giorno Carlo III aveva insieme col trono lasciata a suo figlio. Ma non sarebbe essa con miglior diritto spettata al valoroso e prudente cardinale e general Ruffo? Non lo trascurarono certamente — come avrebbero potuto? — egli ebbe una rendita di 15,000 ducati, una di 3000 suo fratello; al duca di Baranello, primogenito della famiglia, fu concessa la ereditaria giurisdizione su S. Sofia di Benevento; senza parlare di infinite altre concessioni di terre, pensioni, titoli ed ordini, con cui il favore reale ricompensò i meriti, che i servitori, aderenti e vassalli di casa Baranello Bagnare si erano acquistati nel corso degli ultimi anni. Anche ciò che fu fatto per S. Antonio di Padova accadde in grazia di Fabrizio Ruffo. Essendo caduta nel giorno di questo santo la vittoria del Ponte della Maddalena, ed essendo stata da tutti con riconoscenza attribuita tal vittoria alla miracolosa cooperazione di lui, il re ottenne dalla Santa Sede la facoltà di mettere il protettore di Padova fra quelli del regno di Napoli, e il suo giorno fra le festività più segnalate e cospicue (527).

«I re sono ingrati.» È una vecchia sentenza che ha molto di vero; ma non bisogna dimenticare che i potenti della terra vivono non di rado in un cerchio nebuloso, e soggiacciono a efficacie da cui non possono liberarsi. Il che va specialmente detto della corte palermitana. Ferdinando che poco si curava di ciò che non si riferiva alla caccia e alla pesca, Carolina che, d un’indole diametralmente opposta, per tutto ciò che le si presentava innanzi all’animo troppo subitanea e vivace si appassionava, erano, dopo la partenza del Ruffo da Palermo, circondati da gente, se non del tutto ostile, quasi senza eccezione poco bene affetta al Ruffo. L’Acton era il braccio diritto del re, Emma Liona era la confidente della regina, il Nelson era l’idolatrato eroe, dalla cui gloria tutte le altre dovevano rimanere offuscate. Il Nelson non era mai stato ben disposto verso il cardinale; ma dopo gli ultimi avvenimenti egli e gli altri suoi inglesi avventati non sapevano perdonargli i biasimevoli accordi con inutile precipitazione firmati coi ribelli. Oltre di che c’erano qua e là parecchie altre piccole ragioni di scontento e di animosità contro di lui. Antonio Micheroux non avea del tutto dimenticato l’opposizione che il Ruffo avea fatta all’entrata del cavaliere nel territorio di Lecce e di Otranto. Diego Naselli gli portava rancore per aver dovuto andar prigioniero in Sicilia, sebbene in fondo il Ruffo gli avesse per tal modo salvata la vita. Qual meraviglia dunque che i circoli intorno alla real coppia esercitassero una critica severissima su tutto ciò che non era fatto da quelle onnipotenti persone, e che da lontano facessero carico al cardinale ed a’ suoi strumenti di tutto ciò che non andava secondo i pensieri e i desiderj loro? Egli aveva menato a felice successo un’impresa, della quale pochi mesi prima, tanto in corte quanto sulla nave ammiraglia, si dubitava; e adesso quelli che non avean messo piede fuori della loro casa o del palazzo reale, trovavano nella sua condotta, nelle sue azioni mille cose da apporre, da biasimare, da mettere sotto cattiva luce. Persino l’armata cristiana, ch’egli avea per cosi dire fatta sorger di terra e con la cui sola opera era riuscito a effettuare il suo disegno, era ivi argomento di malevoli giudizj. Il cardinale avea compiuto cose incredibili o almeno insperate; coi più rozzi, indisciplinati elementi, che a caso erano venuti ad affluire intorno a lui, aveva saputo formare un esercito vittorioso; e adesso gli si rimproverava, che non erano soldati a modo quelli con cui aveva riconquistato il regno e rimesso all’ordine la ribellata capitale (528). Né si mancò di far correre dicerie manifestamente menzognere contro il conquistatore di Napoli, come per esempio che egli, con l’ajuto del suo esercito e di una parte dei patriotti avesse voluto far proclamare re suo fratello Francesco! Quando sul mezzo del luglio l’ispettore dell’esercito fu mandato con un incarico del Nelson a Palermo, sulle navi si bisbigliava che mandavano Francesco come una specie di ostaggio per esser sicuri di Fabrizio.

