“FABRIZIO RUFFO RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI” scritto da Barone Von HELFERT Vol. Primo (II)

III L’ARMISTIZIO DI SPARANISE
Nei giorni che precedettero la partenza della famiglia reale, i movimenti militari non eran cessati. Già il Duhesme stava innanzi alla fortezza di Pescara e la circondava da tutte le parti. Provvista di tutto il bisognevole pel mantenimento e per la difesa, non avea quella potente fortezza da temer molto le forze non troppo numerose che la minacciavano. Alla intimazione dei francesi il governatore Préchard rispose in modo così risoluto da far credere che con coraggio e costanza si sosterrebbe; tuttavia, appena ventiquattr’ore più tardi, egli fece come il Lacombe in Civitella del Tronto, e il 23 di dicembre capitolò (35).
Allora ebbe effetto quello che da più settimane si apparecchiava. Mentre coloro ch’erano propriamente addetti a servire e difendere Ferdinando in maniera così vergognosa sbigottiti cedevano, la popolazione dei monti dietro alle spalle del nemico si sollevava selvaggia e sfrenata, crudele e vendicativa, con l’animo pieno d’implacabile odio verso i francesi, e tanto risoluta, tanto sprezzante di fatiche, di pericoli e della morte stessa, che in breve il nemico messo alle strette dovè tremar dallo spavento. Un par di mille abruzzesi, in gran parte malamente armati, incendiarono il ponte di legno sul Tronto; impadronitisi della città di Teramo occupata dai francesi ne cacciarono i nuovi ufficiali, e di lì sul paese circostante si estesero. Di certo non erano essi in grado di tener testa in campo a schiere esperte e agguerrite; sicché il capo di brigata Cbarlot, mandato da Duhesme contro a loro, non durò fatica a sgominare quegli stuoli indisciplinati, rioccupò Teramo, e sul fiume di confine fece gittare un nuovo ponte. Ciò non ostante il pericolo a cui erano esposti i francesi non era allontanato. Poiché cominciava allora la piccola guerra, per la quale la popolazione dell’antico Sannio sapeva egregiamente giovarsi di tutti i vantaggi che le offriva il suo territorio montuoso e pieno di caverne, a ogni maniera d’agguati favorevole. Dovunque piccoli drappelli di francesi si mostravano, dovunque carriaggi o corrieri erano in via, invisibili nemici sbucavano e i male apparecchiati assalivano, uccidevano, precipitavano negli abissi, talora, a onta o esempio di terrore, inchiodavano in croce, e tutti i bagagli e le salmerio o guastavano o portavau via come bottino.
Nella metropoli i primi giorni dopo la fuga della corte passarono abbastanza tranquilli. Il popolo riconosceva l’autorità degli ufficiali, specialmente del real vicario e del corpo di città, collegio composto di sei nobili e di un borghese, e deputato a rappresentare la città di Napoli e tutto il regno, ma quasi dimenticato e fuori di esercizio negli ultimi decennj (36). Le numerose pattuglie, che il Pignatelli a tutte le ore del giorno e della notte faceva girare per la città, provvedevano al mantenimento della pubblica sicurezza. Nondimeno le classi possidenti non dimenticavano i passati atti di violenza, poco fidandosi dei lazzaroni, i quali, confesse credevano, dal loro odio verso le novità e gli stranieri potevano ogni momento essere condotti a nuovi eccessi (37). Dall’altra parte non mancavano teste calde che giudicavano opportuna la congiuntura per rammentare gli antichi privilegi della città, massimamente quello di avere a ricevere ordini dal re e non da un vicario generale. Come primo provvedimento atto a far valere il loro credito, proposero l’ordinamento d’una milizia urbana, e mandarono per ciò una deputazione al vicario reale Pignatelli. Uomo senza nessuna attitudine, tanto che da un pezzo il popolo gli aveva affibbiato il nome dell’animale dalle lunghe orecchie (38), e nello stesso tempo pieno di ogni maniera di pregiudizi egli accolse a dì 25 di dicembre i deputati della città con gran sussiego, e dichiarò che la dimanda loro offendeva i suoi diritti, avendo egli solo l’ufficio e il carico di invigilare la pubblica sicurezza. Occorsero pratiche di parecchi giorni perché il principe in massima cedesse; nacquero poi contese fra gli eletti e i deputati, che Gaetano Spinelli riuscì a metter d’accordo; finalmente, fatte le liste di sottoscrizione, in brevissimo tempo si raccolsero 14,000 nomi. Se non che a quel punto il Pignatelli osservò di non avere armi disponibili; a stento e dopo rinnovate e difficili pratiche i cittadini ottennero prima 400, poi 500 fucili, co’ quali risolutamente si accinsero a provvedere al servizio di sicurezza pubblica (39).
Commoventi erano le novelle che, circa lo stato delle cose nel campo, alla città pervenivano. Gli amici delle novità, che erano a un ora amici de’ francesi, si studiavano con appassionata diligenza di diffonderle, con ogni maniera di giunte e di esagerazioni abbellendole. I partigiani del re dall’altra parte spargevano la voce che l’ammiraglio Nelson, dopo aver messo al sicuro in Sicilia la real famiglia e i tesori, tornerebbe nel ‘ golfo per sostenere e ajutar dal mare i difensori della patria. Il Mack dal canto suo si fortificava alla meglio presso Capua; ma di fronte a tanti e così spesso rinnovati esempj di tradimento e di viltà, come poteva egli sperare di mantenersi a lungo? Con lui era compiutamente d’accordo il real vicario, angustiato sempre più dalle tristi voci che correvano. Già vedeva in ispirito il nemico alle mura della città, la quale non era in ¡stato di opporre valida resistenza; e però restringeva principalmente l’opera sua a toglier di mezzo tutto ciò che poteva preparare al nemico la via o fargli cader nelle mani gli strumenti di guerra. E così un giorno (28 di dicembre) ordinò che si ardessero 120 cannoniere ancorate presso la grotta di Posillipo; le fiamme si riflettevano lontano sui quartieri della angosciata città e il cielo e i flutti tingevan di rosso, mentre più di 1000 quintali di polvere e una gran quantità di palle d’ogni specie erano buttati nel mare (40). Nello stesso tempo il Pignatelli pregava il Mack che venisse in Napoli e convocasse un’assemblea di generali; la quale in fatti il dì 30 si adunò, e fu concorde nel deliberare che si chiedesse al supremo generale nemico un armistizio (41).
A dire il vero, i francesi, non ostante i buoni successi spicciolatamente ottenuti, non si trovavan mica in quei termini vantaggiosi che, dalla parte dei napoletani, la viltà degli uni e la slealtà degli altri immaginavano. Il 28 di dicembre il general Mathieu del corpo Macdonald aveva passato presso Isola il Siri, il 80 era a Sangermano, dove anche il Macdonald. ed il capo supremo s’incontrarono: alla fine dell’anno occupavano essi le alture di Cajanello, a mezza strada tra Venafro e Calvi, e di lì dominavano la via fra Roma e Capua. Mentre in quel torno di tempo il general Rey lungo le coste di Terracina si avvicinava alla fortezza di Gaeta, negli Abruzzi il Lemoine avanzava verso Popoli, dove, com’è detto di sopra, le due colonne del settentrione dovean porgersi la mano. Il generale Gamba, che stava lì con alcuni battaglioni napoletani, offrì battaglia al nemico, e da’ due lati con gran valore e con accanimento si combattè. Già era caduto un generale francese, già i napoletani, a cui soccorso era sopraggiunta la cavalleria del Micheroux, aveano preso il disopra, quando il Lemoine fece un ultimo sforzo e gli riuscì di rivolgere la giornata a suo vantaggio. Allora le squadre napoletane si scompigliarono, e fu compiuta la disfatta del Gambs, che avrebbe avuto certa vittoria se il Micheroux avesse potuto condurgli a tempo anche la sua fanteria. Ma questa rimase tagliata fuori, e un giorno o due dopo si sciolse e disperse per modo che solo una parte degli ufficiali giunse al quartier generale in Capua (42).
Il 3 di gennajo il general Rey stava innanzi Gaeta. La qual piazza, assai forte per se stessa, era difesa da 4000 uomini e sovrabbondantemente provvista di tutto il bisognevole per la guerra: IO o 12 mortaj, 70 cannoni, 20,000 fucili, viveri per un anno. Il Rey non disponeva per il momento altro che di un obice, col quale ordinò che si tirasse granate sulla fortezza; ed ecco che, tratto appena il primo colpo, si vide alzare la bandiera bianca, e il governatore Tschudy si dette a discrezione con tutto il presidio; i soldati furon mandati prigionieri a castel S. Angelo, gli ufficiali, promettendo di non riprendere le armi contro la Francia, lasciati liberi.
Lo stesso giorno doveva per ordine dello Championnet tutto il corpo del Macdonald andare avanti. La linea del Mack si stese lungo il Volturno da Castellammare, presso la foce di quel fiume, per Capua sino al passo del fiume medesimo presso Cajazzo, ed era in tutti i punti principali riccamente fornita di cannoni. Il Macdonald avanzò presso Capua e ottenne qualche vantaggio, cosi che il Mack per tener fermi i suoi soldati dovè minacciare di far fuoco sui fuggitivi. Intanto il corpo nemico, che disponeva solo di deboli pezzi di campagna, era venuto a tiro dei cannoni del Mack, il cui fuoco egregiamente condotto devastò talmente le file del Macdonald, che questi credè opportuno ritirarsi verso Calvi (43). Cercò presso Scafa di Cajazzo forzare il passaggio del Volturno; ma quivi un giovane nobile napoletano, il duca di Roccaromana della famiglia dei Caracciolo, tenne valorosamente testa ai francesi e li costrinse a tornare addietro. Costò quell(‘)aspra giornata ai francesi non meno di 400 fra morti e feriti; 100 prigionieri, fra cui il colonnello Darnaud; il general Mathieu perse un braccio, il generale Boisregard cadde. I napoletani contarono 100 morti o feriti, fra questi ultimi il prode Roccaromana. La sconfitta dei francesi, secondo l’opinione degli stessi scrittori loro, sarebbe stata intera, se il principe di Moliterno, a cui il Mack aveva affidato due reggimenti di cavalleria, e del resto valente capitano che nella campagna del 179495 si era singolarmente segnalato, fosse con quei due reggimenti venuto fuori dalle trincee per assalire le schiere nemiche che non troppo ordinate si ritiravano (44).
Le condizioni dello Championnet erano in ogni modo assai pericolose, e più ancora divenner tali quando la sollevazione popolare crebbe e si estese. Con le colonne del settentrione il corpo principale area perso ogni attinenza, tanto che non sapeva dove si aggirassero nò in che termini fossero. Il Duhesme in fatti da Pescara, dove rimase un debole presidio, avea mosso verso Chieti, mentre il Busca con un’altra colonna doveva risalire il fiume Pescara per dar la mano al Lemoiue. Se non che il Busca, continuamente contrariato dagli agguati, dalle offese, dagli assalti degli abruzzesi, perse uomini e carriaggi, e giunse a Popoli quando il suo compagno d’armi, dopo averlo aspettato alquanti giorni, ne era già partito per riunirsi di là da Sulmona all’esercito principale, il 2 di gennajo. Il 6 si trovava il Lemoine in Alife e Piedimonte; la cavalleria dello Championnet in Venafro; la linea del Volturno la guardavano il Macdonald da Cajazzo fino alla strada di Napoli, il Rey di là sino al mare; una piccola riserva era in Calvi.
