Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

“FABRIZIO RUFFO RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI” scritto da Barone Von HELFERT Vol. Terzo

Posted by on Mar 13, 2025

“FABRIZIO RUFFO RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI” scritto da Barone Von HELFERT Vol. Terzo

La riconquista di Napoli La Gallispana II

Mentre il real consorte andava in giro per l’isola cacciando e pescando, e il primogenito, ritirato nella sua villa, faceva l’agricoltore e il buon padre di famiglia, Carolina non perdeva d’occhio la grande impresa, al cui felice o infelice esito la sorte della sua famiglia si collegava. Manteneva continue relazioni con Napoli più o meno frequenti o caute secondo che la fortuna della guerra era più o meno favorevole nel golfo alla squadra anglo-sicula; i suoi segreti aderenti dentro e fuori la metropoli le facevano di tanto in tanto pervenire ragguagli, le mandavano proclami, notificazioni del governo provvisorio, prodotti della letteratura popolare ch’ella paragonava a «urli di matti» (308). Incessante e perfetta era la sua intelligenza con gli ufficiali inglesi e siciliani che sulle isole e nel golfo di Napoli comandavano; sotto la protezione loro i suol messi andavano per Procida al continente e ne venivano (309). Procurava che regolari comunicazioni con Livorno fossero mantenuto; tutti i quindici giorni, e all’occorrenza tutte le settimane, partiva una delle sue navi a quella volta.

Le sue relazioni col Cardinal generale, secondo che egli cambiava dimora ed era più o meno difficile la corrispondenza di lettere e di messi (310), andavan soggette a frequenti interruzioni; ma ella non lasciava però passare nessuna occasione di fargli giungere notizie, di significargli i suoi sentimenti, di comunicargli i suoi pensieri e disegni, notando espressamente, quanto a questi ultimi, che la decisione definitiva era lasciata al miglior consiglio di lui (311). Di certo ella si sentiva contrariata e infastidita pel vergognoso contegno che, dal popolo in fuori rimasto incorrotto, tutte le altre classi lassù serbavano, sleali, dimentiche de’ doveri loro ed ingrate. Quante defezioni fra gli ufficiali! Quante apostasie fra gli ecclesiastici, capitanati dallo stolto cardinale arcivescovo! Quanti impiegati ribelli, gli avvocati, gli studenti e i giovanotti quasi tutti! E peggio poi la nobiltà! «Io non ho più coraggio di domandare di questo o di quello, poiché debbo sempre temere una sgradita notizia… Più di trent’anni son vissuta fra loro, procurando sempre di ingrazionirmeli con attenzioni ed onorificenze; ed ora non ce n’è uno che tenga da me, che per me parli, che mi faccia dir qualche cosa, o che mi scriva! Ah se io ne conoscessi venti, dieci soli a me devoti, mi consolerei della infedeltà e ingiustizia di milioni; ma nessuno… ciò mi fa una terribile impressione» (312). Allora non vuol più saperne di Napoli, né più rimettervi i piedi, per quanto le sanguini il cuore e sia a quella città affezionata: «il paese mi piace, il clima, la situazione, e poi l’abitudine di circa trentun anno.» Se fosse necessario che Napoli un giorno rivedesse la sua regina, ella non vi andrebbe che per poco, quasi come in visita, non si farebbe vedere iu nessun luogo né riceverebbe nessuno: «poiché tutto mi richiamerebbe alla memoria gli spaventi ed errori passati. Io farò il mio dovere, sempre lo farò, ma il mio cuore è chiuso per sempre» (313).

Le due questioni, che la regina si proponeva per rispetto alla sua metropoli continentale e che spesso menzionava col Ruffo, erano la militare e la politica.

