“FABRIZIO RUFFO RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI” scritto da del Barone von HELFERT Vol. Primo (I)

LIBRO PRIMO
La Repubblica Partenopea I MACK E NELSON
Orgogliose illusioni, eran quelle di cui Ferdinando IV e Maria Carolina di Napoli si pascevano quando, senza aspettare gli alleati ancor titubanti, si deliberarono di combattere da sé soli le audaci novità francesi. L’ammiraglio Nelson, focoso e appassionato com’era, inclinò fin dal primo momento a tentar l’impresa. Il general Mack, che sulle prime stette in forse, si lasciò persuadere alla fine; vedendo le schiere che gli erano condotte innanzi nel campo di S. Germano, ed essendogli assicurato le altre essere anche di miglior qualità, disse al Nelson: «Il più bell’esercito di Europa!» (2)
Le speranze di buon successo apparivano per più d’un rispetto abbastanza seducenti da giustificare in qualche modo la real coppia e il suo consigliere Nelson, quando facevano osservare ai gabinetti alleati che le condizioni della lotta non potrebbero facilmente essere più favorevoli a loro e, per conseguenza, al comune proposito delle vecchie potenze. Dalla parte dei francesi manifestamente non si desiderava la ripresa delle ostilità; talché non doveano esser sufficienti gli apparecchi militari. Il nuovo inviato francese, Lacomte St. Michel, contrastando affatto all’indole boriosa e al fare aspro e non di rado rozzamente offensivo del suo predecessore, sopportò quanto era possibile di sopportare; fece le viste di non avvertire l’oltraggio di esser lasciato scortesemente due giorni al confine perché alla corte di Napoli non volevan riceverlo; e s’industriò di mettersi in buoni termini con la real coppia e co’ ministri. Non eran questi chiari indizj che il Direttorio di Parigi cercava di trattenere per quanto era in lui i napoletani dal romper guerra, consigliato senza dubbio dalla sproporzione delle vicendevoli forze? Che l’esercito napoletano contasse 60,000 uomini o solamente 38,000— forse l’uno e l’altro numero eran veri, il primo sulla carta, il secondo in realtà — avrebbe in ogni modo trovato di contro a sé nel territorio della repubblica romana non più di 15,000 uomini. Certamente — e ciò costituiva il rovescio della medaglia — la sola moltitudine non fa l’esercito. I francesi dello Championnet, gl’italiani della repubblica Cisalpina e i polacchi erano in assai minor numero; ma i duci loro aveano esperienza sul campo, all’esercito stesso il maneggio della guerra non riusciva nuovo, ufficiali e soldati eran tali da non perdersi facilmente d’animo se per poco non arridesse la fortuna. Per i napoletani stavano altrimenti le cose. Salvo forse i due reggimenti di cavalleria, che tre anni e mezzo prima avean saputo nell’Italia superiore guadagnarsi sul campo di battaglia la stima dello stesso Bonaparte, tutto il rimanente era inesperta moltitudine che non avea mai visto il nemico, mai seriamente combattuto; una gran parte non s’era neppure esercitata a modo in piazza d’armi. Quanto ai capitani, salvo il capo supremo, il suo ajutante generale conte Moriz Dietrich&tein, il brioso Damas e alcuni altri stranieri, e fra i napoletani qualche colonnello di cavalleria, nessun altro aveva mai guerreggiato, tutto ad essi tornava nuovo. Oltre di che poco o nulla scambievolmente si conoscevano. È vero che anche il generale supremo dei francesi non era giunto se non poche settimane innanzi a Roma per prendere il comando; ma egli era della nazione, apparteneva a’ suoi novelli compagni, e si affiatò prontamente con loro. Mentre dalla parte francese generali e soldati per lungo abito di vita comune in campo erano divenuti familiari e s’intendevano a meraviglia, il Mack dall’altra parte non aveva mai avuto il tempo di conoscere anche superficialmente i soldati suol, ed era per giunta, come straniero, guardato con occhio bieco. Invece di fiducia e buon volere, molti di quelli che comandavano sotto i suoi ordini nutrivano verso di lui diffidenza ed invidia; e parecchi dei generali nativi provavan ‘ forse maligna gioja segreta, quando al «Tedesco» le cose non andavano compiutamente secondo i suoi desiderj (3).
Il disegno della campagna era stato bene ideato dal Mack. I francesi stavano parte in Roma e ne’ dintorni, parto sulla spiaggia adriatica facendo capo ad Ancona; molti de’ magazzini si trovavano di qua da Roma sul confine napoletano. Sotto l’aspetto politico sembrava che bisognasse innanzi tutto impossessarsi della metropoli, e nello stesso tempo marciando da più lati — il che era dal gran numero di soldati disponibili concesso, e da ragioni di approvvigionamenti e di comunicazioni consigliato — impedire che il nemico concentrasse, e così riuscisse a crescere e più che a raddoppiare, le sue forze. Il Mack errò forse in una cosa sola, nel non provvedere con maggior cura alla sua ala destra; se non che ne fu per avventura cagione il mancare di precisi ragguagli circa le forze della divisione Duhesme che a quella stava di fronte.
Così dunque la mattina del 23 di novembre 1798 il Mack entrò per cinque punti, al suono delle musiche e con bandiere spiegate, nel territorio romano, mentre il Nelson portava per mare a Livorno un piccolo corpo comandato dal generale Naselli, a fin che di là minacciasse i fianchi e le spalle dei francesi e potesse dar la mano all’esercito principale appena questo fosse giunto sull’altura di Bologna (4). Gli ordinamenti del Mack eran questi:una colonna forte di circa 10,000 uomini sotto Alberto Micheroux passasse il Tronto e si avanzasse sulla riva orientale verso Fermo, e intanto due colonne più piccole, Funa da Aquila verso Rieti e Terni, l’altra per Magliano, guadagnassero e tagliassero le strade maestre conducenti da Roma a Bologna; il corpo principale, presso cui si trovavano il re e il generale in capo, prendesse per Frosinone e Valmontone verso Frascati, s’incontrasse ivi con la estrema ala sinistra, comandata dal principe Ludovico di Hessen-Philippsthal e movente per Terracina (5) e le paludi Pontine verso Albano, e cosi riuniti marciassero subito direttamente su Roma.
Il principio delle operazioni avvenne da per tutto senza difficoltà. Non s’incontrò il nemico, e la popolazione, nelle cui vene non correva sangue repubblicano, si mostrò favorevole e lieta. Per contrario il tempo fu cattivo; ostinate piogge minacciarono di guastare le strade e rendere difficili i trasporti delle vettovaglie. Sicché la marcia, specialmente della colonna principale, non potè procedere altro che lentissima. Il 24, cioè un giorno dopo che la marcia era compiuta, apparve un manifesto di re Ferdinando con la dichiarazione di guerra alla Repubblica romana: la presa di Malta per opera dei francesi, la rivoluzione dello stato ecclesiastico, la minaccia di assalire 1 suoi proprj stati lo movevano a far avanzare il suo esercito per ristorare la religione e la legittima autorità del Papa; t soldati stranieri dovevano lasciare il territorio romano, i popoli italiani por giù l’armi, delle quali egli stesso non era j>er fare uso se non nel caso di attacco o di resistenza; esser egli lontano dal volere far guerra a una potenza straniera, ma bisognava pure che nessuna potenza straniera si attentasse d’immischiarsi negli affari d’uno stato, la cui sorte per ragione di vicinanza e per motivi anco più legittimi toccava specialmente gl’interessi del regno (6).