Ma allora dietro le spalle dello Championnet scoppiarono le sommosse popolari. Cominciò Sessa appena sgombrata dai francesi, e appresso furono sossopra Teano, Itri, Castelforte, e Fondi sin verso San Germano. E cosi lo Championnet, che pareva tenesse bloccato il suo avversario, si trovò piuttosto lui stretto in un largo cerchio e come tra due fuochi. Le cattive novelle si succedevano senza posa. Qui quelle torme disperate distruggevano i ponti che il Bey, venendo di Gaeta, aveva gittati sul Garigliano; li assalivano un parco d’artiglieria francese e lo facevano saltare in aria; alle forze mandate contro di loro virilmente tenean testa, o attaccavano il nemico persino ne’ suoi proprj accampamenti, per modo che in tale impari lotta lo Championnet contava quasi 600 uomini perduti (45). Oltre di che, impediti i trasporti o presi dai ribelli, soprastava minacciosa la mancanza di viveri e munizioni; interrotte erano le comunicazioni con Boma, ed era anche da temere di peggio, se le colonne napoletane rimaste dietro i francesi, giovandosi delle angustiate condizioni del nemico, si avanzassero verso le terre che la ribellione agitava e questa con le loro forze raccolte e disciplinate rinvigorissero. La qual cosa si poteva sospettare di Roger Damas e di Diego Naselli. Quest’ultimo, cedendo finalmente alle rappresentazioni del Granduca ed ai rigorosi avvertimenti del ministro toscano, per l’appunto in quei giorni, fra il 31 di dicembre e il 3 di gennajo, avea sgombrato Livorno. Se non che né lui né il Damas aveano la minima idea di ciò che inaspettatamente su i patrj campi di battaglia avveniva, e stimarono fosse miglior consiglio il condurre le schiere loro direttamente alla metropoli.
E così il maggiore dei pericoli che minacciavano lo Championnet fu allontanato. Ma quelli che rimanevano erano pur nondimeno tali da dargli grave pensiero e metterlo in forse, se convenisse arditamente tener sodo, o piuttosto guadagnar tempo e, innanzi che fosse troppo tardi, ripassare il Garigliano. Prima di tutto si condusse verso Venafro per apparecchiar la strada alla divisione Duhesme. Ma questo generale si batteva nel cuore degli Abruzzi con le popolazioni armate, che andavan sempre crescendo di forze e di audacia. Aveano fra le altre cose ripreso valorosamente la città di Aquila, talché i francesi si dovettero chiudere nella fortezza col pericolo imminente di perire o per assalto o per fame. Più vicino verso Terra di Lavoro il distretto di Molise formicolava di bande armate; ivi la sommossa aveva un punto d’appoggio nella forte Isernia, che il Duhesme doveva prendere innanzi di avviarsi verso l’esercito principale.
Non era da maravigliare che i generali Damas e Naselli, lontani e tagliati fuori, non avessero punto notizia dello stato delle cose fra il Garigliano e il Volturno. Ma è impossibile che o non se ne avesse del pari nessuna notizia in Napoli, o che sulle persone cospicue ed autorevoli tanto la viltà e la spensieratezza dominassero che, invece di mettere a profitto, in favore della causa reale, le condizioni singolarmente difficili e pericolose del nemico, si figurassero di essere piuttosto essi in condizioni di tal fatta, e però facessero proposte, delle quali nessuno poteva essere più stupito di quello a cui erano rivolte.
È vero però che in questo mentre le cose avean preso in Napoli un minaccevole aspetto. La nuova milizia cittadina, fin da principio troppo scarsa, non bastava a tenere in freno gli animi, dalle alterne nuove ora per un verso ora per l’altro agitati. Al che s’aggiunse la discordia sempre più aspra fra il vicario generale e le commissioni municipali. Per liberarsi dell’incomodo viceré, una parte dei nobili, capitanati, come alcuni credono, dal principe di Canosa, ebbero l’idea di chiedere che un principe della linea spagnuola prendesse il posto del re fuggito. Uno spettacolo che in quei giorni si offerse agli occhi dei napoletani, fornì al partito la occasione desiderata di eccitare la opinione del pubblico contro il Pignatelli. Quando il re partì, le navi da guerra Partenope, Tancredi (che nel 1795 avea comandata il Caracciolo), Guiscardo, ciascuna di 74 cannoni, S. Giovacchino di 64, la fregata Pallade di 40, la corvetta Flora di 24, e alcune altre piccole navi da guerra, piuttosto che mandate a Messina, dovettero esser lasciate nel golfo di Napoli, perché degli ufficiali e degli equipaggi la massima parte aveva abbandonato il posto, e i rimasti eran tali da fidarsene poco. Ecco che a dì 8 di gennajo i cittadini scorgono fiamme che sembrano sorger dal mare, che lambiscono i larghi fianchi delle navi, che guadagnano il ponte, si fanno strada verso gli alberi, si attaccano alle antenne, alle vele, alle corde, fino a che tutta la squadra è in fuoco, e poi adagio adagio, consumata la lor preda, si estinguono o s’immergono nei flutti coi frammenti bruciati (46).
Nella metropoli, dove durava sempre incancellabile l’impressione dell’altro spettacolo del 28 di dicembre, la commozione per questa nuova opera di esterminio fu immensa, e i nobili seppero volgere al fine da essi desiderato lo scontento universale. In un’assemblea tempestosa, che si tenne in San Lorenzo Maggiore l’8 e 9 di gennajo, vinse il partito di chiedere la deposizione del Pignatelli. Il colpo fu grande pel po vero vicario generale che perse ogni prudenza, ogni assennata pacatezza. Gli occupò l’animo il timore che potesse rimetterci il capo; nello stesso modo che il Mack, suo compagno di sventura, non ostante parecchi buoni successi ottenuti nelle ultime battaglie, non aveva altro innanzi agli occhi se non la poca fede de’ suoi ufficiali e soldati e il pericolo del tradimento.
E così mentre il supremo duce francese, vedendosi alle strette, pensava di rischiare in una gran battaglia la vittoria o la morte, il principe di Migliano e il duca di Gesso, deputati dal Pignatelli, si presentavano nel campo francese a fin di proporre la cessazione delle ostilità. Padroneggiando la sua impazienza, divenuta per l’appunto maggiore a cagione della recente novella che le schiere napoletane avean preso terra all’imboccatura del Garigliano, il francese si dette un’aria superba da vincitore, onde i due negoziatori napoletani furono percossi e sbigottiti. In tal modo fu fermato a Sparanise presso Calvi un armistizio di due mesi, dal quale i francesi senza impugnare la spada trassero i maggiori vantaggi: sgombro immediato di Capua; linea di separazione fra i due eserciti che, principiando dalle due imboccature del Lagno, a nord ovest di Napoli e passando per Benevento con una larga curva, faceva capo alle bocche dell’Ofanto all’oriente della Puglia; con che ai francesi eran concessi territorj dove nessuno dei soldati loro avea per anche messo piede, ed altri dove, serrati da tutte le parti, si trovavano a dover combattere con le popolazioni esasperato; oltre di ciò chiusi tutti i porti napoletani alla bandiera inglese, alla francese aperti; finalmente una indennità di guerra di 10,000,000 di tornesi, da esser pagati una metà il 15, l’altra il 25 di gennajo (47).
In questa guisa la causa reale fu tradita e venduta. Tale fu l’impressione del popolo napoletano, quando la mattina del 12 lesse con maraviglia e tristezza sulle cantonate l’annunzio. L’esercito ci rimise quel poco che gli restava di spirito militare. Quando il 1213 di gennajo senza trar colpo il Mack sgombrò la forte Capua che appena dieci giorni prima era stata così efficacemente difesa, i soldati a schiere si dispersero, di maniera che di 5000 uomini a mala pena mezzi ei ne condusse ad Aversa. Nello stesso tempo, a poche giornate di marcia verso il settentrione, aveva il Duhesme espugnato Isernia e fieramente punitala per avergli così ostinatamente resistito. Niente più s’opponeva alla riunione della colonna col corpo principale, e in fatti il giorno 14 s’incontrarono. Il supremo duce dei francesi pensava già seriamente ad avanzare su Napoli e già studiava i nuovi ordinamenti di governo che vi voleva introdurre. Nel suo campo si trovava, con altri fuggiti o cacciati che speravano adesso di ritornare in patria, Carlo Laubert, stato accanito cospiratore su i principj del decennio; a lui lo Championnet dette la presidenza della commissione che a quei nuovi ordinamenti doveva attendere.
Il Hack e il Pignatelli non ci si raccapezzavano. Che bisognava egli fare? Difendere la metropoli? Due battaglioni di svizzeri e altrettanti di albanesi, oltre a qualche centinajo di artiglieri, costituivano tutte le forze disponibili per proteggere così estesa città. Il Mack destinò la brigata Dillon a rinforzare il presidio; ma appressatasi essa a Capodichino, fu dai lazzaroni assalita che la disarmarono; i soldati inermi fuggirono o si confusero co’ cittadini. Il Mack non attentandosi più di entrare in città, dove già si udivano minacce e grida: morte ai Tedeschi!» rimase al suo quartier generale a settentrione di Napoli sulla strada di Caserta. Forse così facendo secondava il vicario generale, il cui unico sforzo era di evitare ogni lotta. Quando il capitano Simeoni, in nome del presidio del castello Nuovo, domandò che cosa avesse a fare nel caso che il popolo attaccasse il forte, gli fu risposto che dovesse difendersi, ma senza far danno agli assalitori. «Non si deve dunque tirare?» «Sì, ma a polvere.» Allontanatosi il capitano, gli corse dietro il duca di Gesso, che in nome del Pignatelli gl’ingiunse assolutamente di non tirare.
Il 14 comparvero in Napoli ufficiali francesi; per vedere la città, e per andare al teatro, essi dissero; ma in verità per ricevere il giorno seguente, sotto la condotta del commissario Arcambal, la prima rata dell’indennità di guerra. Il Pignatelli fece chiamare i rappresentanti della città, e volle che mettessero insieme la somma occorrente gravando di una tassa i proprietarj di case e i commercianti; ed essendosi quelli rifiutati, egli dichiarò di lavarsene le mani. Intanto saputosi dal popolo perché i francesi eran venuti, furono a un tratto piene d’armati le strade; le grida: «Viva la Santa Fede! Viva San Gennaro!» s’ alternavano con le altre: «Morte ai francesi, ai giacobini, al Mack, al Pignatelli!» Verso sera il popolo accorse al S. Carlo, supponendo che vi fosse l’Arcambal; irruppe nel teatro con tale impeto e violenza che molti spettatori vi rimisero la vita; fu rapidamente calato il sipario; l’Arcambal fuggì nel palazzo reale, per un corridojo che fa comunicare i due edificj. Mentre alcuni savj cittadini procuravano di trarre, col favor della notte, fuori della città il commissario e i suoi compagni, innanzi ai palazzi de’ due negoziatori dell’armistizio si formavano minacciosi assembramenti; su tutte le piazze principali si aggruppavano armati; dove appariva un drappello di milizia urbana, il popolo l’assaliva e gli toglieva le armi.