Da sì fatta sfavorevole disposizione non rimase finalmente aliena neppur la regina, soprattutto per rispetto agli avvenimenti di quel periodo, quando, rimasta sola in Palermo, vede va le cose di Napoli con gli occhi del Nelson e della Hamilton, e stava con questa in continuo carteggio mentre le lettere del Ruffo erano assai diradate. Quello stesso cardinale ch’ella aveva prima levato al cielo, e non sapeva abbastanza significargli la eterna gratitudine sua, del marito, dei figliuoli per aver loro riacquistato il regno, tanto, presa da subita alterazione d’animo, diversamente poi lo giudicava da scrivere alla sua amica: «Per il cardinale non so come finirà; sicuramente che a me non ispira fiducia veruna, e credo che burli tutti per restare alla partenza del re dispoticamente a comandare… Bisogna ora vedere come il cardinale si regolerà. 0 domanderà di essere dispensato dall’ufficio, ma lo farà in quel modo ch’è proprio di chi vuole invece essere in esso conservato, ovvero s’adatterà a tutto e cederà in ogni cosa soltanto per rimanere a capo del governo. E nell’uno e nell’altro caso temo le conseguenze. Fino a tanto che il re si trova sul luogo co’ suoi ministri, sapranno quel che avran da fare; ma se, anche dopo la partenza del re, il cardinale conserva il governo in mano, la sua condotta e i suoi disegni mi daranno molto da pensare, molto da temere» (529)). Da sì dure parole al sospetto ch’egli disegnasse di usurpare il trono non ci corre mica gran tratto.

Poiché gli Hamilton e il Nelson furono ritornati a Palermo, le relazioni di Carolina col Ruffo cominciarono novamente a migliorare, al che contribuì senza dubbio l’essere stata rimossa la principal pietra dello scandalo col risolvere la questione delle capitolazioni secondo le sue idee ed a sua piena sodisfazione. Oltre di che Fabrizio Ruffo era oramai a Napoli il primo e il solo, a cui ella potesse nelle più gravi congiunture rivolgersi, talché il mantenersi in buoni termini con lui era opportuno e necessario. Ricominciò a manifestargli, come per l’addietro, le sue speranze e disillusioni, non dimenticò mai di significargli la sua inalterabile riconoscenza, e non ostante la massima più volte ripetuta di non volersi ingerire negli affari dello stato, discuteva con lui le faccende più importanti, la condotta della Giunta, con la quale non era punto d’accordo, il cattivo raccolto della Sicilia, i mezzi per evitare al continente la carestia che minacciava, e simili altre cose. Certamente accadeva loro d’essere spesso, come per lo innanzi, di diversa opinione, ma non mai tanto che le relazioni personali ne fossero in alcun modo turbate. La regina pensava che, se avessero potuto conferire a voce, si sarebbero meglio intesi: «o V. Eminenza mi convertirebbe, e questa è certamente la cosa più verosimile; o riuscirebbe a me di convertir Lei, poiché tutti e due senza dubbio non abbiamo di mira se non il pubblico bene» (530).

Verso i congiunti del cardinale la regina si porgeva piena di riguardi e di bontà. Oltre a «Ciccio» ispettore dell’esercito, dal quale si lasciava volentieri,raccontare i casi dell’ultima e «veramente miracolosa» campagna, si trovavano allora in corte ancora un fratello e una sorella di Fabrizio: Poppo Antonio e la contessa Snelli che la regina volle avere presso di sé. Tuttavia ci vollero degli anni perché la regina ed il re potessero affatto spregiudicatamente considerare quel che l’invidia e il disfavore aveano operato contro il Ruffo; e cominciassero a intendere che impagabile servigio il cardinale aveva reso loro, quando essi in condizioni disperate si trovavano ed egli solo conservava la sua presenza di spirito. Se nei primi anni dopo il 1799 alla corte siciliana non si riconosceva quasi né stimava altri che il grande eroe inglese, e si celebrava il 1° di agosto, anniversario della giornata di Abukir, come una festa nazionale, a poco a poco poi il 13 di giugno, giorno della battaglia presso il Ponte della Maddalena, cominciò ad esser tenuto di conto, e finì con l’essere considerato nella real famiglia come giorno di buon augurio, al quale si cercò per quanto era possibile di collegare i notevoli avvenimenti domestici. «Oggi dopo mezzogiorno» scriveva la regina il 13 di giugno 1805 a Vienna, «ci rechiamo a S. Antonio; è la commemorazione per noi famosa della battaglia presso il Ponte della Maddalena e della riconquista del regno; jeri Leopoldo ha ricevuto la confermazione, il nostro bravo Cardinal Ruffo fu suo compare.»