Lo Champion net si apparecchiò ad uscire dalla città eterna lasciando solo un piccolo drappello in castel Sant’Angelo. E allora si vide quanto il governo repubblicano si fosse nella sua breve durata renduto inviso. Appena il grosso della colonna Macdonald aveva abbandonato Roma, il popolo si sollevò, abbatté gli alberi della libertà e stette per assaltare il ghetto, mentre un inviato di Napoli, Gennaro Valentino (7), in mezzo a infinito giubilo della moltitudine, spiegava la bandiera dei suo re, tanto che il Macdonald si vide costretto a prendere ostaggi che mise al sicuro in castel Sant’Angelo. Anche fuori della metropoli i romani si sollevavano contro gl’intrusi francesi. In Viterbo e in Nepi accaddero a quei giorni gravi sommosse; il popolo si scagliò addosso a trenta francesi fuggiti da Roma, fra i quali erano i diplomatici Lefebure e Artaud, e ne avrebbe fatto tristo governo se al vescovo Cardinal Gallo non fesse riuscito di trarli dalle mani di quei forsennati.
Il 27 la retroguardia del Macdonald usciva dalla città, e da un(‘)altra parte vi entrava, salutata dalle liete acclamazioni del popolo, l’avanguardia dei napoletani condotta dal colonnello Burkhardt, che pose il suo quartier generale su monte Mario e mandò una colonna a prender possesso di Civitavecchia.
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Né in Roma né al quartier generale del re si poteva sapere che già in due altri punti della estesa linea di operazione erano volte a male le cose. Il Micheroux, prima di raggiunger Fermo, era stato presso Torre di Palma assalito da 3000 francesi e cisalpini sotto gli ordini del generale Russo, e dopo gravi perdite ributtato verso il Tronto; mentre quasi alla stessa ora il colonnello Sanfilippo non lungi da Terni presso Papigno, attaccato da 2000 uomini comandati dal Lemoine, vedeva il suo reggimento Real Italiano quasi compiutamente distrutto. Anco alla colonna settentrionale occorsero difficoltà ma d’altra natura; il governo toscano, per non esporsi innanzi tempo all’ira e alla vendetta dei francesi, non volle saperne delle ragioni strategiche del Mack, e quindi non consentì che si occupasse Livorno, per modo che il Naselli dové il 28 contro le proteste del Granduca e de(‘) suoi ministri entrare nella città, e quella e il porto prendere provvisoriamente in suo potere.
Già Roma era da un capo all(‘)altro occupata dai soldati del re; il presidio di castel Sant’Angelo fu tenuto inoperoso con la barbara minaccia che ad ogni colpo tirato sulla città sarebbe messo a morte un prigioniero francese, specialmente di quelli che giacevano malati allo spedale. Il 29 Ferdinando vi fece ingresso, e mandò al papa Pio VI, trattenuto alla Certosa di Firenze, l’invito di ritornare nella città sua; intanto una deputazione di governo, composta dei principi Aldobrandini e Gabrielli, del marchese Camillo Massimi e del cavaliere Ricci, condurrebbe in nome del sovrano i pubblici affari. Col comandante di castel Sant’Angelo fu fatto un accordo, per effetto del quale gli ostaggi presi dal Macdonald furono rimessi in libertà. In alcuni quartieri di Roma la plebe si sollevò e dette addosso a ebrei e a persone credute amiche dei francesi; onde il governo, a evitare maggiori mali, dovè mettere alcune di queste in prigione.
Il generale Championnet s’era ritirato verso Civita Castellana ed ivi, con l’ala sinistra appoggiata al Tevere e con la destra difesa dai laghi di Bracciano e di Vico, avea preso una posizione vantaggiosa e dominava le duo strade maestre conducenti da Roma verso il settentrione. Il 1° di dicembre accadde presso Maglia un piccolo fatto d’arme con danno dei napoletani, sebbene fossero di numero superiori; il 2 i francesi gastigarono la città di Nepi prendendola d(‘)assalto e versando fiumi di sangue. Da allora in poi i cattivi messaggi si successero senza tregua al quartier generale napoletano. Specialmente la sconfitta della estrema ala destra vi fu cagione di gran cordoglio. Il re e il generale in capo, pieni di rovello contro il Micheroux, vollero che rendesse strettamente ragione del suo operare; se non che in fin de(‘ )conti non potendoglisi far carico di sventure che andavano attribuite tanto alle disposizioni generali quanto alla poca fede de’ suoi ufficiali e soldati, e’ riebbe il comando, ma solamente per ritirare anco più in là le sue schiere scoraggite, e sotto la difesa dei cannoni di Pescara alquanto riordinarle.
Né le cose andaron meglio sotto gli stessi occhi del Mack. Egli avea fissato pel di 4 un movimento generale in avanti: mentre quattro colonne attacchèrebbero dal lato di fronte la posizione del nemico, una quinta doveva avanzarsi sulla sinistra riva del Tevere, e per Ponte Felice, dove stava l’ala sinistra del Macdonald, cader sulle spalle ai francesi. Il disegno fallì del tutto, meno pel valore dei francesi che pel vergognoso tradimento nelle file dei regj (8). Lo quattro colonne sulla riva destra furono alla spicciolata messe in fuga dal Kellermann e dal Kniazevicz, dal Lehur e da Maurizio Mathieu fra Monterosi, Nepi e Rignano; per il che la colonna girante, il cui ufficio era cosi venuto meno, marciò indietro verso Roma. Allora il Mack tentò l’impresa in modo opposto. Il generale Roger Damas, che avea preso, in luogo dell’Hessen-Philippsthal ferito, la condotta dell’estrema ala sinistra, doveva avanzare sulla riva destra del Tevere verso Ponte Felice; tutte le altre parti dell’esercito il Mack le menò alla riva sinistra per trovare più su verso il settentrione un passaggio del fiume e cacciarsi fra i due corpi d’esercito dello Cbampionnet, quello del Macdonald verso Civita Castellana e quello del Duhesme presso Ancona. L’ avanguardia del Mack era comandata dal generale Metsch, che il 6 attaccò Magliano senza nessun frutto, e si volse con successo migliore a Otricoli, la cui esigua guarnigione francese fu messa in fuga. Allora il Macdonald lasciò un forte presidio in Civita Castellana, una divisione sotto il generale Kellermann a Ponte Felice, e marciò col nerbo delle sue forze sulla riva sinistra del Tevere. Ivi attaccò Otricoli dove accadde un’aspra battaglia; dal lato del francesi al principe di Santa Croce, uno dei capi de’ patriotti romani, una palla portò via un piede. Abbandonando cinque cannoni e un terzo de’ suoi soldati, circa 2000, che caddero prigionieri del nemico, il Metsch trasse fuori da Otricoli la sua colonna, e si fece strada verso Calvi, dove il Mathieu e il Kniazevicz lo seguirono per chiuderlo compiutamente.