Il giorno appresso, un’onda di popolo sempre crescente accorse al castello Nuovo, s’impadronì della porta esterna, occupò il ponte levatojo, fece alzare la bandiera reale, chiese armi e polvere. Aperte dai cacciatori del reggimento Sannio le entrate, il popolo irruppe dentro, cacciò via gli ufficiali e si fece padrone del forte. Il simile accadde a S. Elmo, al Carmine, al castel dell’Uovo, al grande arsenale, non opponendo in nessun luogo i soldati seria resistenza. Intanto, vedendo giunger nel golfo la nave che riconduceva il Naselli da Livorno, i popolani messisi in barche a quella si appressarono, si fecero dai soldati consegnare le munizioni, s’impadronirono infine anco della fregata e vollero per forza che s’accostasse al molo. D’armi e munizioni erano ormai le infime classi sovrabbondantemente provviste; talché, quando l’ira loro o all’interno o contro gli esterni nemici scoppiasse, c’era da temere estreme calamità. Il lazzarone non si fidava più di nessuno, né del vicario, né dei nobili, né dei generali, né dei soldati; tutti li sospettava traditori, tutti segretamente di balla co’ francesi. Il consiglio di città, i cui membri nobili avean creduto trarre il Pignatelli nella rete, vi si trovò impigliato esso medesimo e cessò le adunanze. Il cardinale arcivescovo Capece Zurlo s’industriò d’indurre la moltitudine a deporre le armi e a riprendere le pacifiche faccende; ma il suo tentativo fallì del tutto.
Lo stesso giorno verso sera uno stuolo di gente armata mosse verso Casoria per togliere al Mack il comando; ma questi, avvisato in tempo, riparò a Caivano presso Acerra, e di là il di seguente (16 di gennajo) si condusse travestito al campo dello Championnet che onorevolmente lo accolse. Egli aveva all’ultimo momento commesso il supremo comando nelle mani del duca di Salandra; al quale toccò a pagare la pena per lui. Volendo in fatti, accompagnato dal colonnello Parisi e altri ufficiali, recarsi al campo, s’imbattè fra Caivano e Casoria in un drappello di cittadini che, pigliandolo forse pel Mack, gli si scagliarono addosso, lo ferirono nel capo, gli ruppero un braccio, e fu gran fortuna ch’e’ne campasse la vita. Allora né anche il vicario generale stimandosi più sicuro, fece chetamente portare a bordo una somma di 4000 ducati confidatagli dal tesorier generale Taccone e, abbandonando la città e il regno al loro destino, nella notte fra il 16 e il 17, indossate le vesti di sua moglie, si mise in salvo.
In tal frangente, mentre tanto minaccioso il disordine soprastava, seppero alcuni delle classi superiori, parte con la persuasione, parte, come altri ha detto (48), con la corruzione, indurre il popolo a scegliersi un capo fra i nobili. Il principe di Moliterno fu in tal maniera nominato generale e duce supremo; gli eletti gli misero compagno al fianco Lucio Roccaromana; e poiché anche il comando dei forti fu affidato a quattro nobili, avvenne così che la nobiltà avesse i più importanti ufficj e quindi tutto il potere nelle mani (49). E sul principio la cosa andò bene. La gente facea chiasso per le strade, tirava fucilate in aria, si compiaceva di far pompa delle armi carpite, ma senza recar danno a nessuno; giravano per la città pattuglie di lazzaroni, che avevano un contegno tranquillo e conveniente (50).
Ma presto le cose mutarono aspetto. Una lettera, diretta da Giuseppe Zurlo al Mack, nella quale si leggeva il nome dello Championnet, cadde la mattina del 17 in cattive mani; e tosto si levarono voci che volevano far giustizia sommaria del direttor di finanza traditore. Il duca di S. Valentino, amato dal popolo, calmò gli agitati spiriti dogli schiamazzatori, proponendo che si conducesse l’accusato nel castello del Carmine e ivi si giudicasse. E cosi avvenne. Lo Zurlo fu preso e non senza gravi maltrattamenti trascinato al castello, mentre altra gente, assaltata la sua casa, la saccheggiava e devastava. Anche i colonnelli Bardella, Bologna e Beaumont furono dal popolo tratti innanzi al tribunale; i due primi rimessi in libertà, il terzo mandato a Castellammare (51). Non c’era più sicurezza per le persone. Chi era notato come giacobino nei registri della polizia, nei quali ogni popolano poteva oramai cacciare il naso, gli ufficiali che aveano abbandonato le bandiere, infine tutti i possidenti, si videro fatti bersaglio di una moltitudine avida di vendetta e di preda, e desiderarono in cuor loro la venuta dei francesi che soli potevano proteggerli (52).
Il Moliterno riconobbe la necessità di adoperare gravi espedienti. Intimò alle moltitudini che deponessero le armi, e in gran parte l’ottenne; sulle principali piazze della città fece rizzar forche ad ammaestramento dei malfattori e riottosi. Nello stesso tempo volle provvedere alla esterna sicurezza di Napoli. Una deputazione cittadina, nella quale era il principe di Canosa, si recò al quartier generale nemico, per proporre che si manterrebbe l’armistizio se i francesi cessassero dall’avanzarsi verso la città. Ma lo Championnet, che si sentiva oramai forte abbastanza, respinse la proposta, dichiarò rotto l’armistizio, e beffardo soggiunse: «Son forse i napoletani i vincitori, e i francesi i vinti?»
Il 18 sul far della sera si diffuse per la città la voce che s’era tentato di trattare col nemico, che le pratiche eran fallite, che lo Championnet voleva marciare su Napoli. Allora scoppiò daccapo lo sdegno popolare e più sfrenato che mai. Il Moliterno e il Roccaromana furon chiamati traditori e indegni che più a lungo si prestasse loro fede e obbedienza. Persone dell’infima plebe si buttarono sulle forche e le abbatterono; altri corsero ai luoghi dove nei giorni precedenti avean deposto le sciabole e i fucili, e si armarono di nuovo; altri finalmente presero dei cannoni e li trascinarono a Poggioreale, a Capodichino, al ponte della Maddalena. Soldati dei reggimenti dispersi; bassi ufficiali del corpo Naselli, capi dei camiciotti, divennero i conduttori. Un mercante di farina, di nome Paggio, e il figliuolo di un trattore, detto Michele il Pazzo, furono acclamati generali. Tutte le selvagge passioni presero il sopravvento; preti fanatici e frati col crocifisso in mano accendevano gli animi alla vendetta contro i francesi, alla distruzione degli eretici, e benedicevano le armi che il popolo divotamente presentava loro. Ricominciò la caccia ai giacobini. Chiunque portasse un abito di nuova foggia o i capelli corti correva pericolo di esser preso per amico e alleato dei francesi: cosi che molti poveramente si vestivano, un po’ per propria sicurezza, un po’ per mescolarsi ai lazzaroni, scoprirne i disegni e giovarsene. Fra le altre cose essi persuasero il popolo a liberare i prigionieri politici. Ma in tal modo anco le celle di molti comuni malfattori si aprirono, i galeotti ruppero le catene, e, cresciuta cosi con grave pericolo la popolazione, salì a 40,000 il numero di quelli che portavano armi.
Accadde allora che un servitore del duca della Torre si lasciò inconsideratamente uscir di bocca che il suo padrone avea ricevuto lettere del generale Championnet (53) e preparava per lui un sontuoso convito. Vi fu subito gente che andò ad assaltare il palazzo del duca; il suo appartamento, ricco di preziose collezioni, di libri, di strumenti fisici, d’incisioni, di quadri, saccheggiarono e dettero alle fiamme. Il duca stesso strapparono dalle braccia della vecchia madre che invano piangeva e supplicava per lui; presero anche il secondogenito, Clemente Filomarino, uomo non meno dell’altro stimato e colto, e trascinatili entrambi nella strada della Marina, sopra un rogo prestamente messo insieme vivi li bruciarono. Oramai l’angoscia e il terrore s’insignorirono della miglior parte della società. Il campo dello Championnet formicolava di messi mandatigli dai proprietarj, dai nobili, dagli eletti della città per pregarlo che non indugiasse l’entrata, assicurandolo che poteva fare assegnamento sulla cooperazione di tutti i migliori cittadini. Il generale francese volle che in malleveria di siffatta assicurazione fosse messo in suo potere il forte Sant’Elmo, e a tal domanda per parte dei nobili fu consentito (54). Un certo numero di patriotti che solevano ritrovarsi in casa Niccola Fasulo, formarono fra loro un comitato centrale (55), che seppe tirare alle proprie opinioni il Moliterno e il Roccaromana. Si trattava innanzi tutto di sedare il furor popolare. Il cardinale arcivescovo fece portare solennemente in giro il capo e il sangue del santo protettore fino alla statua di lui sul ponte della Maddalena, dove i preti gridarono le parole di S. Giovanni Battista: «Poenitentiam agite, facite fructus dignos poenitentiae!» Il Moliterno, in vesti da penitente, con capelli sciolti, scalzo, accompagnò la processione, che, percorse le strade principali, tornò finalmente verso la mezza notte in Duomo. Ivi egli si fece avanti; sospirando e piangendo arringò la moltitudine; deplorò l’infortunio che colpiva la città confortò ad aver fede nella protezione del Santo, che. non ne concederebbe ai francesi la signoria; volle che in nome di S. Gennaro si giurasse di perseverare nella causa della patria, e primo egli prestò tal giuramento che fu con entusiasmo dalla folla ripetuto. Ma nello stesso tempo esortò che tutti per quel giorno tornassero pacificamente alle case loro, in seno delle loro famiglie; sperava il di seguente trovarli radunati al palazzo municipale in S. Lorenzo. Ciò accadde dal 19 al 20 di gennajo (56).
Poiché lo Championnet ebbe fatto venire la divisione Duhesme, Napoli si trovò chiusa in un gran cerchio da Capua ed Aversa fino a Sarno. Una colonna sotto gli ordini del colonnello Broussier marciando per i passi caudini, dove le truppe reali, senza trar profitto del luogo, presero la fuga, avanzò verso Benevento che senza resistere le aprì le porte. Dietro le spalle della linea principale francese il general Rey ebbe l’incarico di disperdere le milizie lungo il Garigliano inferiore, di sottomettere novamente Castelforte, Traetto, Itri, e ripristinare le comunicazioni col territorio romano.
Le divisioni Macdonald, Lemoine e Duhesme si accostavano sempre più alla città. Il Broussier ebbe ordine di tornare, dopo la presa di Benevento, al fianco sinistro del Duhesme che stava presso il Vesuvio. Ed egli partì carico di tesori predati per la più parte alle chiese. Ma quelle stesse gole caudine, che pochi giorni innanzi una codarda soldatesca aveva abbandonate al nemico, erano intanto state occupate dalle squadre de’ contafi ini, desiderosi di dare al duce francese la stessa lezione che più di duemila anni prima i padri loro avean data ai consoli Tito Venturi© e Spurio Postumio. In numero di 4,000 perseguitarono, impedirono e molestarono in mille modi il nemico; fino a che il 20 di gennajo non venne fatto al Broussier di fermarli presso Campizze e, dopo averne messi fuori di combattimento 470, disperderli e fugarli.