Subito dopo i primi felici successi del cardinale la riconquista di Napoli avea sorriso alla regina; se non che, più maturamente riflettendo, ella non poteva sperare che l’opera fosse per essere condotta a fine con le sole forze, per tanti rispetti difettose, onde egli disponeva; occorrevano soldati regolari, russi o austriaci. Egli poteva vincere qui una battaglia e lì un’altra; ma in complesso, mentre con soldati irregolari si può riuscire a guerra di partiti, a stragi e a distruzioni (314), raggiungere un fine non si può se non con forze militari che incutano rispetto. Pericoloso lo esporre gl’irregolari al fuoco di veri soldati; se quelli nel momento definitivo si perdon d’animo e voltan le spalle, può tutta la impresa andare a rifascio; soltanto dopo aver compiuto la conquista e ripristinato l’autorità delle leggi, è possibile impiegare gl’irregolari pel servizio interno, per guardare gli edifici pubblici, gli ospedali e le prigioni. «V. E. non deve arrischiarsi con uno stuolo di contadini contro gente che possiede armi ed artiglierie; aspetti piuttosto che scenda in campo una potenza regolare, e allora cooperi con essa alla bupua causa; frattanto conviene, a mio avviso, scegliere un buon posto, in aria salubre e prossimo ai viveri, ed ivi aspettare gli eventi.» Per la stessa ragione ella non approvava lo sbarco occasionale dei marinari; dei quali doveva essere piuttosto ufficio il bloccare attentamente le coste e invigilarle, per potere senza strepito incoraggiare i bene intenzionati, preparare un asilo ai fuggitivi, accortamente interrogarli, ed o trattenerli o mandarli in Sicilia (315). Non occorre dire che parlando della comparsa di «una vera truppa» la regina pensava ai 12,000 russi e 10,000 albanesi, promessile i primi dallo Czar, i secondi dai sultano; insomma ad una forza capace di tener testa ai giacobini in tutta l’Italia centrale e inferiore.

Quanto alla questione politica, nelle prime settimane della campagna del Ruffo la regina inclinava compiutamente alle opinioni di lui. n quale voleva adoperare. in larghissima misura il perdono e l’oblìo; e in fatti, finché la cosa rimase in suo potere, sempre e da pertutto l’adoperò. Ella lo aveva sui primi tempi in tali concetti confermato, o almeno aveva aderito dicendo, che tutto quello ch’ei giudicasse di dover fare sarebbe riconosciuto e approvato. Ma con l’andar del tempola sua maniera di pensare andò sempre più mutandosi. «Il re può perdonare i suoi sudditi colpevoli ed ingrati, usar grazia invece di giustizia, lo deve fare e lo farà come cristiano e come padre; ma deve farlo liberamente e caso per caso, e non già costretto da un armistizio o da un trattato, che è sempre segno d’impotenza o di timore. Il re deve rientrare nel suo regno come conquistatore e incondizionato padrone, avendo anche bisogno di tutta la sua potenza e forza per ripristinarvi l’ordine. Se non può far questo, sarà meglio abbandonarlo all’anarchia e alle lotte intestine, sino a che la necessità e la disperazione li obbligheranno a venir da sé a pregarlo che riprenda in mano le redini del governo. In una parola un reggimento monarchico, autoritario, paterno in generale, benevolenza e giustizia verso tutti, ma più fiducia in nessuno; poiché essi hanno, con pochissime eccezioni, mostrato solamente mancanza di fede e nera ingratitudine.» In primo luogo occorrerà ripulire il terreno, e ciò non può farsi se non usando da una parte inesorabile severità, da un altra distribuendo ricompense ed onori. «Piuttosto non tornare più in Napoli, che tornarvi con quella peste di ribelli e traditori che non ci lascerebbero più bene avere. Quelli che poterono a tal segno dimenticare i proprj doveri da rinnegare il re e consegnare la patria in mano del nemico straniero, quelli dovranno per sempre lasciare il suolo napoletano, siano uomini o donne, siano centinaja o migliaja; la partenza loro non farà nessun danno a noi, né beneficio nessuno al paese che li accoglierà; e se centinaja di famiglie nobili andran via, si darà la nobiltà a tante altre che nei giorni di prova han tenuto sodo.» Con l’esilio andrà di pari passo la confisca, il re sequestrerà i beni degli esiliati, non per conservarli per sé ma per ricompensare e arricchire i pochi rimasti fedeli (316).