Avuto novella di tali fatti, Ferdinando si partì da Roma e corse ad Albano, dove intendeva aspettare l’esito. Di là (9) egli pubblicò l’8 di dicembre un proclama agli abruzzesi per invitarli a levarsi in massa ed armarsi. Rammentatevi, egli dicea loro, della vostra antica prodezza, accorrete in difesa della religione, del vostro re e padre che mette a repentaglio la vita, pronto a darla via per salvare a’ suoi sudditi gli altari, il focolare, l’onore delle donne loro é la libertà! Chi si rifiuta alla chiamata del suo re, chi ne abbandona le bandiere, sarà colpito dalle pene dovute al ribelli, ai nemici del trono e della Chiesa! Il proclama era in data di Roma, della metropoli del mondo cristiano, dove il re dimorava per restaurare la santa Chiesa. E pure questa volta Ferdinando non dovea rivedere la città eterna. Pieno di tristi presentimenti si partì il 9 da Albano e si affrettò a rientrare nel suo regno (10).
Intanto mentre Roger Damas operava sulla riva destra verso Civita Castellana e Ponte Felice, il generale in capo col grosso dell’esercito si era messo in movimento per fare strada al generale Metsch in Calvi. Essendo in marcia per Cantalupo seppe già che arrivava troppo tardi; il Metsch, disperando di ricevere soccorsi, si era il terzo giorno, 9 di dicembre, dato con tutta la sua colonna prigioniero; e poiché nello stesso tempo venivano dagli Abruzzi notizie che il Duhesme si apparecchiava a marciare, il Mack riconobbe essere decisa la sorte della campagna, e deliberò di ritirarsi senza indugio per difendere quel che poteva ancora esser difeso.
Bisogna però credere che si tardasse di avvertire a tempo debito il generale Damas del mutato disegno, ovvero che qualche incidente sopravvenuto lo impedisse; per modo che gli ultimi soldati della colonna principale lasciarono Roma il 12, e il Damas, giungendovi con la sua colonna solamente il 13, trovò la città in possesso incontrastato dei nemici. Prese in fretta col commissario francese (11) un accordo, per virtù delquale, evitandosi dalle due parti qualunque ostilità, egli potesse condurre a traverso Roma i suoi soldati. Ma comparvero allora con nuove colonne i generali Rey e Bonnamv e rifiutarono di riconoscere il trattato. Sicché dovette il Damas voltarsi indietro a fin di raggiungere per una strada più lunga il confine napoletano. Il nemico gli stava con forze considerevolmente superiori alle calcagna. Presso la Storta un distaccamento di cavalleria francese gli portò via cinque cannoni; presso Toscanella lo raggiunse il Kellermann, che gli era corso dietro da Ponte Felice, e dopo due ore di accanito combattimento lo costrinse a gittarsi su Orbetello, piccola fortezza sul mare, dove Napoli aveva diritto di tener presidio. Anche ivi però, stretto dal generale francese, il Damas concluse con esso un accordo, che gli concesse di imbarcarsi co’ suoi soldati per Napoli abbandonando i cannoni (12).
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In Napoli il 1° di dicembre Sir William Hamilton e Marzio Mastrilli marchese Gallo aveano stretto una lega offensiva e difensiva, in virtù della quale l’Inghilterra dovea mantenere un’armata nel Mediterraneo atta a mettere a dovere quella del nemico (13), e dal suo lato Napoli coopererebbe con quattro vascelli di linea, quattro fregate e quattro navi minori, e oltre a ciò in caso di bisogno somministrerebbe alla squadra inglese 3000 soldati di marina. Il 5 tornò da Livorno il Nelson; secondo glintendimenti suoi, e compiutamente d’intelligenza con esso, avea senza dubbio operato Sir Hamilton. L’ammiraglio inglese fece in fatti, senza esser legato da promesse, quanto stava in lui per proteggere la famiglia reale; se non che pel momento occorrevano ajuti piuttosto per terra che per mare. La legazione francese si trovava tuttora in Napoli, come se la più perfetta pace fra le due nazioni regnasse; il 6 diceva ancora il Lacombe al marchese Gallo: se la corte desidera di avere Roma e la Romagna, se ne potrà trattare. Ma quando ventiquattr’ore più tardi fu per ordine del re significato a tutti i francesi che dentro tre giorni avessero a lasciar la città e il regno imbarcandosi su due navi che eran già pronte nel porto (14), allora il Lacombe fece togliere dal palazzo della legazione l’arme della Repubblica, si procurò passaporto inglese e russo, e al termine fissato parti per mare con la famiglia e con la servitù alla volta di Genova.