Nello stesso tempo vi fu anche su altri punti presso Napoli accanito combattimento. Non appena i capi del popolo conobbero i movimenti dei francesi, chiamarono le loro genti all’arme; dai forti tonò il cannone, su tutti i campanili della città e dei dintorni sonarono a stormo le campane per eccitare il popolo a combattere il nemico che si avanzava. Una grossa schiera di lazzaroni uscì con alquanti cannoni dalla città, assalì un posto francese presso i Ponti rossi, corse ad Aversa, passò il Lagno per andar contro Capua; ma il generale Poitou accorso in fretta gli attaccò così risolutamente che, abbandonati i cannoni, tornarono fuggendo in città.
La sera dello stesso giorno i patriotti di Napoli tentarono di mantener la promessa che avevan data al general francese. Una colonna sotto la cqudotta del cavaliere’ di S. Giovanni Frane. Grimaldi si ragunò sulla piazza Madonna dei sette Dolori e si avvicinò verso le 11 pomeridiane a Sant’Elmo; ma sbagliarono la parola gridando «Napoli» invece di «Partenope» per modo che furono accolti a colpi di fucile e anche di cannone. L’impresa pel momento fallì; bisognava con altro disegno e con maggior prudenza rinnovarla. Nelle prime ore del 21 una mano di patriotti fra cui Vincenzo Pignatelli di Strangoli, Vincenzo e Giuseppe Riario di Corleto, Leopoldo Poerio, Vincenzo Pignatelli di Marsico, si presentò innanzi la porta del castello, la quale dal comandante Niccolino Caracciolo di Roccaromana, che era d’intesa, fu loro aperta sotto colore che venissero a rinforzare il presidio. Luigi Brandi, ardito condottiero di 130 popolani armati, prese ombra. Ma il capitano Simeoni seppe con un pretesto mandarlo a fare una ricognizione, e intanto mise i patriotti e la gente loro nei punti più importanti del forte. Richiamato il Brandi allora dalla sua ronda, come se gli si volesse fare una comunicazione di fiducia, fu per ordine del Simeoni preso, bendato, messo in ceppi e mandato via. Della sua schiera parte fu rimandata a casa, parte dovè obbedire. Altri patriotti furono via via lasciati entrare nel castello, che in breve con tutte le sue opere, armi, cannoni e provviste d’ogni maniera fu iù piena loro balìa,, pronto ad esser ceduto ai francesi. Su proposta del Simeoni fu a questo fine formata una bandiera tricolore con una striscia bianca dell’antica bandiera, aggiuntovi un lembo di mantello turchino e un pezzo di divisa rossa, perché al momento decisivo potesse essere inalzata come segno di alleanza (57).
Si ebbe anco previdente cura di apparecchiar la città a quello che stava per succedere. Tra i prigioni del castello, liberati dai patriota, si trovava Giuseppe Logoteta, quel cospiratore di Reggio che il consiglier Di Fiore avea fatto prendere e mettere in custodia; egli profittò della riacquistata libertà per raccogliere compagni e con l’ajuto loro introdursi nel governo. Nelle ultime ore si era formato in Napoli un comitato col proposito di mantenere in certo modo l’ordine e la sicurezza nell’agitata città; ne facevano parte il principe di Canosa, il duca di Castelluccio, Ottaviano Caracciolo Cincelli, Michele Picenna, Gennaro Presti. A quel comitato i nuovi padroni di castel Sant’Elmo indirizzarono uno scritto, nel quale li chiamavano sindacabili di qualunque nuovo eccesso popolare, dichiarando che, se questo accadesse, si bombarderebbe la città e così si faciliterebbe allo Championnet l’entrata. Nella risposta che il Canosa e i compagni suoi mandarono il 21 di gennajo al castello, dovettero riconoscersi impotenti a trattenere una moltitudine di 40,000 armati, e diedero così tacitamente a intendere che conferivano ai patriotti di Sant’Elmo pieno potere di fare al momento definitivo quel che loro sembrasse opportuno.
IV
VITTORIA DEI «PATRIOTTI» SOPRA I PATRIOTTI
Coloro che avean chiamato lo straniero e, dopo avergli apparecchiata la via, erano ora in procinto di aprirgli le porte di Napoli, si davano da sé medesimi, e volevano che i francesi lor dessero, il nome di patriota. Ma quelli che si sollevavano per difendere con la propria vita la patria loro, la metropoli e il focolare domestico dall’irrompente nemico, quelli erano i veri patriotti. Tale è il riscontro fra patriotti e patriotti.
Il 21 di gennajo 1199 il supremo duce francese mosse dal suo accampamento. Era una domenica, e forse lo Championnet aveva a bella posta scelto un tal giorno, nel quale poteva supporre che i napoletani bigotti fossero più in visitar le chiese e in recitare il rosario che nelle faccende mondane occupati (58). La marcia avvenne da due parti: il general Dufresse andò da Aversa per Melito verso Capodimonte, di dove potea porgere la mano ai patriotti di Sant’Elmo; il general Duhesme da un lato per Capodichino, da un altro per Poggioreale verso Porta Capuana. Sembra che il primo giungesse al fine senza incontrare gravi ostacoli; all’altro invece toccarono ostinati combattimenti. Già il possesso di Capodichino e di Poggioreale dovette essere con la forza acquistato; né senza molte e gravi perdite potè occupare la piazza di Porta Capuana, alla cui difesa la popolazione di Napoli atta alle armi era accorsa con tutte le sue forze. Un battaglione di svizzeri e 2000 lazzaroni con 12 cannoni resistettero a tutti gli assalti che diedero, l’uno dopo l’altro e con grande accanimento, il capitano Ordonneau e il capo di stato maggior generale Thiébaut. Già uno dei generali francesi era ferito, già eran caduti parecchi ufficiali; uno di questi ultimi rimase in mano del popolo che, staccato il capo dal cadavere e messolo in cima a un palo, lo portò intorno in trionfo. I francesi ricorsero allora all’astuzia; simulando la fuga trassero i camiciotti fuori della lor forte posizione, e poi si voltarono a un tratto, mentre drappelli di granatieri e cacciatori improvvisamente irrompevano da un lato. Né nacque lo scompiglio nelle file dei cittadini che disordinatamente si volsero a precipitosa fuga; i francesi presero i cannoni, e con quelli si cacciaron dentro per quella stessa porta, per la quale aveano innanzi così sanguinosamente e inutilmente combattuto (59). Intanto il Broussier era anche lui dal lato di Benevento arrivato presso Ottajano, dove, incontrata una parte dell’esercito popolano, la ricacciò dalle falde del Vesuvio al ponte della Maddalena.
E così la sera di quel giorno tempestoso il duce francese aveva ottenuto grandi vantaggi, senza avere per altro abbattuto la forza e il coraggio degli oppositori. I quali, stretti in più piccolo spazio, più risoluti si fermarono in certi punti principali, al ponte della Maddalena, ai castelli Nuovo, dell’Uovo e del Carmine, al palazzo reale, al Reclusorio sulla strada di Capodichino, e in altri grandi e forti edificj. Il Dufresse si era, come abbiam detto, nel corso del dì 21 impossessato di Capodimonte, ma non aveva ancora stabilito la comunicazione con Sant’Elmo; per modo che i patriotti gli mandarono ufficiali travestiti da contadini per pregarlo di rinnovare dai Ponti rossi l’assalto che essi dalle mura del forte appoggerebbero. Poiché più che mai temevano la vittoria del popolo, nell’animo del quale con l’odio contro i francesi era anche cresciuto il furore contro i nativi che gli avean favoriti. La più parte dei patriotti e 1 più cospicui essendo nascosti fra le mura di Sant’Elmo, l’ira popolare si volse contro altri che forse non ci avean mai avuto che vedere; furon fatte perquisizioni domiciliari; veri o supposti giacobini furono fucilati, uccisi a furia di sassate, o buttati giù dalle finestre. Bra severamente ordinato che tutti gli usci rimanessero aperti. Trovando chiuso il palazzo della legazione imperiale, il popolo tentò di abbatterne la porta: il baron Crescer! dovette col danaro calmar gli assalitori.
Il 22 cominciò su due punti la battaglia; presso il ponte della Maddalena attaccarono i francesi, a Capodimonte i napoletani. Difendevano il ponte 1500 camiciotti e un battaglione di albanesi con 6 pezzi da campagna; ed erano appoggiati dai cannoni del castello del Carmine. Gli assalì dal lato del Vesuvio il Broussier, che dopo quasi sei ore di ostinata e sanguinosa zuffa si fece padrone di quella importante chiave della città.
La battaglia a Capodimonte fu combattuta dai napoletani in mezzo a due fuochi, poiché non tiravano solamente su loro i francesi, ma anche di dietro i patriotti da Sant’Elmo. Tuttavia resistettero fino a che fu mandata dallo Championnet una forte colonna comandata dal Kellermann e guidata da Vincenzo Pignatelli Strongoli, alla quale dopo un’aspra lotta riuscì di stabilire la comunicazione col castello. Una schiera di francesi sotto gli ordini del Girardon entrata nella fortezza, ebbe dai patriotti capitanati dal Moliterno e dal Roccaromana, festosa accoglienza. Alzata la bandiera tricolore, salve di artiglieria salutarono; sulla piazza del forte fu rizzato i! primo albero di libertà, proclamata la «repubblica indivisibile» e solennemente giurato di difenderla col sangue e con la vita.
Una deputazione di patriotti portò al supremo duce francese lo chiavi del castello.
L’ingresso dei francesi in Sant’Elmo, e la comunicazione cosi stabilita fra quel castello a cavaliere della città e l’esercito principale dei francesi stessi fu l’avvenimento più rilevante della giornata. I napoletani dovettero cessar l’attacco di Capodimonte e retrocedere nell’interno della città. Già lo Championnet credette di aver raggiunto il suo fine, e mandò un messo ai lazzaroni, che a fin di por termine allo spargimento di sangue proponesse un accordo; ma non riuscì al parlamentario di poter parlare; fu respinto a fucilate, e la battaglia ricominciò. Il Kellermann cercò di trar vantaggio da tutti i lati. Occupò il convento delle Alcantarine a Santa Lucia del Monte, situato sotto il castello, e fece scendere una schiera di francesi e patriota; i quali, avanzatisi fino al largo delle Pigne, dettero 11 la mano al Rusca che veniva allo stesso luogo da porta Capuana. I napoletani, che avean fatto del palazzo Solimene il lor punto d’appoggio, offrirono vigorosa resistenza; né di quivi sgombrarono prima che il Rusca appiccasse fuoco all’edificio. Meno felici furono due altre colonne, anche di francesi e patriota, mandate parimente da Sant’Elmo; delle quali l’una doveva per la via dei Sette Dolori e la Pignasecca farsi strada verso Toledo, l’altra per S. Carlo alle Mortelle e il Ponte di Chiaja verso il palazzo reale; ma entrambe dopo gravi perdite furon costrette a tornare addietro.