Ma nello stesso tempo convien pensare a ordinare un buon governo, e per questo rispetto c’è da imparar molto dallo stesso nemico. La distinzione di elassi sarà mantenuta, ma tutti gl’inconvenienti ed abusi, che i francesi e gli aderenti loro hanno rimossi, dovranno essere tolti. Anche per rispetto ai fedecommessi, ai feudi e alle prerogative che ne derivano, poiché il governo rivoluzionario ne ha con tanta solennità proclamata l’abolizione, non si potrà, senza offendere gravemente la parte meno privilegiata del popolo, tornare in generale allo stato primitivo; bisognerà forse contentarsi di fare qualche eccezione in favore di quelli che si sono sacrificati per la causa regia (317). Provvedere al pubblico benessere, a un ben regolato servizio di sicurezza, alla chiara, semplice e sollecita amministrazione della giustizia, all’abbondanza e al buon prezzo dei viveri, a tutto, ciò bisogna pensare a fin che la moltitudine s’affezioni al nuovo ordine di cose. Converrà per questo far entrare nuovi elementi nell’amministrazione ecclesiastica e civile. Tutti quelli che nel tempo passato si mostraron deboli, debbono essere esclusi e sostituiti da migliori, quando non convenga rimetter piuttosto l’ufficio nelle sole mani del re (318). Nell’alto clero bisognerà far largamente piazza pulita; innanzi tutto mandare, come scimunito a Monte Vergine o in un lontano convento della diocesi il cardinale arcivescovo: «la qualità di scimuniti) può sola attenuare la colpa della sua sleale condotta, ma essendo sciocco e cattivo non può restare più a lungo a capo, della sua diocesi. Vi sono anche altri vescovi in simil caso: il della Torre di Lettere e Gragnano, il Natali di Vico Estense, quello di Gaeta, quello di Taranto, e il Rosini non ostante il Te Deum che ha cantato. Qual fede può avere il popolo in vescovi e preti che ha visti fra le file dei ribelli, e che tristo effetto non farebbe il vederli continuare nell’ufficio loro?» (319)

È sommamente da deplorare, che non si sieno conservate le risposte dell’uomo, a cui Carolina dirigeva comunicazioni tanto intime ed importanti, lungo tempo prima che si effettuasse la supposizione, dalla quale prendeva le mosse de’ suoi disegni per l’avvenire. Ma era per lei una massima il distruggere tutte le lettere che riceveva, dopo che, lettele, aveva risposto o altrimenti provveduto. Senza dubbio il Ruffo non si sarà peritato di significare le sue idee, le quali, specialmente circa alla questione di applicar la giustizia ai colpevoli o la clemenza ai traviati, erano di gran lunga da quelle della sua reale corrispondente disformi. Ciò si rileva da molti luoghi delle lettere di lei, dove ella esalta lo spirito, la saggezza del cardinale, la bontà de’ suoi principi, il peso de’ suoi giudizj. Tuttavia alla prima occasione ella torna alla sua propria maniera di pensare, sottoponendola sempre al senno più maturo, alla maggior oculatezza di Sua Eminenza, ma non riuscendo mai a uniformarsi a quel maturo senno e a quella oculatezza maggiore.

Ma occorre ora che lasciamo per un po’di tempo il quartier generale del bellicoso prelato e il palazzo reale di Palermo per trasferirci sull’alto mare, dove in questo mentre son accaduti fatti di grandissima importanza.

***

Nello stesso tempo che giungevano da Genova nuove di alte vittorie delle armi imperiali nell’Italia superiore e nella Svizzera, ed erano dalla corte celebrate con solenni rendimenti di grazie, dal Nelson con triplice salva di gioja, venne dal levante la notizia che una squadra francese tra il 15 e il 18 d’aprile — non si sapeva precisare il giorno — avea potuto, deludendo la vigilanza di Sir Sidney Smith, uscire da Alessandria; e poco appresso si ebbe da ponente la notizia ancora più rilevante, che Tarmata di Brest avea fatto la sua entrata nel mediterraneo.

In fatti sotto pretesto di spingere l’armamento del naviglio francese, che l’ammiraglio inglese Bridport teneva bloccato, il ministro della marina Bruix si era nella seconda metà d’aprile recato a Brest; e là profittando d’una fitta nebbia che il 25-26 copriva il mare e, unita a un forte vento di levante, era a lui tanto favorevole, quanto contraria al nemico obbligato a ritirarsi dalla costa e pigliare il largo, usci dal porto con diciannove navi di prim’ordine; e alcuni giorni dopo presso la Coruna e Ferrol prese cinque vascelli spagnuoli col proposito di unirsi poi alla grande armata, che forte di 25 vele stava all’ancora presso Cadice sotto gli ordini dell’ammiraglio Masaredo. Venti contrarj impedirono l’attuazione di quest’ultimo disegno; ma intanto gli riuscì di passare il 5 di maggio, sfuggendo all’ammiraglio Jervis, lo stretto di Gibilterra.