Nel gabinetto e nella corte, per le nuove che successivamente giungevano dal quartier generale, regnava in quel tempo la più angosciosa inquietudine. E la regina, che credeva suo marito in Roma e tremava per la vita di lui, non sapeva il peggio; (avea) solo il presentimento che oramai si giocasse quasi l’ultima partita. Il suo stato impensieriva quanti la circondavano; ella non si lasciava vedere da nessuno che della famiglia non fosse (15). Chi poteva portare ancora soccorso in sì terribili congiunture? L’imperatore Francesco! Ma come osare di rivolgersi a lui? Non aveva fin da principio il ministro Thugut detto all’inviato napoletano abate Giansante in Vienna, che se Napoli fosse attaccato, l’imperatore sarebbe pronto ad ajutarlo; ma se Napoli attaccasse da sé, dovrebbe tutto il rischio essere lasciato a lui? Non aveva Sir Frederick Eden detto la stessa cosa all’abate, e non era venato al campo di S. Gennaro un corriere da Londra e da Vienna, da’ cui dispacci indubitatamente si rilevava, che nel caso di un’anticipata azione l’Austria non darebbe soldati, né sussidj l’Inghilterra? Quando poi giunse a Vienna la nuova che i napoletani marciavano sul terreno romano, il Giansante, che nella massima commozione avea chiesto un’udienza, dovè sopportare che l’imperatore tutta la sua collera contro di lui sfogasse, dicendo che non c’era da fidare nella sua corte, avere l’Inghilterra condotto Napoli a guerreggiare per ficcarlo precipitosamente nel gineprajo e renderlo dall’influenza imperiale indipendente; lui, imperator Francesco, non poter mettere a repentaglio il bene de’ suoi sudditi, né addossarsi il carico delle conseguenze (16). In tal modo si era operato contro la volontà del potente amico, e tuttavia — così doveva Carolina dire a se stessa — non c’era da ricorrere se non a lui. L’ansia, il terrore, la penosa angoscia dell’animo trasparivano da ogni verso che l’infelice regina scriveva in quei giorni a Vienna, dalle grida di soccorso che ella mandava a sua figlia e al «caro marito» di lei. Si studiava di rappresentare le cose in modo da fare apparire che suo marito non poteva cedere, che i francesi erano stati gli assalitori ed essi gli assaliti. Noi abbiamo, essa diceva, sulla strada che mena dai nostri confini a Boma, trovato i loro magazzini, prova manifesta che avessero in animo di assalirci. I francesi avean simulato amicizia e buon volere, si erano apparentemente ritirati, ma invece avean lasciato un presidio in castel Sant’Angelo; il loro generale Rusca si era messo in agguato contro l’ala destra dei napoletani, gli aveva assaliti, e così dato manifestamente principio alle ostilità; s’era dunque realmente verificato il caso pel quale l’imperatore Francesco avea promesso il suo ajuto; si affrettasse a tener la promessa; o se non poteva venire a soccorrere di persona, mettesse a disposizione di suo marito da 10 a 20 mila uomini, che il naviglio napoletano unito all’inglese e al portoghese andrebbe a prendere a Trieste o a Fiume, e che il re assumerebbe di pagare e mantenere; e se né anche questo potesse essere, che almeno l’imperatore si mettesse di mezzo con l’autorità sua e fermasse i francesi, che di certo non manchèrebbero di ascoltarne la voce. E l’imperatore lo farà! Egli vorrà, egli dovrà porger soccorso, non potrà fare altrimenti, lo stesso suo interesse lo chiede, e la convenienza lo impone! Egli non può sacrificare i suoi più prossimi parenti!…
Le condizioni della real famiglia parvero anche assai peggiori, quando al disastro che minacciava dal settentrione si aggiunse all’opposto confine del regno un colpo di mano pel quale erano già fatti gli apparecchi. A quel che pare, innanzi ancora che le prime infauste nuove pervenissero alla metropoli, Giuseppe Logoteta, partitosi da Napoli, era corso alle Calabrie col proposito di guadagnare a una segreta intrapresa compagni in Reggio, sua patria, in Palmi e in altri luoghi. Si trattava di dar mano a una schiera di francesi, che, come Logoteta credeva di sapere, stava per esser mandata dal generale Bonaparte a fin di accendere la rivoluzione nelle province napoletane, e che da navi della squadra francese doveva essere sbarcata a tèrra. Ma raccordo fu tradito il 12 di dicembre; nella notte seguente Don Angelo di Fiore, uditore della R. Corte a Catanzaro, fece arrestare il Logoteta con altri sessantaquattro, e rinchiudere la più parte nella fortezza di Messina, il rimanente in vicine carceri. Per tal guisa fu spenta in germe una congiura che poteva in quello stato di cose esser cagione di gravissimi pericoli; e il di Fiore, giovandosi delle famiglie rimaste o trattenute come di ostaggi, fu in grado con pochissime forze di mantener l’ordine e far rispettare la legge in quelle contrade (17).
Nella metropoli regnavano allora ansia e spavento presso alcuni, maligna gioja e speranza presso altri, inquietudine e scompiglio da per tutto. Gli audaci imprecavano e stringevano i pugni, i paurosi tremavano e torcevan le mani. Nei tempj si facevano pubbliche preghiere, predicatori per le strade eccitavano il popolo contro i nemici di Dio e della Chiesa, poiché il pericolo sempre più vicino alla città soprastava. Le schiere, partite tre settimane innanzi in bell’ordine e in parata guerresca, erano adesso in gran parte disfatte e distrutte; quel poco che ancor ne rimaneva, raccolto insieme cercava, con fretta simile a fuga, la via per ripassare i confini.
La mattina del 13 di dicembre re Ferdinando era di nuovo a Caserta; alle 11 di sera ritornò alla metropoli, dove gli animi erano in preda alla più viva commozione. Il di seguente il marchese di Niza con una squadra portoghese, che avea tre vascelli di linea, facea gittar l’ancora nel porto di Napoli; e quasi nel medesimo tempo, venendo dalle acque egiziane, giungeva nel golfo il capitano Hope con l’Alkmene, entrambi opportuni e bene accetti rinforzi al naviglio che per ogni emergenza stava lì a disposizione.
Imperocché per terra gli avvenimenti stringevano e precipitavano, tanto che in corte e nella città tutti perdevano la testa, e dove prima avean nutrito le più ardite speranze, ora davano ogni cosa disperata e persa. Già le colonne dello Championnet marciavano da tutti i lati verso 1 confini, il Rey per Terracina, il Macdonald per Frosinone e Coprano. Già il Duhesme stava presso il Tronto, già il Lemolne entrato negli Abruzzi minacciava Aquila per avanzare di là verso Popoli, dove le due colonne settentrionali dovean darsi la mano. Il Mack di certo non indugiò a fare apparecchi dal canto suo. Mentre egli col nerbo delle forze faceva di Capua il suo punto d’appoggio, il Micheroux con le sue schiere riordinate, fra cui non poca cavalleria, doveva coprire il forte di Pescara, e il Gamba con sei battaglioni tener Popoli. In generale l’esercito regio, non ostante che avesse sofferto gravi perdite, soperchiava sempre per numero di combattenti il repubblicano; oltre di che ai soldati di Ferdinando sovveniva potente alleato il gagliardo popolo degli Abruzzi, nel quale la devozione verso il sovrano aaccompagnava all’odio ardente contro i francesi, talché il proclama reale ebbe facilmente virtù d’infiammarlo. Già cominciavano a raccogliersi su’loro monti, già formavano delle piccole schiere di milizia, che tanto si mostravano coraggiose e risolute quanto i soldati regolari si erano mostrati in campo codardi ed inetti (18).
In fatti sull’esercito, per quel che si sentiva dire, non c’era quasi più da fare assegnamento veruno. Indecisione e sconsigliatezza nei generali, mancanza di disciplina, di buona volontà e di obbedienza nei soldati apparivano ogni giorno maggiori, e si estendevano anche alle forze di mare, senza eccettuarne gran parte degli ufficiali; sicché la famiglia reale doveva reputarsi felice vedendo sventolare nel golfo le bandiere d’Inghilterra e di Portogallo. Il Mack, al quale Ferdinando e Carolina continuavano a testimoniare grandissima stima, giudicandolo non altrimenti che una vittima trascinata all’infortunio, se non per colpa, almeno per amor loro, non poteva in nessun modo confortarli, come colui che aveva anch’esso perduto ogni fiducia nell’attitudine dell’esercito alla guerra (19). Vedeva da per ogni dove tradimenti, mentre dall’altra parte egli, e con lui tutti quelli che avevano in mano la direzione suprema della guerra, erano di tradimento accusati. Nella metropoli si sentivano in quest’ultimo senso voci così altamente minacciose, che per ordine del re il direttore della segreteria di guerra, generale Ariola, non fu solamente dimesso dall’ufficio ma anche arrestato e, sigillategli tutte le carte, condotto nel castel dell’Uovo, più per sua sicurezza personale che per infliggergli una pena, della quale erano piuttosto meritevoli i generali sul campo.