E così nel corso del 22 i francesi avean fatto senza dubbio importanti progressi, e i camiciotti erano ristretti in uno spazio assai più angusto di quello del giorno innanzi; ma non per questo sbigottiti, anzi più sdegnati che mai, vedendo che i patriota, prese apertamente le parti del nemico, faceano con questo causa comune contro di loro. Anche gli studenti di medicina aveano dallo spedale degl’Incurabili appoggiato i francesi nelle zuffe sul largo delle Pigne; e da alcune case private era stato tirato sul popolo combattente; il che accese il desiderio di vendetta negli animi dei popolani e a crudelissimi atti li spinse. Donne del popolo tempestavano per le strade, mettean fuoco alle case dei giacobini e le saccheggiavano. Si narrò che moltitudine inferocita, come avea fatto co’ fratelli Filomarino pochi giorni innanzi, ardesse vive alcune persone e ne divorasse le carni, fe chiaro che in mezzo a tali atrocità non apparisse dall’altra parte scampo se non nei francesi, e che i patriotti facessero, unendosi a questi, ogni sforzo per domare i temuti camiciotti; né la conquista della ribelle città sarebbe stata forse possibile ai francesi senza la zelante cooperazione degli interni nemici della dinastia, o almeno non sarebbe stata cosi presto e così interamente compiuta (60). Essi accomunavano già la loro causa con quella dei precursori della libertà francese. Già nel corso del 22 di gennajo Giuseppe Logoteta stese un decreto composto di undici articoli, nel quale si dichiarava il trono di Napoli vacante, si proclamava la repubblica sui fondamenti della libertà e dell’uguaglianza, e si fissavano i principj di un governo nuovo. Il Moliterno e il Boccaromana sottoscrissero quel decreto, che portava la data: «Nel primo giorno del primo anno della libertà napoletana» (61).
Lo Champion net prese la sera del 22 le disposizioni per dar l’attacco il domani. Ancora si trovava il popolo in possesso della strada di Toledo, grande arteria della vita cittadina, dei tre castelli del Carmine, Nuovo e dell’Uovo, del quartiere di Pizzofalcone presso quest’ultimo, del palazzo reale e della Darsena presso il secondo, senza contare molti altri punti forti nel laberinto di strade interne. I corpi delle divisioni Dufresse e Duhesme ebbero le loro diverse destinazioni; un colpo di cannone tirato da Sant’Elmo doveva dare il segnale, a cui terrebbe dietro da tutti i lati contemporaneamente l’attacco. Furono distribuite fra i soldati fiaccole incendiarie, e ingiunto loro di non dar quartiere, di fucilare senz’altro chiunque fosse preso con le armi alla mano. Il generale in capo si alloggiò al largo delle Pigne.
E così giunse il giorno 23 di gennajo 1799, nel quale doveva compirsi il destino di Napoli e di quella casa regnante. Dal ponte della Maddalena avanzò il Broussier verso il castello del Carmine, mentre il Kellermann, scendendo da Santa Lucia del Monte, e il Girardon a capo del presidio di S. Elmo cercavano di guadagnare la via di Toledo per giungere di li agli altri castelli e al palazzo reale. Dopo una breve zuffa il Carmine fu espugnato; due ufficiali dei camiciotti furono per ordine del Broussier fucilati; per contrario al direttore di finanza Zurlo, imprigionato nei di precedenti, sonò Torà della libertà. Più tardi fu tolta ai lazzaroni Porta Nolana, per modo che nelle ore pomeridiane tutta la parte orientale di Napoli era in poter dei francesi.
Nei quartieri non ancora conquistati da loro e dai patriotti duravano gli orrori della guerra civile. Che era mai divenuta quella città lieta e smagliante di sole e di gioja, nido dei gaj giuochi e del dolce far niente, tanto atta ad allettare da tutte le contrade d’Europa i ricchi stranieri desiderosi di godimenti! Da due lunghi e angosciosi giorni era un sonar di campane a stormo, scoppiar di fucilate, tonar di cannoni, clamoroso infuriar di combattenti, pietoso gemere di feriti, e per tutto vapore, fumo ed incendj! «Non si sente altro che lamenti,» scriveva con ragione la regina, «tanto più che son cose tanto nuove per questo paese.» Anche chi non prendeva parte alla lotta correva pericolo di vita, arrischiandosi per le strade o alla finestra; poiché quando i ribelli occupavano le case, specialmente i conventi, pigliavano di mira dall’alto tutti quelli che si lasciavan vedere di sotto; ed essendo per le strade, tiravano alle finestre delle case dove supponevano che si trovassero francesi. «Regnava,» come scrive Filippo Hackert, «la più compiuta anarchia che si possa immaginare; uccisioni a tutti i momenti e da per tutto. A chiunque s’affacciava alla finestra poteva toccare una palla.» Secondo che i terrori del dominio della plebe crescevano, cresceva pure il numero degli amici dei francesi; e tutti quelli che appartenevano ai ceti benestanti contavano le ore, i minuti che l’ingresso dei francesi da tanta ansietà li liberasse (62). La qual cosa del resto non poteva più tardare a lungo. Il Kellermann cacciò da un luogo all’altro fino al largo del Castello il capopopolo Paggio ch’era alla testa di alcune centinaja di albanesi e di artiglieri di marina. Il general Rusca avanzò combattendo dagli Studj al largo del Mercatello verso porta Sciuscella, dove Michele il Pazzo accanitamente si difese, sino a che, arrischiatosi tropp’oltre, fu preso prigione. Verso mezzogiorno il Kellermann stava innanzi al palazzo reale, di cui come di ultimo riparo si serviva il Paggio.
Ma presto si avvertirono le conseguenze della cattura di un capo influente qual era Michele il Pazzo. Lo Championnet, innanzi al quale fu condotto, lo trattò con riguardo, gli fece notare l’inutilità di più lunga resistenza, lo rassicurò intorno agl’intendimenti de’ suoi soldati; non sarebbe fatto male a nessuno, si rispetterebbe la religione, sarebbero tenuti in altissimo onore i Santi protettori di Napoli; insomma seppe così efficacemente parlare che quel semplice popolano proruppe alla fine in un «Viva la Repubblica, vivano 1 francesi, viva San Gennaro!» e promise di adoperarsi a tutt’uomo per far chetare i suoi. Una nuova singoiar circostanza venne a proposito pei francesi. Una cannonata dei giacobini spezzò la stanga della bandiera napoletana sul castello Nuovo, il che ai superstiziosi parve segno che la resistenza fosse inutile. Il Paggio sgombrò il palazzo reale, su’cui tetti fu senza indugio inalberata la bandiera tricolore. Alcuni dei camiciotti cominciarono a dar sacco, e l’esempio trovò presto imitatori; ognuno in quell’ultimo momento di trambusto cercò di agguantare quel che gli veniva alle mani. Un drappello, avido di bottino, si slanciò sul convento delle monache di San Gaudioso, dove parecchi ricchi aveano portato i loro oggetti di valore, e dopo averlo saccheggiato vi appiccarono il fuoco. Al palazzo reale furono in poche ore votate e denudate tutte le stanze, e portato via persino il piombo delle finestre; una cannonata di Sant’Elmo colpì un abate e un contadino, e allora i saccheggiatori fuggirono. Così anco il palazzo di Francavilla, dove, al dire dei lazzeroni, la regina avea riposto molte galanterie, fu salvato dal saccheggio; i fratelli Hackert, che vi abitavano, avean già messo insieme i migliori oggetti per riparare al casino del Vomero passando dal giardino, quando a un tratto la sedizione cessò (63).
Alle 4 di sera il generale Championnet fece la sua entrata nel centro della città, deserta in molti luoghi e desolata per le recenti lotte, e piena di cadaveri di francesi, di patriotti e di camiciotti, che non si era potuto ancora scegliere e trasportar via dalle strade. Egli cavalcava innanzi a una parte della cavalleria, circondato da uno splendido stato maggiore e accompagnato da una gran quantità di cittadini, fra i quali spiccavano Michele il Pazzo e il giovane avvocato Giuseppe Poerio. La folla dalle strade e dalle case applaudiva i francesi e il generale supremo (64), mentre Michele le gridava senza posa: «Viva S. Gennaro! viva la libertà!» e la assicurava che il santo patrono sarebbe tenuto in grande onore. Lo Championnet si volse verso Capodimonte, dove pose il suo quartier generale.
Il Moliterno, il Roccaromana e gli altri patriotti di Sant’Elmo mandarono al cittadino Championnet un indirizzo — «il secondo giorno del primo anno della Repubblica napoletana» — nel quale lo chiamavano lor difensore contro l’arbitrio e la tirannia della corte, massimamente della «furibonda regina,» e giuravano al potere reale «eterno e implacabile odio,» esortavano i concittadini a considerare l’esercito francese come liberatore, ad abbandonare al generale di esso, unito ai patriota, la cura di mantenere la tranquillità e la sicurezza, e a tornarsene alle loro ordinarie faccende. Il generale dal canto suo salutò i napoletani come un popolo oramai libero, e gli assicurò non desiderare altro la Francia se non la gloria di aver loro apportato tal dono. Dette a’ suoi soldati il titolo di «esercito napoletano,» e commise loro il sacro dovere di «morire per la causa della libertà, e di non adoperare altrimenti le armi che per conservare l’indipendenza loro.» Assicurò agli abitanti della città vita ed averi, a patto che deponessero le armi e nel castello Nuovo le consegnassero; promise pace ed oblìo del passato. Ma guai a chi non si acconciasse al nuovo ordine di cose! La casa da cui partisse un colpo sarebbe bruciata, e quanto vi si trovasse dentro vivente messo a morte! In un giorno solo in fatti fece lo Championnet fucilare sette lazzaroni. Anche al cardinale arcivescovo egli diresse uno scritto; lo pregò di tenere aperte tutte le chiese, e di esporre il Santissimo; a S. Gennaro destinò una guardia d’onore (65).
Grande fu la gioja dei patriotti pel mutamento così lungamente desiderato, alte le lor voci di giubilo, vive le loro effusioni di cuore. Persone che non si conoscevano, scontrandosi per istrada, si abbracciavano e rallegravano a vicenda dei superati affanni e dei terrori svaniti. Sulle pubbliche piazze furon piantati gli alberi della libertà; e sotto di quelli collocandosi ardenti giovanotti convocavano il popolo, al quale con accese parole dipingevano i giorni futuri come una nuova été dell’oro; faceano giuramenti di fedeltà eterna, e invitavano gli altri a tenersi costantemente stretti alla causa della libertà. Gridando e schiamazzando accorrevano popolani i quali, facendo cerchio intorno all’albero, tessevano danze che con l’inoltrarsi della notte divenivano sempre più matte e sfrenate, mentre mille lumi dalle case rischiaravan le strade, e il Vesuvio, da parecchi anni tranquillo e come spento, col pacato splendore della sua colonna di fuoco diradava intorno intorno le tenebre.
Gli ufficiali del municipio profittarono della ripristinata tranquillità per far togliere i cadaveri, a fin che il sole sorgente non illuminasse altro che una scena gioconda.