Presso gl’inglesi, dall’ammiragliato di Londra alla più remota stazione del mediterraneo, tal nuova produsse a prima giunta una vera costernazione. Non si sapeva che cosa più ammirare, l’audacia o la riuscita della doppia impresa di fuggire inosservato da Brest e di passare senza molestie sotto i cannoni della fortezza (320). Del rimanente non era tempo di perdersi in tali estetiche commozioni, poiché la cosa dava troppa materia d’inquietudine. Il conte Saint Vincent, che non poteva se non far supposizioni sugli ultimi propositi delF avversario, vide a un tratto minacciati tutti i vantaggi che le forze navali inglesi aveano ottenuti o stavano per ottenere nel mediterraneo: l’ammiraglio Duckworth alle isole Baleari, il Nelson e il Troubridge nel regno delle due Sicilie, il capitano Ball a Malta, Sidney Smith alle bocche del Nilo. Importava innanzi tutto tener divise le due armate nemiche, la francese e la spagnuola. Ordinò a tutti quelli che comandavano sotto i suoi ordini di raccozzare in fretta le loro navi sparpagliate, mentre egli stesso, con 20 vascelli di linea, lasciava la punta meridionale della Spagna e facea vela per Barcellona.

Il Nelson ebbe l’improvvisa novella il di 12 di maggio per mezzo Espoir, nave leggera speditagli dal Saint Vincent La comunicazione in data dei primi di maggio diceva che era stata vista l’armata di Brest in linea di Oporto, e che senza dubbio era suo scopo entrare nel mediterraneo e congiungersi con la spagnuola comandata da Masaredo. Il primo pensiero del Nelson fu di cercare dove potessero esser dirette le mire del nemico oramai tanto superiore per numero e grandezza di navi: a Tolone per imbarcare soldati e viveri, poi soccorrer Malta, e finalmente andare in Egitto a prendere il Bonaparte e condurlo a Parigi? ovvero piuttosto a Costantinopoli per allontanare l’armata turcorussa dalle isole veneziane? Ma non poteva essere anco metà del nemico Palermo, dove pel momento due vascelli, della marina britannica l’uno, portoghese l’altro, costituivano l’unica difesa?… Da poi che la real famiglia era fuggita da Napoli il Nelson avea considerato suo ufficio principale conservar la Sicilia e riconquistare il continente; nel qual proposito si lasciò volentieri in questa grave congiuntura confermare dalle angosce e lacrime della regina, dalie parole ed esortazioni di Sir William, dalle preghiere e lusinghe di lady Hamilton (321), senza perder tuttavia d’occhio gl’interessi della causa generale.

Si deliberò innanzi tutto di riunire presso Palermo la maggior parte delle sue forze navali. Fin dalla notte 1213 di maggio fu mandato al commodoro Troubridge l’ordine di lasciare un vascello e una fregata nel golfo di Napoli, e con tutte le altre navi di bandiera inglese e portoghese far senza indugio vela verso Palermo. Al capitano Ball il cutter Penelope portò l’ordine di far partire il Goliat e l’Audace, e di cercar d’indurre l’ammiraglio russo a mandare una parte della sua squadra a Port Mahon per rinforzare il Duckworth. Parimenti il commodoro Campbell, che poteva difficilmente avere adempiuto la sua missione a Tripoli, doveva, se era possibile raggiungerlo, essere informato e richiesto di portare l’Affonco alle isole Baleari. Poiché ivi il vincitore del Nilo, seguendo una prima ispirazione, determinò di aspettare l’armata franco-spagnuola. Se non che il giorno seguente variò il suo disegno, e indicò al Troubridge e al Ball la direzione dell’isola Maritimo, al punto più occidentale della Sicilia; nello stesso tempo il primo ebbe l’ordine di lasciare nel golfo di Napoli una sola fregata, e di condurre con la massima sollecitudine al Nelson tutte le altre navi senza veruna eccezione. «Io muojo d’impazienza,» diceva il Nelson, «se non vi riunite a me presto.» E il Ball da Malta non dovea solamente condurre tutte quante le sue navi, ma persuadere eziandio il comandante turco e il russo a fare il simile. «Spero in tal modo,» scriveva il Nelson al Saint Vincent, «riunire una forza navale composta di diverse nazioni, la quale possa far fronte a quelle del nemico; e allora non bisognerà indugiare un momento a dar battaglia.» Ma neppure in questo proposito egli durò; essendo in forse se dovesse aspettare presso Maritimo i desiderati rinforzi o dirigersi invece a Minorca. «Non so più niente de’ francesi» così egli si lamentava scrivendo il 17 a Procida, «non è arrivata una barca né da Minorca né dal conte!» (322) In fatti il Nelson non poteva allora saperlo, ma l’armata di Brest si trovava già presso l’Italia; il 12 l’avevano vista da Minorca andare, a quel che pareva, verso Tolone.