In fatti avvenivano ancora ogni giorno cose che sbugiardavano ogni calcolo, ogni previsione del generale in capo. Il Duhesme avea passato il Tronto. Innanzi a lui stava Civitella, piccola fortezza situata sopra un’altura quasi inaccessibile, sovrabbondantemente provvista di tutto il bisognevole; dopo un investimento di circa due ore il colonnello Lacombe ne apri ai francesi le porte. Il Duhesme entrò come vincitore nella vicina Teramo, città principale della provincia, vi piantò l’albero della libertà, mise fuori una quantità di prigionieri, congedò gl’impiegati regj, ne pose altri nel luogo loro,si comportò insomma da padrone in terra conquistata. Oramai egli poteva volger l’occhio alla importante fortezza di Pescara, per muovere di là contro Popoli, dove incontrerebbe la colonna Lemoine.
II
FUGA DELLA FAMIGLIA REALE IN SICILIA
Nello stesso giorno, che la squadra inglese nel golfo di Napoli era cresciuta delle navi del Niza e dell’Hope, nel palazzo reale avean cominciato a fare i bauli, poiché fuori della Sicilia non appariva altro rifugio (20). Bisognò per altro fare alla chetichella, e senza che punto ne trapelasse, gli apparecchi della partenza, dacché il pubblico invigilava con diffidente sospetto tutti i passi della corte e peggio ancora le relazioni di quelli di fuori con essa. La gente minuta odiava i francesi, e gl inglesi non amava punto, perché gli uni e gli altri stranieri. Invece i desiderosi di novità tenevano segretamente da quelli, e notavano con isdegno come questi esercitassero efficacia predominante sul gabinetto e validamente sostenessero e puntellassero dal lato del mare il tiranno borbonico. Né all’Hamilton né all’ammiraglio parve in quei giorni prudente consiglio l’andare a corte, poiché correva voce che i «giacobini» o, come da sé più volentieri si denominavano, i «patriotti» spiasser l’opportunità d’impossessarsi del Nelson o dell’ambasciatore per conservarli come ostaggi. Il commercio della real famiglia co’ suoi protettori inglesi era mantenuto solamente per mezzo della regina e di lady Hamilton, tra le quali da parecchi anni correvano tali termini d’intima dimestichezza da non potere facilmente dar ombra neppure nelle presenti congiunture. E lady Hamilton si mostrò veramente in quei giorni sotto il suo più bell’aspetto, prestando alla real protettrice e a quelli che le appartenevano di tal maniera servigi, quali non dalla moglie del rappresentante d’una gran potenza alleata, ma da una donna piena di sincera pietà, daun’amica devota e capace d’ogni annegazioue si sarebbero solamente potuti aspettare. E a quante cose occorreva provvedere in quei momenti, quante cose salvare e custodire! Il tesoro di S. Gennaro; i danari pubblici, parecchi milioni di moneta, oltre a oro e argento in verghe; i capi più preziosi dei reali palazzi, dei musei di Capodimonte e di Caserta, degli scavi di Pompei e d’Ercolano; giojelli e oggetti di valore, vestiario e biancheria; finalmente carte, scritti ed archivj. Di molte cose prese cura la regina in persona, non disdegnando di lavorare con le proprie mani, ajutata dalle sue figliuole e dall’amica Emma, nella cui abitazione furono portate non le cose di maggior valore soltanto, ma anche le sacche con entrovi le masserizie più necessarie da dover essere momentaneamente custodite (21).
Sempre più sconfortanti giungevano di fuorivia le novelle; ed anche su questo punto lady Hamilton era quella a cui la regina Carolina poteva confidare tutto ciò che le occupava, commoveva, scompigliava l’anima: il dolore e la disperazione, la vergogna e l’ira, per l’onta che le toccava a sopportare, per le bassezze e le volgarità che si vedeva dattorno. «La viltà, il tradimento, la paura, la costernazione generale e il nessun vigore mi fanno molto temere», così ella scriveva il 17 di dicembre alla Hamilton. «I miei complimenti all’eroe Nelson e alla sua buona nazione: arrossisco della infame viltà della nostra!… I nostri sono de’ vili, degli infami, degli esseri esecrati!» Una infausta nuova teneva dietro all’altra, non annunziando solmente che i soldati di terra fuggivano a schiere, ma anche che i soldati di marina e i marinari si mostravano svogliati e vili, sotto pretesti di ogni maniera rifiutavano obbedienza, sicché era da temere che, avvicinandosi il nemico, abbandonassero le navi e di null’altro, dal loro scampo in fuori, si curassero. Né il tentativo di trattenerli con promessa di doppia paga riuscì con gran parte di loro; per modo che bisognò preparare i cannoni e minacciare di far fuoco senza rispetto. Sulla regina, che in tutto questo tempo era già maliscente né il cavarle sangue le aveva recato benefizio, tutte queste cose produssero tanta impressione da abbatterne profondamente l’animo e le forze. «L’anima mia è così trista, i colpi che da ogni parte ricevo mi hanno sbalordita, sono al colmo dello sconforto, temo di perdere la ragione.» Le sue lettere in quei giorni di terrore e di calamità dovevano spezzare il cuore della sensibile ladv. «La più infelice delle donne, delle madri, delle regine, sebbene amica devota», così ella sottoscrisse più d’una volta. «I pericoli crescono, Aquila è caduta con 6000 uomini, a eterna vergogna della patria nostra; il Mack scrive lettere disperate.» Il principe ereditario, senza dubbio per desiderio della madre, era andato a Capua; le sue descrizioni intorno alla stato dell’esercito erano tali dà annientare ogni sorta di coraggio. «L’orribile ruina,» così ella si lamentava, «distrugge due terzi della nostra stessa esistenza. Il momento è crudele, mortale. Sono nel colmo della desolazione e delle lagrime, persuasa che il colpo sarà da sbalordire, la rapidità soprattutto, e parrai di non venirne mai a fine. Mi rimetterò alla divina provvidenza.» «Sono stordita e disperata,» dice in un altro luogo, «questo cambia a un tratto il nostro stato, la vita e condizione nostra, tutto quanto ha finora formato le idee mie e della mia famiglia; non so più dove m’abbia il capo.» Poi ritorna in sé e riprende animo: «Siate sicuro che nulla, nulla farà vacillare i nostri principj e che, se il nostro paese è vile, noi dureremo sempre onesti e sinceri…» (22).