***
Nei primi giorni dopo l’entrata dei francesi parve che tutte le ire e discordie fossero bandite, e che veramente, come gli accesi aderenti della libertà francese annunziavano, dovesse cominciare un nuovo tempo di universal gioja e contentezza, di felicità e benessere universale. Lo Championnet, col suo prudente procedere verso Michele il Pazzo, che poco dopo egli nominò colonnello, della qual cosa tutti i lazzaroni andarono superbi, e col riguardo che ebbe verso le opinioni e le indicazioni del popolo, voltò a un tratto gli eccitabili napoletani di aspri nemici in caldi partigiani e ammiratori. Quand’egli, alla testa d’uno splendido corteggio, comparve in Duomo per far omaggio al Santo nazionale; quando il miracolo, con maraviglia di tutti, si compì davanti agli occhi suoi più presto che non avesse mai fatto; quando poi, in ringraziamento delle propizie disposizioni di S. Gennaro, gli portò l’offerta d’una mitra riccamente adorna d’oro e di gemme, si sparse rapida la novella di queste cose per tutti i canti della città, e le intime classi non rifinirono di lodare e benedire colui che poco innanzi avevano esecrato e maledetto. «Tre giorni dopo l’entrata dei francesi in Napoli,» è detto nel Goethe-Hackert, «i lazzaroni parevano mutati in agnelli.»
Gli animi delle classi superiori erano in gran parte favorevoli ai francesi, dai quali riconoscevano la facoltà di sentirsi novamente sicuri, di poter liberamente respirare in pace. Oltre di che molti della migliore società di Napoli i quali, pieni delle idee medesime, avean da lunghi anni sospirato fra le strette d’un diffidente e arbitrario sistema di polizia e sopportato d’ogni maniera persecuzioni e angherie, vedevano ora sodisfatti ed orgogliosi, benché con armi straniere ottenuto, il trionfo di quella causa a cui fra tribolazioni e travagli avean lungamente cooperato. Guglielmo Pepe, allora quindicenne, non dimenticò più per tutta la vita il sentimento che provò in quei giorni proferendo per la prima volta impunemente le parole: «libertà» ed «uguaglianza,» e sentendo, secondo il nuovo costume, la gente chiamarsi a vicenda col nome di «cittadini» (66). E che gioja doveva essere il potere, sotto la protezione delle bajonette francesi, sfogarsi a piacimento contro il «caduto dispotismo,» contro il «tiranno» vilmente fuggito in Sicilia, contro quell’intrigante, quell’intrattabile «megera» di Maria Carolina; giurare odio eterno ed implacabile al regio potere, abolendo per sempre la monarchia con tutte le sue dipendenze. La reggia fu ribattezzata palazzo nazionale; a tutti i soldati, appartenuti all’esercito del tiranno, fu ingiunto di svestir la divisa, di consegnar le invise bandiere, e prendere invece le insegne con i colori e le immagini della Repubblica: «La rigenerazione lo esige, e la Repubblica non soffre di più vedere si odiose insegne.» Fa ordinato che dai pubblici uffici si togllessero le armi e le cifre reali; si sostituissero a quelle i colori napoletani turchino, giallo e rosso; negli scritti ufficiali si tralasciassero tutte le parole e frasi che rammentavano il caduto sistema, e invece si adoperassero le repubblicane, e soprattutto le due parole d’ordine: Libertà, Uguaglianza (67).
Poiché con l’entrata dei francesi doveva anche sorgere la repubblica. Fin dal 22 e 23 di gennajo i patriotti di Sant’Elmo apponevano, come abbiamo visto, a’ loro scritti la data secondo i giorni della Libertà, della Repubblica napoletana; e lo Championnet annunziava al suo governo: «la rivoluzione è riuscita; un monarca di meno, una repubblica di più» (68). Dovunque s’ eran finora spinte le armi dei nuovi cospiratori francesi, ivi ordinare le acquistate terre a repubblica o almeno tentarlo era la immediata conseguenza dell’opera loro. La geografia classica fu studiata più diligentemente che mai per dare quanto era possibile alle moderne creazioni nomi pomposi accattati all’antichità greca e romana. Erano nate l’una dopo l’altra, e poi più volte uscite di moda e trasformate, la repubblica cis e transpadana, la cisalpina ligure romana, la cisrenana ed alemanna, la lemanica rodanica raurarica od elvetica; per Napoli si ricorse all’antico nome ellenico, e si creò la repubblica partenopea. Si volle che una costituente eletta dal suffragio universale decidesse definitivamente la creazione e l’ordinamento di essa; intanto si provvederebbe con disposizioni prese dallo straniero vincitore e sotto la sua egida. Fin dal 24 fu nominata dallo Championnet una rappresentanza nazionale di 25 cittadini, che dovea fare ufficio di governo provvisorio, dividendo fra sei commissioni gli affari: Direzione centrale — Legislazione — Polizia — Guerra — Finanze — Interno. Né nominò presidente il Laubert, e gli mise come segretario a canto il francese Jullien; fra i membri di essa si trovavano il Moliterno, Giovanni Riario, Mario Pagano, Domenico Cirillo, Niccola Fasulo, il Forges d’Avanzati, Francesco Pepe, Giuseppe Albanese. Il 25 a mezzogiorno il supremo generale francese comparve con solenne corteggio nella casa comunale di San Lorenzo per salutare i napoletani divenuti liberi, e presentar loro i nuovi ufficiali; il Laubert rispose al generale con un discorso che infarcì de’ più ricercati improperj contro il caduto governo e colei che principalmente lo rappresentava (69).
Il giorno appresso fu istituito un nuovo consiglio municipale, composto di venti membri, fra i quali Giuseppe Serra — in luogo di Luigi Serra Cassano che non aveva accettato —, Luigi Carafa Jesi, Giuseppe e Diego Pignatelli, Andrea de’ Dino, Pasquale Daniele; anche un lazzarone era fra gli eletti, l’oliandolo e bettoliere Antonio Avella detto Pagliuchella (70).
I provvisorj reggitori — che entrando in ufficio ordinarono fosse illuminata la città per tre giorni sotto pena di venti ducati di multa — senza indugio e con l’approvazione espressamente significata volta per volta dal generale Championnet, dettero opera a sconvolgere gli antichi ordinamenti del paese.
Il 25 di gennajo furono dichiarati aboliti «dal giorno della promulgazione della legge per tutti i tempi futuri» i diritti di primogenitura, i fidecommessi e le sostituzioni con ogni loro conseguenza ed effetto. Il 2 di febbrajo fu mandato a tutti i magistrati l’ammonimento di conciliare con la più severa e coscienziosa applicazione della legge «tutta quella umanità, moderazione e fratellanza, e tutte quelle altre qualità che sono il contrassegno di buoni repubblicani.» Il 5 fu concessa la libertà della stampa con sindacabilità dell’autore o, nel caso che questi volesse rimanere innominato, dello stampatore, ma nello stesso tempo fu severamente proibito di pubblicare o diffondere scritti sediziosi, calunniosi e simili (71).
Tali decreti e avvertimenti piacquero in sommo grado ai caldi fautori delle idee moderne; e alla moltitudine poco curante delle teorie e degl’ideali non poterono dispiacere, come quelli che praticamente poco o niente la toccavano. Ben altrimenti avvenne per effetto delle contribuzioni di danaro e di sangue, le quali, come in breve fu manifesto, la Repubblica impose nella stessa, se pur non più larga, misura che l’antico e tanto sfatato governo. Già nel discorso rivolto in S. Lorenzo al nuovo governo provvisorio lo Championnet avea notato che la Francia «per le spese e le perdite di sì gloriosa campagna, per la grandezza del sacrificio che avea fatto alla libertà di Napoli» dovea chiedere un’adeguata indennità. La quale fu provvisoriamente fissata in 2 milioni e mezzo di ducati per la città di Napoli — alle province furono più tardi assegnati 15 milioni di franchi — da pagarsi in danaro o in verghe d’oro e d’argento. I commissarj superiori Arcambal e Dubreton ebbero incarico di ricevere via via le rate, e il governo provvisorio fece noto che i beni di coloro che indugiassero a pagare la parte a loro spettante sarebbero senz’altro sequestrati (72).
Nel luogo dei due citati commissarj entrò in breve il Favpoult, uomo severo e senza rispetti, il quale, dopo essersi già fatto un nome odioso nel marzo 1798 a Roma e in luglio ed agosto nella Cisalpina, venne ad eseguire in Napoli con la massima durezza l’ordine del conquistatore. Egli dichiarò tutti i beni reali proprietà della repubblica francese, anche il privato patrimonio de) re, quello dell’ordine di Malta, quello delle scuole pubbliche, il danaro esistente nelle pubbliche banche, tutte le casse pubbliche, le tasse, persino le già decorse. Tutti i tesori del paese, i musei e le biblioteche, persino ciò che ancora giaceva sepolto sotterra a Pompei e ad Ercolano, tutto doveva essere proprietà nazionale della repubblica vittoriosa, cioè della repubblica francese. Né i suoi subalterni si mostrarono negligenti nell’esecuzione del loro incarico. Le condizioni erano oramai diverse; nei giorni dello scompiglio i lazzaroni aveano rubato secondo il lor talento, nei giorni dell’ordine rubarono i francesi secondo la legge. Un giorno comparvero quattro commissarj nel palazzo Francavilla, vollero sigillare ogni cosa, e dallo studio di Giorgio Hackert portaron via diciassette grandi marine appartenenti al re. Nello studio di Filippo trovarono tre marine di egual grandezza, e avrebbero portato via anco queste, se egli non avesse con gran fatica e con lunghi discorsi significato loro che, non essendo i quadri ancora pagati dal re, appartenevano sempre a lui Hackert. La sicurezza delle persone era in pari condizioni; se prima altri correva pericolo di essere perseguitato e maltrattato come giacobino, si dava adesso anche peggio la caccia a quelli che eran giudicati realisti. Il general Rey, che nel palazzo Francavilla, dove avea posto il suo quartier generale, conobbe e prese a stimare i due artisti tedeschi, gli esortò calorosamente a lasciare quanto più solleciti potessero la città e il paese, altrimenti non potrebbe rispondere delle conseguenze. In fatti s’imbarcarono sopra un bastimento mercantile danese; se non che accadde che, scampato un pericolo, incorressero in altri (73). Lo Championnet, che sapeva accoppiare il valore alla mitezza e alla severità la prudenza, revocò alla fine quel decreto draconiano «assurdo nei principj suoi, indecente nelle forme, ingiurioso nell’espressione, funesto negli effetti;» e ordinò al Faypoult ed a’ suoi subalterni che dovessero uscire dentro 24 ore dalla città e 10 giorni dopo dai contini napoletani e romani, se non volevano essere violentemente espulsi e condotti dall’uno all’altro posto militare (74). Se non che non ¡scemarono per questo le esigenze pecuniarie e materiali dei francesi; al contrario tutte le antiche tasse, gabelle, prestazioni e sportale, come pure tutte le pene comminate at contravventori di tali prescrizioni, furono dichiarate espressamente in pieno vigore (75).