Alla corte di Palermo erano appunto in quel tempo pervenuti messaggi, atti in certo modo a sedare le inquietudini cagionate dalla superiorità dell’armata nemica. Il Cardinal generale diceva di aver saputo che soldati russi e turchi fossero sbarcati sulla costa di Puglia; la qual cosa fece credere in Palermo che si trattasse della vanguardia di forze più considerevoli, che il gabinetto russo e la sublime Porta aveano secondo i trattati promesso di mandare (323). Qualche giorno dopo giunse da Livorno una fregata inglese con ottime nuove dai campi di battaglia dell’alta Italia: gl’imperiali aveano sconfitto l’esercito della repubblica, aveano passato il Mincio, il Chiese, l’Oglio, l’Adda, riconquistato Milano, occupato Bologna. Non occorre dire come Carolina a tali nuove cantasse vittoria e inneggiasse all’imperator Francesco. Dall’altra parte però, dopo più matura riflessione, si sarebbe dovuto intendere che se i francesi avessero avuto in mira la Sicilia, qualche loro nave si sarebbe fatta da un pezzo vedere presso l’isola (324). Ma cosi pacate riflessioni non facevano in corte. La regina, a cui bastava una dicerìa qualunque per accendersi e dar l’aire alla sua vivace immaginazione, si vide minacciata dall’apparizione dell’armata francospago noia nell’ultimo asilo a lei ed alla sua famiglia rimasto; le sembrò dunque che tal pericolo dovesse a tutti i costi essere allontanato, quand’anche si avesse a sospendere fin a nuov’ordine l’impresa contro Napoli (325). Fu risoluto di tenere, per quanto era possibile, segreto il «tristo annunzio, e di evitare in ogni modo anticipate inquietudini alla popolazione della capitale. Ma in tutte le parti lontane dell’isola, specialmente lungo le coste, fu mandato un manifesto reale, che facea conoscere ai bravi e religiosi siciliani» il pericolo che dal Iato del mare li minacciava, e nello stesso tempo i provvedimenti che, per allontanarlo, d’accordo con gli inglesi, i russi e i turchi si prendevano. Il re invitava i suoi fedeli sudditi, nel caso che il nemico tentasse uno sbarco, a sollevarsi in massa ed unirsi al regio esercito e alle milizie, che non tarderebbero ad accorrere sul luogo minacciato. Coraggio dunque, o valorosi siciliani! Io son qui per mettermi alla vostra testa. Combatterete sotto i miei occhi, ed io ricompenserò chi si distinguerà per la sua bravura» (326).

Il cardinale ebbe avviso di ciò e fu nello stesso tempo esortato (15 di maggio) che, dove Napoli non fosse in quel mentre già nelle sue mani caduta, ei si astenesse dall’assaltarla, e piuttosto si ritirasse per aspettare il corso degli avvenimenti. Il messo però che, senza dubbio per timore di non avere a imbattersi in nuovi francesi, doveva raggiungere il littorale di Puglia girando il capo di Sparavento e di Leuca (327), non poteva impiegare meno di tre o quattro settimane per arrivare alla fine del suo viaggio. Il non aver tenuto conto di tale inevitabile indugio, il non aver dato luogo alla riflessione che lo stato delle cose poteva, anzi doveva necessariamente esser cambiato innanzi che il real vicario ricevesse quell’ordine suggerito dall’ansietà e dall’angoscia, dimostra quanto la corte di Palermo si lasciasse in quei giorni dominare dalle impressioni del momento.