Il 18 di dicembre comparve il general Mack innanzi al re e alla regina, dei quali conservava sempre la piena fiducia, per significar loro che non era in grado di contrastare al progresso del nemico e per raccomandar caldamente che cambiassero la residenza di Napoli con quella di Sicilia. Non rimaneva quasi altro scampo; si trattava per altro di condurre in atto il disegno. Da un lato c’era d’intorno a loro della gente che, subodorata la partenza della corte, non badava se non a spiarne il momento per propalarlo al pubblico; e quando, non ostante tutte le precauzioni di segretezza, la cosa si venisse a risapere, chi poteva assicurare che non si rinnovasse nel napoletano la scena di Varennesl E anche da altri lati la fuga andava soggetta a gravi pericoli. Non era in certo modo un abbandonare al nemico la città e il paese? Oltre di che si separavano dagli alleati, si riducevano in una isola «à la pointe de l’Europe», segregata da ogni immediato commercio, senza opportune novelle di ciò che nel resto del mondo accadeva! Da ultimo, viaggiando per mare, in una stagione che s’annunziava singolarmente cattiva e tempestosa, qual sicurezza avevano di toccar sani e salvi l’altra riva? Ciò nondimeno continuarono gli apparecchi della partenza. La Vanguardia, nave ammiraglia del Nelson, fu messa in assetto per accogliere gli ospiti coronati; sgombrate a poppa le camere e ogni cosa abbellito con nuove pitture alle pareti, occupati nella corderìa gli artefici a preparare d’ogni maniera brande, e via discorrendo. Tutto ciò ch’era stato nascosto presso l’ambasciata inglese e tutti gli oggetti di valore rimasti nelle stanze reali furono a poco a poco portati di soppiatto, o, come il Nelson diceva, di contrabbando, a bordo della Vanguardia. L’essenziale era di condurre inosservata la real famiglia dal palazzo sotto la protezione della bandiera inglese; il modo per effettuare tal disegno fu lungamente e in mille maniere ventilato.
Del naviglio napoletano da guerra dovevano il Sannita e l’Archimede fare anch’essi il viaggio in Sicilia; furono su quelle due navi trasportati i tesori principali de’ musei e delle gallerie, le gioje della corona, e denaro per circa due milioni e mezzo di lire sterline. L’altra parte, e di gran lunga maggiore, del naviglio fu fatta uscire dal molo e messa in luogo dove dalla città non potesse recarlesi offesa; e poiché buon numero dell’equipaggio era sceso a terra, bisognò che ufficiali e marinari inglesi cooperassero al lavoro. Il comando del Sannita lo riteneva per sé il Caracciolo; quello dell’Archimede era, a quel che sembra, commesso al conte Giuseppe Thurn-Balsassina, al quale, come ad uno dei più abili e reputati ufficiali della marina napoletana, toccarono in questo congiunture parecchi incarichi di fiducia (23).
Francesco Caracciolo, rampollo principesco di un ramo di questa famiglia ricca, cospicua e numerosa (24), era senza dubbio entrato al servizio di marina fino dalla prima giovinezza, e nell’anno 1795, essendo già capitano di vascello, avea fatto più volte parlare di sé. L’ammiraglio Hotham nel marzo di quell’anno avea preso dalle mani di Lord Hood il comando della squadra inglese nel mediterraneo e quindi l’ufficio di tenere in iscacco, con la cooperazione dei legni da guerra napoletani, la squadra del contrammiraglio Martin che si trovava a Tolone. Uno di essi legni napoletani, e a quel che pare il più rilevante, era il Tancredi, vascello di linea di 74 cannoni, che il 12 di marzo si accompagnò alla squadra che operava contro il Martin. Però sebbene il 13 e il 14 fra Savona e Capo Mele si venisse ad aspra battaglia, nella quale il capitano Nelson col suo Agamennone riportò gli allori, tuttavia né il Tancredi e il suo capitano Caracciolo, né alcuno in generale dei legni napoletani non trovò l’occasione di segnalarsi e nemmeno di prender parteall’azione, siccome apparisce dalle relazioni navali di quel tempo, dove sono nominati solo di passaggio e piuttosto dal lato negativo, indicando dove non avean preso parte e ciò che non avean fatto e simili. Non c’è dubbio che l’essere così avvenute le cose non dipendesse dal Caracciolo; ma dall’altro canto non c’era neppure nessuna ragione per attribuirgli, come si fece più tardi, il merito d’un eroe di prim’ordine mentre non avea fatto nulla da ciò, per parlare di battaglie navali che niuno era in grado di indicare, e per vantare il suo coraggio del quale non aveva avuto occasione di dar prova in fazioni importanti (25). D’altronde si capisce che a’ suoi compatriotti e’ fosse particolarmente caro come quegli che, al contrario dello straniero Thurn, era uno dei loro. Essendo stato nel 1795 compagno d’arme degl’inglesi, anco presso di questi il Caracciolo ebbe credito; e tal circostanza, unita alla fiducia che, come appartenente a una delle prime famiglie, godeva in corte, può aver contribuito efficacemente a fargli affidare la condotta delle navi nel viaggio in Sicilia. Egli aveva allora il grado di contrammiraglio.
Intanto ogni giorno gli esterni pericoli, le agitazioni interne crescevano. Il Mack mandava lettere su lettere e un ajutante dietro all’altro per ammonire la corte che non indugiasse più a lungo l’imbarco, poiché le colonne nemiche si venivano da tutti i lati sempre più appressando alla città. In questa il popolo non era più da tenere in freno. Già i lazzaroni cominciavano!a loro caccia contro gli odiati francesi. Torme di plebaglia si cacciavano nelle case dove sospettavano si trovassero giacobini; e furti ed altri delitti non mancavano in tali irruzioni. Quanti forestieri erano in Napoli cercavano di nascondersi o studiavano espedienti per fuggire, ma i persecutori loro non di rado gli scoprivano, gli oltraggiavano, li trattavan male; corse voce che anche qualcuno ne uccidessero.
La sera del 19 di dicembre crocchi di gente, raccolti innanzi al palazzo reale, concitati gridavano verso le finestre: «Viva il re, muojano i giacobini.» Alcuni chiedevano che si mostrassero al popolo i nemici interni perché si avventasse su loro e gli annientasse. Altri domandavano armi contro i francesi, e si dicevan pronti a uscir fuori per cacciare gli stranieri dal regno. Il re e la regina, il principe ereditario e sua moglie, arciduchessa Clementina d’Austria, si fecero al terrazzino, salutarono con affabili gesti la folla, mentre il general Pignattelli e altri confidenti della corte si mescolavano fra quel la, con buone parole la confortavano, e a poco a poco la inducevano a diradarsi. Ma la mattina seguente la scena ricominciò, e prese da un’ora all’altra un carattere minaccioso. Già la sera innanzi erano stati notati degli aizzatori che domandavano il capo del ministro della guerra Arida, al quale non cessavano di attribuire i disastri della spedizione; sicché parve necessario per la sua sicurezza farlo in tutta fretta e segretezza partire per Messina. Per le vie della città correvano bande armate; una di esse, forte di 1500 uomini e capitanata da un certo de’ Simone, portava innanzi come simbolo una bandiera con una piccola croce (26), annunzio e forse primo segno della susseguente armata cristiana e del napoletano sanfedismo. Se s’imbattevano in qualcheduno che all’aspetto paresse francese, lo trattenevano, lo maltrattavano, talvolta anche l’uccidevano, come accadde a un mercante tirolese, chiamato Peratoner, e poi a un piemontese, creduti entrambi esser di Francia.