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Dai posteri Fabrizio Ruffo ba dovuto sopportare anche più ingiusti giudizj che da’ suoi contemporanei. Le testimonianze di coloro che presero parte alla sua impresa, come un Sacchinelli, un Cimbalo e un Petromasi, tutti seguaci e ammiratori fervorosi di lui, si persero in mezzo al vario schiamazzo che contro di lui si levò. Nella letteratura egli ebbe contro a sé gli autori della rivoluzione, gli scrittori inglesi e russi di cose militari. Il modo di procedere dei radicali è in tutti i tempi e in tutte le zone lo stesso: a loro è permesso ogni cosa, ma quello che fanno gli avversarj è tradimento e delitto. Fabrizio Ruffo fu e rimase per loro un generale predone, le sue orde guerriere non erano che briganti, galeotti e malfattori evasi, dai quali non c’era da aspettare altro se non gli orribili fatti di Catanzaro, di Cotrone, di Altamura!… Questo ultimo nome i rivoluzionarj farebbero meglio a passarlo sotto silenzio, poiché gli atti ivi commessi dai realisti furono provocati dai più tristi eccessi delle crudeltà repubblicane. Ma, per rispondere in qualche modo agli esempj che si adducono di Catanzaro e di Cotrone, che si dirà di Benevento e di Piedimonte? di Aquila e di Isernia? di Guardiagrele? di S. Severo, Andria e Trani? Il repubblicano Cuoco, uomo, non ostante le sue esagerazioni, onorevole e ammodo, non potè neppure lui, per rispetto ai tre ultimi luoghi, fare a meno di dichiarare che la pena era andata molto più in là che non meritasse la colpa. E nota bene: la colpa era quella di conservarsi fedele al legittimo principe!

Ai moscoviti ed agli anglicani dell’alta chiesa dava già noja la veste talare del prelato romano. Che cosa voleva far Sanile fra i profeti? Dal momento che un manipolo di russi si congiunse all’armata cristiana; dal momento che il Ruffo si mise d’accordo col Foote, e dal momento infine che i marinari dell’eroe del Nilo furono sbarcati, agli occhi degli ufficiali stranieri l’armata cristiana non valeva più nulla; tutt’al più i calabresi potevan servire come carne da cannone innanzi a S. Elmo e a Capua! Le presuntuose vanterie dei russi toccano talvolta a questo proposito i confini del ridi— colo. A sentire gli scrittori loro, le poche compagnie del Baillie avean da sé sole fatto ogni cosa da Nola a Gaeta. Ai Miliutin-Schmitt (IL p. 327.) sembra niente esser tanto da deplorare quanto il «laconismo spartano» del Baillie che scrive, per esempio, al suo generale: «Nel marciare verso Napoli ho preso tre forti e una batteria, e più tardi Castel Nuovo, Castel dell’Uovo, la cittadella di S. Elmo e la città di Capua. Ho l’onore di informarvi che il paese è sgombro dai repubblicani.» È certo una concisione che anco chi non è russo deve deplorare! Sarebbe stato davvero curioso il conoscere i minuti particolari del modo come il Baillie co’ suoi russi, e solamente con loro, prendesse il forte Vigliena e il castel del Carmine; dacché, a quanto sappiamo, il primo fu preso d’assalto dai calabresi del Rapini e il secondo da calabresi e turchi senza che i russi vi avessero parte veruna. E quale poteva essere il terzo forte preso nel marciare verso Napoli? Il Granatello forse? Ma questo era caduto quando nessun russo aveva ancor messo piede a Napoli. Per ciò che riguarda gli inglesi, questi certamente non menavan vanto di vittorie a cui non avessero partecipato, ma circa al lodare ed esaltare se medesimi non lasciavan punto indietro i russi, tanto che finalmente la stessa Carolina ne ebbe sdegno, la quale senza dubbio aveva una singoiar preferenza pel Nelson, per i suoi paladini, e per la nazione inglese in generale. «Io vedo» ella osservò nell’occasione di un ingiusto giudizio contro il Ruffo, «che i nostri, sebbene, senza araacemenf e senza giuramento alle bandiere, fossero solamente mossi dalla loro buona volontà, hanno operato cose di gran lunga maggiori di quelle degli altri» (531).