Il 17 la Vanguardia era pronta alla partenza e non aspettava se non la squadra napoletana per far vela verso l’occidente; ma il Troubridge arrivò solamente il 18; il 19 i venti spiravano contrarj. Il 20 alla fine partirono, e il 21 si trovavano all’altezza di Maritimo (328). Altre navi da guerra del Troubridge e del Niza giunsero, mentre i comandanti delle diverse stazioni ebbero avviso di lasciar correre piccole navi verso il mezzogiorno, l’occidente e il settentrione a fin di prendere informazioni intorno le armate nemiche. Il Nelson aveva adesso undici tra vascelli e fregate (329); ma le navi del Ball non s’eran per anche viste, né se ne aveva notizia, tanto che si temeva non fossero inciampate in superiori forze nemiche e cadute in lor potere (330). Né minori erano le inquietudini alla corte in Palermo. È vero che il Ruffo avea mandato l’annunzio che dopo tre giorni di combattimento Altamura era stata presa; ma troppo leggiero conforto era questo, mentre un più vicino, un più stringente pericolo soprastava, quello dello sbarco de’ francesi in Sicilia. Io vi prego,» scriveva la regina a lady Hamilton, «fatemi sapere se il Keith è arrivato e con che forze, se l’armata francese e la spagnuola ban lasciato il porto e dove si trovano. Spero che al mio caro e valoroso lord Nelson non accadrà nulla di dispiacevole. Se la vostra salute lo permette, mia cara Emma, mandatemi due righi per dirmi se il Keith è giunto con le sue forze, e se l’armata ha lasciato Tolone» (331).

Intanto dal capitano Nisbet, che con la Talia teneva d’occhio il tratto da Capo Corso a Capo del Mele, era giunta notizia che l’armata di Brest era arrivata nel porto di Tolone, né fin a quel momento era di là ripartita. Talché le inquietudini, che il Nelson avea fatte nascere, erano per allora dileguate. Ma pure pareva che si facessero gravi apparecchi, dei quali né nelle acque di Maritimo, né alla corte di Palermo si poteva saper nulla. L’ammiraglio spagnuolo Masaredo, appena saputo che il Saint Vincent s’era allontanato nella direzione di nordest, avea salpato da Cadice e passando per Gibilterra era entrato nel mediterraneo (15 di maggio). Non avea potuto ottenere il suo intento principale, che era quello di unirsi all’armata di Brest, poiché l’inclemenza del tempo lo costrinse da prima a gittar l’ancora presso il Capo di Gata e poi a riparare nel porto di Cartagena. Ma un nuovo pericolo ne venne al Saint Vincent, poiché mentre una parte delle forze inglesi guardavano la Sicilia, gli spagnuoli potevano assalir le altre presso le Baleari e con la lor prevalenza schiacciarle. E presso le alte autorità navali di Londra lo stato delle cose appariva grave, dacché l’uno dopo l’altro, il contrammiraglio Whitsed con 5 vascelli e 8 fregate, e il viceammiraglio Garduer con 16 vascelli, ebbero ordine di far vela per andare a rinforzare l’armata del mediterraneo.

***

Dopo la partenza del Troubridge comandava nel golfo di Napoli il capitano Foote con la fregata Seahorse, il brigantino San Leon e Mutine, e con le cannoniere Perseo e Bulldog.

I rivoltosi se ne accorsero subito, e mentre la partenza della maggior parte delle forze inglesi faceva supporre che sola ragione di essa doveano essere straordinarj fatti accaduti sul mare, senza dubbio o nello stesso tempo o poco appresso dovettero giunger loro notizie atte a far nascere le più belle speranze per l’avvenire. Poiché l’apparizione dell’armata francese di Brest nel mediterraneo e la riunione di essa con la spagnuola, che poteva da un momento all’altro avvenire e darle cosi una gran superiorità sulle forze di cui la bandiera inglese, la portoghese e la siciliana in quelle acque disponevano, metteva l’avversario dalla condizione di assalire in quella di difendersi, ed avea per effetto un mutamento, del quale la causa dei patriotti non poteva se non grandemente avvantaggiarsi. In breve la riunione delle due armate dall’esser supposta imminente si spacciò come cosa compiuta, e la Gallicana fu come la parola e il grido di guerra dei duci repubblicani. Essa era la lor potente alleata per mare; poiché quale altra destinazione poteva supporsele se non quella di assicurare la Partenopea contro gli assalti de’ suoi nemici? E però doveano i patriotti industriarsi essi medesimi con ogni sforzo di tener testa ai nemici che da tutte le parti li stringevano, sino a che le forze navali alleate giungessero per soccorrerli.