La mattina del 21 di dicembre la regina Carolina attendeva appunto a scrivere al suo genero per descrivergli la sua disperata condizione, l’angustia dell’animo suo; per pregarlo e scongiurarlo di prendere sé e i suoi sotto l’alta protezione imperiale, di non abbandonare la sua fedel Napoli in preda ai nemici; poiché ella doveva lasciar loro piazza libera per quanto la spaventasse il pensiero che altri potesse giudicarla timida e codarda; lei come lei rimarrebbe pure; in tali circostanze la morte non sarebbe forse per lei una liberazione? Ma ell’era moglie, era madre, e le correva obbligo di provvedere alla sicurezza de’ suoi… Quand’ecco giungerle all’orecchio il suono di selvaggio tumulto, e grida e pianti di moltitudine appassionatamente concitata. L’infelice corriere di gabinetto Antonio Ferreri, poco innanzi spedito dal palazzo con un messaggio all’ammiraglio Nelson, giungendo sul Molo e domandando in lingua francese una barca, era stato scambiato per francese e assalito e crudelmente ucciso dalla folla, che ora, trascinatone il cadavere mutilato sotto le finestre del real palazzo, fra gli urli e le maledizioni lo metteva in brani. Su in corte non si sapeva ancora chi fosse stato dal furor popolare colpito; si diceva in genere che la folla infuriava contro gli emigrati (27). Il re, dopo aver mandato abbasso alcuni de’ suoi ufficiali che furono maltrattati anch’essi, comparve in persona sul terrazzino, e ad alta voce arringò il popolo: «Che fate? Chi vi ha ordinato questa scelleraggine? Andate, ohe mi vergogno d’esser napoletano!» Il tumulto fu così sedato, e la folla a poco a poco si disperse.
Ma giunsero altri ragguagli: il popolo dimandava armi, voleva occupare i castelli; la sete popolare di vendetta non si rivolgeva solamente contro i francesi aperti o mascherati, ma anche contro il capo della polizia, a cui si faceva carico di tenere il re e la regina lontani dal popolo. Le righe che Maria Carolina alle tre dopo mezzogiorno vergò sulla carta significavano le sue ansie mortali: «Il pericolo è imminente! A Dio piaccia di salvarci, ma a voi raccomando chi fra quelli che m’appartengono sopravviverà a quest’ora…» In lattiche cosa soprastava, mancando i mezzi sufficienti per resistere? La signoria terribile dei discendenti di Masaniello, ovvero quella dei regicidi francesi! Non c(?) era da perdere un momento. In fretta furono da Ferdinando sottoscritti i decreti, senza dubbio già preparati, co’ quali Francesco Pignatelli era nominato regio vicario, il barone Mack capitan generale, e al Simonetti e a Giuseppe Zurlo si affidavano gli affari della giustizia e della finanza. Il marchese Gallo ebbe ingiunzione di tenersi pronto senza indugio al viaggio, a fine d’imbarcarsi a Manfredonia o, se lì non fosse più possibile, a Brindisi per Trieste, e recarsi presso l’imperatore Francesco per ragguagliarlo a bocca dello stato delle cose e implorare istantaneamente il soccorso degli alleati…
Gran sopraccapo dette alla real famiglia la quantità di persone che, accompagnandosele e sotto la sua protezione, volevano riparare in Sicilia. Oltre alla Vanguardia, al Sannita e all’Archimede, erano disponibili due navi noleggiate da Sir Hamilton e destinate ai francesi emigrati, parecchi trasporti inglesi e diversi bastimenti mercantili, in tutto 25 vele. Se non che quelli che desideravano d’imbarcarsi crescevan sempre di numero, tanto che in breve non c’era più luogo. Perché non s’introducessero di straforo persone estranee, Maria Carolina avea fatto preparare dei biglietti, incisovi tre «puttini, uno dei quali seduto sotto un cipresso dava dato alla tromba, due altri facevano cenni e invitavano a salire, e scrittovi sotto di mano propria della regina: Imbarcate, vi prega M. C. (28). Ella parve darsi singolarmente pensiero che nessuno di coloro che, appartenendole e prestandole servigi, si erano attirato Podio della fazione francese, fossero, o per cattiveria o per vendetta, dimenticati, ed affermava d’essere piuttosto angustiata del pericolo altrui che del proprio. Tuttavia, non ostante la sua buona volontà, c’erano limiti che non si potevano oltrepassare. Uno di quelli che rimasero esclusi, disperato nel vedersi esposto alla vendetta de’ suoi numerosi nemici, si uccise con una pistolettata nel capo. Fu questi il marchese Vanni, uno dei giudici criminali degli ultimi otto anni; ma senza dubbio non fu tal qualità che gl’impedì di essere accettato fra i compagni di viaggio. La regina, sentendo dell’orribil caso, fu fuori di se e si fece amari rimproveri di non aver trovato un posticino anche per lui (29). Fra quelli che dovevano essere imbarcati con la famiglia reale erano, oltre il ministro Acton e i conjugi Hamilton, il ministro austriaco conte Francesco Esterhazy (il segretario di legazione barone Cresceri rimase in Napoli a reggere la legazione), il personale della legazione russa, i principi di Belmonte, Cicala, Villafranca, il cavalier Vivenzio, il marchese Del Vasto, il Cardinal Buschi, don Innocenzo Pignatelli, il marchese Giuseppe Hans, Giuseppe Castrone ecc. (30).