Le condizioni di una città conquistata vollero che si tenesse fermo alla consegna delle armi d’ogni qualità, della polvere e delle munizioni; la qual cosa andò poco ai versi di quei cittadini che avevano tanto cooperato a domare i lazzaroni. Lo Championnet dovette più volte ripetere il decreto, e il 5 di febbrajo aggiungervi minaccia di terribili provvedimenti contro chi tardasse a obbedire, e promessa di buona ricompensa a chi indicasse agli ufficiali pubblici le armi nascoste. Anche i cavalli da sella e da tiro del disciolto esercito doveano essere consegnati in certi luoghi della città (76), a Pizzofalcone, a Piedigrotta, al ponte della Maddalena e via discorrendo. Più gravi difficoltà occorsero per la restituzione degli oggetti rubati. Un editto del Municipio provvisorio — firmato dal Presidente Bruno e dal segretario Moltedó — minacciò ai restii giudizio statario e immediata fucilazione, e fra i luoghi dove a’ era maggiormente rubato indicò specialmente il «palazzo dell’ex-re,» quelli del duca della Torre, del cittadino Niccola Fasulo, il convento di S. Gaudioso, la casa della cittadina Gabriella Caracciolo (77).
L’ordine di consegnar le armi si riannodava al disegno del supremo comandante francese e dei patriotii che era quello di sostituire al disfatto esercito reale un nuovo esercito repubblicano. Un proclama sottoscritto dallo Championnet e dal Roccaromana ingiunse a tutti i militari di ritrovarsi nella metropoli dove si volevano riordinare i reggimenti: «poiché non basta l’aver liberato il paese dalla tirannia dei re, bisogna anco dalla Sicilia e da qualunque altro loro rifugio scacciarli: è della massima necessità prevenire le trame dell’aristocrazia» (78). Nello stesso tempo si mise mano alla formazione di una guardia nazionale: «Voi, o prodi paMotti che non ostante gl’inutili ma terribili sforzi del distrutto dispotismo, avete serbato nelle carceri e fra i maltrattamenti il sacro amore della patria, accorrete ora sotto il vessillo tricolore e servite con zelo le antiche e le nuove repubbliche ecc.» Dovevano provvisoriamente formarsi quattro compagnie; un comitato militare, preseduto da Giuseppe Pignatelli e più tardi dal Manthoné, aveva da curarne l’ordinamento (79). Il Moliterno voleva anche metter su una squadra di 400 usseri; chiunque possedeva un cavallo si facesse avanti e ne facesse dono; il foraggio sarebbe somministrato dal governo, al proprio mantenimento e vestiario provvederebbe ciascuno da sé; né la Repubblica dimentichèrebbe i cittadini devoti e volenterosi (80). Per rispetto alla creazione di una nuova marina, il governo provvisorio ebbe incarico dallo Championnet di far costruire da prima un vascello di linea, e poi due fregate (81).
Il 10 di febbrajo 1799, 21 piovoso anno VII della libertà, furono pubblicate dallo Championnet, sovvenuto in tal congiuntura dal suo concittadino Bassal, disposizioni relative a un complessivo ordinamento. Tutto il territorio napoletano fu, a immagine della Francia, diviso in undici dipartimenti, ai quali i fiumi e i monti somministrarono i nomi: del Vesuvio, che abbracciava Napoli e i suoi dintorni; della Pescara, del Garigliano, dell’Ofanto, della Sagra e via discorrendo. Ciascuno di essi si dividevano in cantoni, da dieci (dipartimento del Crati) a diciotto (dipartimento del Volturno). Ciascuno sarebbe retto da un consiglio composto di tre amministratori; a questi commessa la conservazione e amministrazione del patrimonio nazionale — strade, poste, istituti pubblici, beni dello stato e della corona — la distribuzione delle imposte dirette e la sorveglianza delle indirette, la cura della pubblica sicurezza. Tal consiglio sarebbe assistito da un commissario del governo, il quale non avrebbe parte nelle deliberazioni, ma osserverebbe l’andamento legale e impedirebbe gli abusi. Le città di 10,000 abitanti e più avrebbero in regola un consiglio municipale di sette membri; ogni cantone un’amministrazione municipale di tanti membri quanti il suo territorio comprendeva comuni; gli ufficiali, così della città come dei cantoni, non corrisponderebbero se non con l’amministrazione dipartimentale, salvo che per casi eccezionali bisognasse rivolgersi al governo. La città di Napoli fu partita in sei regioni, ciascuna con una municipalità particolare, alla testa di tutte una commissione centrale di tre cittadini (82).
L’incaricato degli affari della legazione imperiale rimasto a Napoli rappresentava al suo Gabinetto il generale Championnet come uomo di modi gentili e cortesi e «pieno di moderazione e di umanità;» e di certo se mai qualcuno fra i potenti guerrieri francesi ebbe il dono di riconciliare una città vinta col suo destino, quegli fu il supremo comandante dell’«esercito di Napoli» (83).
Senza lasciarsi forviare dalle frasi e dalle utopie dei patriotti napoletani, egli avea saputo trovare la vera via di cattivarsi la moltitudine. Al primo suo ingresso in città, aveva a un uomo del popolo concesso di partecipare al suo trionfo cavalcandogli a lato; e nella stessa guisa, formando alcuni giorni dopo il municipio provvisorio, ebbe cura che un altro popolano vi fosse compreso. I boriosi patriotti nobili arricciavano certamente il naso; «così Caligola creò console il suo cavallo,» dissero essi motteggiando, e credettero che lo stesso popolo di tale insulsaggine ridesse (84). Ma che il generale repubblicano avesse colto nel segno, lo provò il favore che i suoi eletti incontrarono presso il popolo; e quand’anche i discorsi, che attribuiti a Michele il Pazzo corsero per le bocche di tutti, non fossero esattamente suoi, non c’è dubbio ch’essi erano conformi allo spirito dei tempi e appropriati alle circostanze, e rendevan testimonianza della fiducia che si riponeva in lui. Chiestogli una volta da uno del popolo che cosa fosse l’eguaglianza, Michele rispose: «Poter essere (e indicava sé stesso) lazzaro e colonnello. I signori erano colonnelli nel ventre della madre; io son tale per 1 eguaglianza; allora si nasceva alla grandezza, oggi vi si arriva.» B un’altra volta: «Ora si chiaman tutti cittadini; quelli di su si chiamano così da sé e danno a noi lo stesso titolo; sicché i nobili cessano di chiamarsi Eccellenza, e noi di chiamarci lazzaroni; il nome di cittadino ci fa tutti uguali.» Secondo la condizione in cui si trovava, s’intende benissimo che nei discorsi ch’e’ teneva per istrada, a una cantonata, da un terrazzino, di sopra un parapetto, non mancassero bottate alla corte di Palermo: «Vi lagnate che il pane è caro; di chi è la colpa se non del tiranno che preda le navi che di Sicilia e d’Affrica vengon cariche di grano per voi? Che importa a lui se voi morite di fame! E però a lui guerra, a lui odio, piuttosto morire che vederlo ritornare!» E poi, quando la sua gente mostrava impazienza perché tutte lo cose non andavano a un tratto meglio di prima, egli si dava a calmarli così: «Sotto il tiranno quanti mali e dolori ci sono gli avete sofferti tutti, guerra, peste, fame, tremuoti; aspettiamo tranquillamente quello che ci porterà la repubblica che non abbiamo ancora, che è ancora da venire. Chi vuole aver presto qualche cosa da mangiare semina ravanelli e mangia radici; chi vuol mangiar pane, semina grano e aspetta un anno. Così è della repubblica; per le cose durevoli bisogna tempo e fatica» (85).
Lo Championnet si dava pensiero di rendere agli abitanti di Napoli sopportabile, per quanto stava in lui, l’occupazione straniera. Parte immediatamente da lui, parte dal general Dufresse comandante della città e dei forti, furono rivolte ài soldati le più severe ammonizioni perché si guardassero da qualunque prepotenza, non dessero noja ai cittadini con ingiustificate esigenze, né con l’arroganza gli offendessero. Già d’avanzo il carico degli alloggi militari pesava sugli abitanti; gli ufficiali non erano di facile contentatura, volevano anche la statla per i cavalli, e che si somministrasse oltre di ciò il vitto e il lume. Né questo bastava ai guerrieri della «gran nazione,» che non volevano aver conquistato per nulla Napoli col sangue loro. Bisognava in fatti che le cose andassero assai male, se furono necessarj editti per dichiarare che nessun cittadino potesse essere arrestato senza ordine scritto dal municipio o del governo provvisorio; che i cittadini non dovessero somministrare merci o vettovaglie se non ricevendone il pagamento in danaro, né apprestare alloggio se il comando di piazza non ne dava loro l’avviso; che quegli ufficiali, che sotto pretesto di ordini superiori si facevan fornire da privati cavalli e carrozze, dovessero o restituirli o pagarne in danaro contante il prezzo, e simili (86).
Veramente tali disposizioni si prendevano anche nell’interesse dell’esercito francese, il quale in condizioni tanto peggiori si sarebbe trovato quanto più avesse data al popolo materia di malcontento e di odio, e occasione di sfogare tali sentimenti con atti di violenza. E così accadde in fatti. Con astuzia, da un agguato, o col favor delle tenebre, il vinto prendeva le sue vendette; si sentiva di continuo parlare di francesi scomparsi, o di cadaveri francesi ributtati dal mare (87). Dai ricchi cittadini non aveva il francese da temer nulla, specialmente perché i più aveano abbracciato le idee che il conquistatore si proponeva di attuare; ma vi era un altro inconveniente. Molti nobili dovettero ristringersi nelle spese, congedarono gran parte dei servitori, o si allontanarono essi medesimi dalla città, e questa vide il suo commercio e la sua prosperità declinare secondo che cresceva il numero dei disoccupati e però bisognosi, scontenti, e propensi a qualunque misfatto. Il governo provvisorio e il municipio cercarono di riparare con severissimi provvedimenti; a qualunque proprietario che lasciasse Napoli minacciarono di fargli aprire a forza e senza nessun riguardo la casa; esortarono tutti a ritrovarsi in città fra cinque giorni, o fra quindici se fossero in paesi lontani, altrimenti si procederebbe a sequestrare i loro beni o a confiscarli a pro dell’erario nazionale; ingiunsero ai padroni, ai maestri d’arte, ai commercianti di non licenziare i sottoposti, se non volessero essere considerati «come cittadini nocivi,» e condannati a pagare al licenziato doppio salario (88). Se non che tali prescrizioni poco giovavano. Anzi accrebbero il numero dei malcontenti, essendo cosa dura e contraria al buon senso il pretendere che i ricchi facessero lo stesso lusso quando dall’altra parte aveano tanti carichi, e che gli artefici dovessero pagare gli operaj come prima, mentre i nobili non facean lusso e non davano occasione di guadagno. E i guadagni scemarono anche in altro modo. Per ragioni di pubblica sicurezza il general Dufresse si rivolse a invigilar severamente il traffico dei forestieri, e ordinò che, sotto pena di 100 ducati di multa nel primo caso e di 300 nel secondo, tutte le botteghe e osterie fossero chiuse sul far della notte, provvedimento singolarmente inopportuno presso un popolo che, in grazia del clima mite, è avvezza a fare della notte giorno (89).
In generale, non ostante l’accorgimento e le attrattive personali dello Championnet, non ostante i suoi sforzi per evitare ogni cosa che potesse disturbare il buon umore del popolo, le disposizioni di questo nella metropoli, già poche settimane dopo la rivoluzione, non poteano punto dirsi favorevoli. L’incaricato di affari austriaco barone Cresceri, che s’accorse dei brutti segni e presenti un cattivo esito, non si lasciò scappare la prima occasione; il 14 di febbrajo partì da Napoli e, fatto a quel che pare un gran giro, s’imbarcò per Palermo dove giunse il 26.