Il Foote e il Thurn ebbero a sentire senza indugio gli effetti di tali disposizioni. Partito appena il commodoro con la maggior parte della squadra, non tardò a riprendere le ostilità di Caracciolo, che, quanto infedele a suoi giuramenti altrettanto infelice nei suoi calcoli, vedeva già prossima la vittoria delle armi repubblicane. Egli attaccò presso Precida le navi siciliane, le quali, in balla del capriccio dei venti, non ostante la superiorità della loro fregata Minerva, si trovarono, di contro alle cannoniere repubblicane, in numero di venticinque, in cattivi termini ed ebbero gravi perdite di morti e feriti. Pure alla fine rimase il vantaggio al Thurn e al Cianchi che comandava sotto di lui; essi mandarono a fondo tre navi del Caracciolo, tre altre fortemente gliene danneggiarono, di maniera che, lasciato il combattimento, egli si ritirò nella Darsena di Napoli. Ma nei prossimi giorni seguenti corse voce sulla flottiglia alleata che un nuovo attacco e con maggiori forze condotto soprastava (332). E anche da altri lati i repubblicani, facendo assegnamento sulla Gallispana, mostravano altiero ed arrogante contegno. Mentre per l’addietro i patriotti erano stati tanto prudenti da non fare atti di ostilità verso gl’inglesi, e si eran guardati di irritare oltre a quell’avversario, col quale non potevano né volevano riconciliarsi, anche l’altro più forte e potente, oramai al contrario essi davano a divedere di voler cogliere l’occasione per mostrare in tal modo l’audacia loro. Essendo, o nell’ultima battaglia o in una delle precedenti, caduti alcuni marinari nelle mani de(‘) francesi, il Foote scrisse al comandante di Sant Elmo dandosi premura della sorte dei suoi compatriotti; il Méjean non si degnò di rispondere per iscritto, e mandò per il messo così rozza risposta che il Foote si. deliberò di evitare oramai dal canto suo, e di non permettere alP avversario, alcuno di quei rapporti che fra nazioni civili anco in tempo di guerra si usano (333).

Conosciuto il pericolo ohe la squadra del Caracciolo minacciava alP isola di Precida, fu risoluto a Palermo di far partire da Messina una fregata inglese, e di mandare alla squadra del Thurn il rinforzo di una fregata siciliana, la Sirena, a quel che pare, e quattro galeotte, sulle quali doveano imbarcarsi 800 fanti e 300 cavalli. «Cosi spero,» scriveva Carolina alla sua amica lady Hamilton, «che si potranno difendere contro quel birbante di Caracciolo» (334). Al solito però sembra che si sia alquanto indugiato a effettuare tal disegno, e la lontananza del Nelson avrà forse contribuito all’indugio. L’assottigliamento delle forze anglo-sicule nel golfo di Napoli ebbe oltre a ciò per effetto un altro danno, che poteva nel momento definitivo diminuirne o impedirne affatto l’efficacia. Finché v’era il commodoro Troubridge, la sua preeminenza di grado non poteva mettersi in dubbio; lui partito, il conte Thurn, non ostante la personale amicizia verso il collega inglese Foote, credeva di non essere soggetto al comando di lui, e di dovere soltanto ricevere ordini dal suo re e da coloro che l’autorità del re rappresentavano.