Uno scrittore di storie imparziale deve mettere fra i più importanti episodj della prima rivoluzione francese l’impresa guerresca del Cardinal Ruffo, arditamente concepita, con perseveranza ed accorgimento condotta, e così nei particolari come nel gran risultato finale coronata dal più splendido successo. È notevole che i tre fatti principali del giorno di S. Antonio: la marcia su Napoli, la presa del forte Vigliena e l’assalto del castello del Carmine, sieno avvenuti senza il comando del generale in capo. In una guerra combattuta da eserciti disciplinati una tal cosa sarebbe certamente inaudita e, secondo i principi della militar disciplina, degna di severo biasimo, quand’anche avesse condotto alla più grande vittoria. Ma le condizioni erano diverse, non dalla parte del Ruffo solamente, anche da quella dei suoi avversarj, poiché i soldati dell’esercito del Macdonald in quella battaglia non ebbero parte. Oltre di che il Ruffo era talmente favorito dalla fortuna, che in tutta la sua impresa non ebbe da lamentare un sol cattivo successo e, come uno de’ suoi biografi giustamente osserva, anche gli errori de’ suoi sottoposti, le opere da loro fatte contro gli ordini superiori, tornavano a vantaggio della riuscita finale. Da ultimo quei tre fatti furono compiuti da’ suoi cacciatori calabresi, ch’egli aveva nel corso della campagna esercitati, e comunicato loro tale spirito ardimentoso, che erano avvezzi a scagliarsi, senza aspettare gli ordini, sul nemico, quando se lo vedevano comparir davanti o per sicuri indizj ne sospettavano la presenza.

Circa alla persona del Ruffo, accade a essa come a quella della sua real protettrice: quanto più l’una e l’altra guardiamo, quanto più, senza curarci delle sentenze proferite finora sul loro conto dalla storia, ci facciamo dà vicino ad esaminarle, tanto più spiccano fuori pure e luminose dall’oscura e sudicia nebbia, nella quale le contemporanee passioni partigiane, la maligna calunnia e la volgare smania di cianciare hanno saputo nasconderle. Fabrizio Ruffo specialmente apparisce come un uomo pienamente meritevole di esser nominato toga sago quo clarus, che portò con ugual dignità l’armatura e la porpora e che, per rispetto all’impresa del 1799, diè prova d’essere così valente soldato come prudente politico. Chiamarlo capo di briganti e di banditi, come sino a poco tempo fa si soleva, rappresentarlo crudele ed assetato di sangue, era cosa a quelli solamente possibile, che ignorassero compiutamente le circostanze nelle quali egli si trovava, ovvero a bello studio i fatti più incontrastabili svisassero. Per contrario, come egli in tutta la campagna, fino a che potette indipendentemente operare, seppe col generoso perdono e con le affabili maniere accattivarsi i più dichiarati aderenti del nuovo ordine di cose, e si sforzò di far ponti d’oro agl’irreconciliabili perché si allontanassero da una scena dove non avean più parte da rappresentare, così più tardi, quando si trovò in immediata relazione col Nelson e co’ suoi capitani, col re e con quelli che lo circondavano) co’ siciliani e co’ tribunali sanguinarj in cui essi prevalevano, si mostrò certamente l’unico uomo, i cui consigli non uscissero mai dalla via della saggia moderazione e della prudente indulgenza.

fonte

https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1885-Fabrizio-Ruffo-Barone-von-HELFERT-2025.html#LIBRO_TERZO

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