Volentieri la regina avrebbe accolto due principesse, maturo di été e crudelmente perseguitate dall’infortunio, Madama Adelaide e Madama Vittoria, figliuole di Luigi XV. Cresciute fra le pompe della corte di Versaglia, allo splendore dell’onnipotenza regale, in mezzo alla società più raffinata e alla più squisita etichetta, rimaste immacolate tra quei costumi di lusso e di sensualità esternamente attrattivi ma profondamente corruttori, esse aveano nel febbrajo del 1791 lasciato la Francia per recarsi a Roma e colà vivere vita conforme a’ loro sentimenti religiosi. Di tal viaggio se n’era fatto allora un affare di stato; s’era detto che aveano seco un seguito di 80 persone e 12 milioni di franchi; le dames de la halle s’eran condotte a Belle-ville, e senza dubbio vi avrebbero fatto delle scene simili a quelle del 5 e 6 di ottobre 1789, se le principesse, avvisate a tempo, non si fossero rifugiate la notte innanzi nelle Tuileries, di dove in uno dei giorni seguenti chetamente si partirono. Ma non avean portato punti tesori; il popolo di Parigi non avea neppure concesso il trasporto dei bagagli; talché a Roma toccò loro a vivere tutt’altro che con lusso e negli agi. Cacciate di lì al mutarsi del governo ecclesiastico in repubblica, accolte pietosamente dalla corte napoletana a cui le legavano vincoli d’amicizia e di parentela, avean menato fin allora in Caserta, con i modesti sussidj somministrati loro dalla linea spagnuola della famiglia, una vita tranquilla e ritirata senza essere a carico a chicchessia, fino a che si videro minacciate da una visita de(1) loro compatriottl persecutori. Il re e la regina le aveano avvisate dell’imminente viaggio; ma vedendo il popolo tanto concitato contro tutto ciò che avea nome francese, non s’erano arrischiati a lasciarle venire di giorno a Napoli, proponendo invece che il proprio consiglio seguissero, e all’occorrenza facessero un giro più largo, e prima a Portici e poi di lì si lasciassero condurre alle navi (31).
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Importava che la real famiglia uscisse inosservata dal palazzo, e però bisognava aspettare che annottasse. Dopo le 8di sera tre barche, condotte dal capitano Hope, si accostarono al Molosiglio ch’è al canto meridionale dell’Arsenale. Il Nelson in persona scese a terra; ed essendo il re e la regina, il principe ereditario con la moglie e la fìgliolina di appena sette mesi, i due fratelli suoi minori Alberto e Leopoldo, e le tre principesse ancora nubili, in tutto dieci persone, usciti da una porta segreta e per una galleria coperta fuori del palazzo, gli accompagnò alle barche, nelle quali presero anche posto i principi Belmonte e Cicala, l’Acton e il conte Thurn. Alle 9 e mezzo eran tutti a bordo della Vanguardia, dove i conjugi Hamilton, il capitano Hardy e gli altri ufficiali fecero a gara per rendere agiata ai fuggitivi la dimora.
Era il giorno di S. Tommaso e un venerdì. Si trovavan salvi, ma in che condizioni! Quali pensieri dovean rivolger nell’animo, quali rimproveri fare a sé medesimi! E come tristo e sconfortante dovea loro apparire il futuro! Ceder Napoli, la bellissima città, l’ameno paese, forse per non mai più rivederlo! «Mai non dimenticherò Napoli», scrive Carolina a bordo della nave ammiraglia inglese, «vi bo passato trent’anni della mia vita! Voglia Dio guardarla da una sventura, da un eccidio, per opera di amici o di nemici! O mio genero e nipote, lasciate ch’io ve la raccomandi, e fate quanto sta in voi perché possiamo un giorno tornare!» Era suo conforto il sapere che i suoi cari si trovavano nascosti…
La mattina del 22 grande fu la maraviglia dei napoletani nel sentire che la real famiglia avea lasciato il palazzo e la città, né minore in tutto il popolo e in gran parte delle alte classi il desiderio che il re potesse essere indotto a restare. Sino dal far del giorno il golfo si riempì di barche d’ogni qualità, che circondarono la nave dell’ammiraglio inglese. Il cardinale arcivescovo Capece Zurlo con una rappresentanza del clero, l’eletto del popolo con i consiglieri municipali, la magistratura e va discorrendo, salirono a bordo della Vanguardia e pregarono che il re volesse concedere loro udienza. Ma solo il cardinale fu ricevuto, e Ferdinando gli fece intendere «che egli s’ era messo per mare poiché s’era visto tradito per terra.» Le altre deputazioni furono ascoltate e congedate dal ministro Acton.
Pel Nelson era cosa di gran momento il decidere intorno all’armata reale, di cui, per effetto della viltà dei marinari e poca voglia che avean di combattere, appariva mal sicura la sorte, e pure bisognava a qualunque costo impedire che cadesse in mano dei vittoriosi nemici. Gli ufficiali inglesi l’avrebbero volentieri incendiata tutta. Al che il re e la regina si opposero, giudicando di dover serbare questo partito estremo per 1 ultimo momento, e ordinando piuttosto che il Forteguerri, comandante superiore della marina, si procurasse alberi di ricambio per condurre con l’ajuto di essi in salvo verso i porti siciliani almeno una parte di quel naviglio ch’era costato tanti anni di fatiche e molti milioni. Simili ordini ebbero dal Nelson il marchese de’ Niza e il commodoro Campbell, che dovevano intanto rimanere con le navi loro nel golfo di Napoli (32).
Il 23 innanzi mezzogiorno il general Mack, chiamato dalla corte, si recò sulla Vanguardia, ed ebbe una lunga conferenza col re, presenti l’Acton e il Nelson, il quale vedeva assai di buon occhio lo sfortunato generale, cui le sofferte disfatte aveano non solamente abbattuto l’animo ma anche prostrate le forze (33). Furon prese per il caso estremo le seguenti risoluzioni: se la città non potesse resistere, l’esercito si ritirerebbe verso Salerno o attraversando le due Calabrie si avvicinerebbe alla Sicilia, dove dal mare riceverebbe appoggio ed ajuto. Senza dubbio si faceva assegnamento sulla fedeltà e risolutezza delle popolazioni meridionali, siccome appunto in quei giorni quelle del settentrione, svergognando la viltà dell’esercito regolare, fedeli e risolute si mostravano. Non era da esse minacciato il Lemoine? Il Duhesme, vittorioso fino a Pescara, non doveva egli pensar seriamente ai casi suoi, se ai prodi abruzzesi riusciva di occupar Teramo, di distruggere i valichi sul Tronto e di impedirò così la riunione co’ romani? Ma quando pure le speranze sul sollevamento dei calabresi fallissero, o quando siffatto mezzo si chiarisse inadeguato al fine, poteva il Mack coi resti del suo esercito passar facilmente da Reggio a Messina, attendere in Sicilia a riordinarlo, e aspettare il momento opportuno per ricominciare la guerra.
Poi che il Mack ebbe lasciato la Vanguardia, la squadra reale rimase ancora quasi tutta la domenica a vista di Napoli; pareva che si aspettasse qualche cosa (34). In fatti le principesse francesi non erano ancora giunte. Sia che per effetto della loro indole timida non sapessero risolversi in tempo, o che incontrandosi al luogo fissato fosse stata dimenticata qualche cosa, fatto sta che non rimase loro altro se non tentare di recarsi a Taranto o a qualche porto della costa adriatica per imbarcarsi quivi alla volta della Sicilia o di Trieste, dove potevano esser sicure che la regina caldissimamente le raccomanderebbe a sua figlia e al suo genero imperiale.
Il 23 di dicembre, sul far della sera, le navi della squadra reale levarono le ancore; fine del viaggio era Palermo.
fonte
https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1885-Fabrizio-Ruffo-Barone-von-HELFERT-2025.html