Anco dal lato dei repubblicani ricominciarono però le scissure. Alla ferma credenza nell’apparizione della Gallispana, argomento di viva speranza a Napoli e di gran terrore a Palermo (335), successero daccapo penosissimi dubbj: non si abbandonavano forse a un’illusione? pievano arrischiarsi a tener sodo e a giocare di tutti? non era forse miglior consiglio il piegare a tempo e ripristinare l’antico ordine di cose ottenendo promessa di universal perdono ed obblio? In un’assemblea che si tenne nell’edificio dell’Accademia de’ nobili in Napoli fu con gran zelo dibattuto l’argomento dadue lati. Domenico Cirillo parlò con accese parole contro ogni atto di debolezza; e sebbene parecchi vi fossero che avrebbero preferito un magro accomodamento a una grassa lite, pure, come in tali occorrenze sempre e da per tutto accade, i più accaniti istigatori ebbero il sopravvento (336).

Il Nelson col grosso delle sue forze incrociava sempre a quel tempo fra Maritimo e Trapani, dove però non si vedevano mai né francesi né spagnuoli, mentre nel golfo di Napoli si correva pericolo di perdere le isole, il che avrebbe avuto per effetto il perdere tutti i vantaggi ottenuti fin allora sulla capitale. E il Nelson infatti si risolvé a tornare indietro (337), e con gran sodisfazione della real famiglia il 30 di maggio rientrava nel porto di Palermo, mentre il capitano Ball girava nello stesso tempo intorno la Sicilia, ugualmente però senza scoprire il nemico. Il Nelson rinforzò allora il blocco di Malta, pigliando in compenso navi dal St. Vincent e dalla squadra del Duckwortb, e da quest’ultimo fra gli altri il Fulminante, vascello di linea di 80 cannoni, sul quale piantò la bandiera ammiraglia (338). L’animo suo era in una commozione come di febbre; appena giunto a Palermo, potè a mala pena resistere all’impulso di far vela novamente per andare incontro al nemico. «Siamo qui nella più ansiosa aspettazione,» scriveva egli al conte St. Vincent; «a tal segno che non pensiamo, non parliamo se non a voi e di voi, da un momento all’altro preparati a sentire che cosa vi sia accaduto.» Nello stesso tempo lo turbavano i successi sul continente, sopratutto l’attitudine degli austriaci, contro il cui ministro Tbugut era sorta nel fondo dell’animo suo, e si andava sempre più alimentando, la sfiducia. Per questo rispetto la vivacità de’ suoi sentimenti, la precipitazione de’ suoi giudizj eran quasi tali da disgradarne la sua real protettrice Carolina. Essendo a quel tempo corsa voce del matrimonio di un arciduca austriaco con una granduchessa russa, egli venne subito fuori col sospetto, che in Vienna cerchèrebbero di trovare un regno per la giovine coppia, e la famiglia reale napoletana sarebbe sacrificata (339).

Se in così gravi congiunture a lui ed a’ suoi compagni, che facevano a gara nell’odiare tutto ciò ch’era repubblicano, qualche cosa poteva recar sodisfazione, tali erano le nuove di Procida, dove sotto gli auspicj del Foote la giustizia esercitava il suo ufficio sanguinoso. Quando sul principio di giugno il capitano, con la notizia che tredici giacobini aveano espiato i loro falli sul patibolo, mandò a Palermo tre abati perché prima che s’eseguisse su loro la condanna fossero dall’arcivescovo spogliati della dignità sacerdotale, l’ammiraglio scrisse in risposta: «La vostra notizia dei tredici giacobini appiccati ci ha fatto gran piacere, ed io spero che i tre preti torneranno sull’Aurora per penzolare da tre alberi, la cui forza corrisponda al peso de’ loro peccati» (340). Già cominciava a farsi notare il nome dello Speciale, che presto dovea riunire nella sua propria persona tutto ciò che correva per le bocche di tutti intorno alle sanguinose condanne di Procida, a terrore di alcuni, a crudel gioja e vendetta di altri. Nato a Burgio presso Girgenti, era stato lungo tempo al tribunale di Palermo acquistandovi fama di grande imparzialità. Anche nel suo nuovo ufficio non gli si potè rimproverare di esser parziale: quanti gli eran condotti dinanzi, tanti con uguale inesorabile severità trattava; come quegli che pareva preso dalla passione, dalla libidine di trovare ogni accusato colpevole, e di condannarlo (341).

fonte

https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1885-Fabrizio-Ruffo-Barone-von-HELFERT-2025.html#LIBRO_SECONDO

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.