V
LA CORTE IN SICILIA
La squadra del Nelson aveva, sulla sera del 23 di dicembre, lasciato il golfo di Napoli con lieti auspicj; il vento spirava da oriente, il tempo prometteva discretamente bene. Se non che appena fu passata l’isola di Capri, grosse nubi si raccolsero sull’orizzonte occidentale e diedero in una dirotta pioggia. Tutta la notte, e assai oltre nel giorno seguente, continuò il temporale, che anzi con l’andar delle ore prese una tal violenza, come il Nelson nella sua lunga carriera di marinaro non rammentava l’uguale. Tanto maggiormente egli se ne impensierì, quanto più gli alti personaggi, che s’eran messi sotto la protezione della sua bandiera, si raccoglievano angustiati intorno a lui; quantunque, com’egli scrisse in seguito al conte St. Vincent, neppure una esclamazione che indicasse sbigottimento non uscì dalle labbra dei principi reali. Emma Hamilton mostrò un ammirabile contegno, mentre suo marito, tenendosi in disparte con una pistola carica in ciascuna delle mani, le diceva risolutamente pacato: «Non vo’ morire col glo glo dell’acqua salata nella gola; come vedo andar giù il bastimento mi tiro» (90). Alcune delle minori navi, cariche di fuggiaschi e di merci, s’eran già perse di vista, o che la tempesta le avesse portate via o il furioso mare inghiottite; la stessa Vanguardia era terribilmente mal concia, tre vele di parrocchetto messe in pezzi, e la vela maestra anch’essa, benché tuttora imbrogliata. Il giorno di Natale la furia degli elementi posò. Tuttavia alla famiglia reale, già a tante tribolazioni soggetta, toccò ancora peggio. Il principe Alberto, che contava sette anni, aveva fatto colazione con buon appetito, quand’a un tratto lo colse un malessere che andò d’ora in ora crescendo finché nelle braccia di Lady Hamilton la tenera vita si spense (91). «Tutti raggiungeremo fra poco il mio figlio,» disse con tranquilla rassegnazione la regina quando le fu portata l’infausta novella. Però non doveano giungere a tal segno. Il 27 di dicembre alle 2 antimeridiane si trovavano già in vista di Palermo. Il mare era sempre grosso, e la Vanguardia avea sofferto tante avarie, che il capitano siciliano Bausan dovè andare innanzi sopra un piccolo trasporto per rimorchiarla (92). Carolina, percossa e infranta da tanti colpi del destino così rapidamente succedutisi, senza aspettare che facesse giorno si fece chetamente portare in terra. Re Ferdinando sbarcò alle 9 antimeridiane, e fu ricevuto con tutto il pomposo cerimoniale fra il tonar dei cannoni e il giubilar della folla (93).
Gli animi degli augusti fuggiaschi, e più di tutti della regina malazzata e sofferente, arrivando dalla terra ferma in Sicilia erano addirittura sbalorditi per gli avvenimenti passati e per quelli che forse soprastavano. «In mia vita non saprò capire,» scriveva Carolina qualche tempo dopo a sua figlia, « né consolarmi, come un 16 o 20 mila furfanti abbian potuto conquistare e assoggettarsi 4 milioni di anime che non volevano saperne!» Ella scese a terra, tacita e abbattuta, con gli avanzi mortali del suo caro Alberto che collocò nei sepolcri di Monreale. Nei giorni seguenti fu tanto malata che si temé per la sua vita. Poi si riebbe in qualche modo, ma per un gran pezzo non potè dirsi sana, e piccoli incomodi continuamente riapparivano (94). Quando nel corso del gennajo lady Templeton chiese di essere co’ suoi figli presentata alla regina, questa certamente acconsentì, ma pregò nello stesso tempo l’amica Emma che esortasse i suoi compatriotti a non portar seco odori; «poiché io sono in uno stato tale che ciò potrebbe farmi danno, e la mia salute è giù tanto giù che io non posso più arrischiarmi a nulla» (95).
A questi mali fisici si aggiunsero indicibili dolori morali, o, per meglio dire, gli uni sugli altri ebbero vicendevole efficacia. Cure e pene d’ogni specie, e soprattutto profonda amarezza per tutto quello che, com’essa diceva, così innocentemente le era toccato soffrire, la laceravano come un verme roditore e la andavano sempre più consumando il più profondo dell’anima. «Possa Dio sempre guardarvi dagl’incomodi e dagl’infortunj che abbiam noi sofferto, e soprattutto dall’ingratitudine che abbiamo sperimentata!» Un’altra volta dice: «Mi maraviglio che non sono ancora divenuta cieca dal tanto piangere che ho fatto! Non posso avvezzarmi né alla nostra sventura né alla Sicilia.» Ella avrebbe preferito ritirarsi in un cantuccio tranquillo per passarvi i suoi giorni o piuttosto per finirveìi, dacché talora tal desiderio le prendeva il cuore: «Son vissuta abbastanza, anzi almeno due o tre anni di troppo, e però non temo la morte, però la tempesta che ha minacciato di seppellirci tutti, a me non ha fatto paura» (96). Poi riprendeva coraggio dicendo: «Bisogna fare il proprio dovere, e il mio in questo momento è di non lasciare alcun mezzo intentato per riconquistare al mio caro consorte, a’ miei diletti figli la proprietà loro; soltanto allora che quest’opera sarà compita, potrò pensare al mio ritorno, unico fine de’ miei desiderj.»
Sì fatta opera era assai ardua. Nelle prime settimane, dopo aver lasciato il continente, tutto le spiacque a Palermo, l’aria, il clima (97), il palazzo che, a quel che sembra, aveano in fretta e furia ripulito alla meglio e rimesso a nuovo; poi si lamentò delle pareti nude, dei pavimenti freddi e umidi, senza tappeti, e neppure dipinti. Oltre a ciò mancavano tutte le suppellettili, né da Napoli s’era portato nulla; fino della biancheria gran parte era andata male nella traversata, né si poteva così presto sostituirla. I dintorni della città, le nude balze, le disamene pendici non la svagavano punto; se talora faceva con le figliuole una piccola passeggiata verso Monreale, ogni cosa le dava noja, ogni cosa contribuiva a crescere la sua profonda tristezza. Tutto le appariva «affricano,» anche gli abitanti, ai quali non si poteva negare arguzia, vivacità, spirito intraprendente, ma neppure la qualità di essere sudicissimi (d’une crasse cochonnerie) e pochissimo colti; «non conoscono l’acciajo, non sanno fare una chiave; e tutto il resto alla stessa stregua!» Più lunghe gite non facevano, non foss’altro perché la regina, essendole tanto assottigliate le rendite — «de toutee nos rentes trois quarte anèantis» — non si arrischiava a metter su carrozza e cavalli, e malvolentieri s’acconciava a pigliarne a nolo. Anche la servitù ella aveva scemata; parecchi del suo seguito gli aveva congedati e mandati a Vienna con raccomandazioni; fra gli altri il suo onesto segretario Reiner, per cagion del quale aveva un giorno avuto tante noje col conte Richecourt (98).
Le tenevano costantemente compagnia le ottime figliuole, che con le tenerezze loro e cure d’ogni maniera l’ajutavano a sopportare il suo cordoglio, e Leopoldo che stava ancora sotto la vigilanza e guida d’una governante. Era un conforto per lei che i bambini avessero a loro disposizione una galleria piuttosto spaziosa e adorna di piante e di fiori che dal palazzo sporgeva sul mare, e potevano dalle stanze uscir su quella, come i prigionieri dalle celle, a godere dell’aria fresca. Di rado andavano in città, tutt’al più una volta o due per settimana solevano visitare qualcuno dei numerosi istituti femminili; e in congiunture specialissime, come per il giorno di nascita del re, o qualche volta nel carnevale, si recavano al teatro.
Nei primi tempi, quando non era ancor pronto un conveniente alloggio per il principe ereditario, tutta la famiglia viveva ristretta insieme in modo abbastanza disagiato e, stante la malattia della giovine principessa, non del tutto scevro di pericoli. Più tardi Francesco mise su casa da sé in una villa fuori di città, dove si tratteneva quasi tutta la giornata, occupandosi nell’agricoltura, la quale era per lui attrattiva più delle esercitazioni venatorie del padre, e sembrava gli facesse dimenticare quanto succedeva nel mondo e nel regno sul cui trono sarebbe dovuto salire. Vera immagine di suo padre, la salute e la robustezza in persona, egli si faceva corpulento; ma di ciò non si curava affatto. Essendo d indole punto vana — «n’ayant nul amour propre à un point criminel» — non dava nessun motivo di gelosia alla sua angelica moglie, disgraziatamente per lo più malaticcia, né pareva sapesse neppure che altre donne ci fossero al mondo. La regina per principio non s’immischiava punto nelle faccende domestiche dei suoi figliuoli, sebbene molte cose non approvasse, altre le dessero non poco pensiero, specialmente il crescere della piccola Carolina nata il 5 di novembre 1798, la quale aveva resistito all’orribile traversata tempestosa, ma ebbe bisogno di mesi per ripigliar le forze e lo spirito.
Chi si trovava meglio fra tutti quelli che si vedevano sbanditi dalla vista di Napoli era senza dubbio il re. Per lui la dimora in Sicilia non era presso a poco altro se non un cambiamento di scena pe’suoi esercizj di. caccia e di pesca; e poiché ogni cambiamento di tal genere ha il suo lato dilettevole, né la salute né l’umore di Ferdinando davano a divedere che la perdita del suo regno continentale gli stesse singolarmente a cuore. Come il principe ereditario, cosi pure il re s’era fatto accomodare una villa, piccina e semplice ma comoda e graziosa, con poderi di cui faceva portare i prodotti al mercato; in una mirabile situazione sul lido del mare, che gli procurava svago di passeggiate in barca e di pesca, e non lontana dalla città, della quala poteva nello stesso tempo godere i divertimenti.
In tale stato di cose qual maraviglia che Orazio Nelson non parlasse se non leggermente di quel sovrano, di cui egli si sentiva chiamato a difendere i diritti reali, e invece rivolgesse la sua devota ammirazione e profonda riverenza alla regina, a cui non ebbe nessuna difficoltà di dare il nome di grande? (99)
Forse più ancora delle ristrettezze della vita, fu alla real famiglia cagione di sofferenza lo star lontana da Napoli, segregata dal resto del mondo, e nell’ignoranza di tutto ciò che d’importante vi succedeva. Non mancavano in Palermo i rappresentanti delle potenze europee; insieme ai ministri d’Austria e d’Inghilterra vi si era trasferito il russo conte Mussin Puskin; e il consigliere di stato Italinskij, che era stato lungamente in un ufficio diplomatico a Napoli, aveva anch’esso avuto dalla sua corte l’incarico di rimanere presso la persona del re. Appunto in quei giorni, il dì 29 di dicembre, era stata conclusa a Pietroburgo una lega offensiva e difensiva fra la Russia e Napoli; la prima s’era obbligata, oltre all’appoggio che già prestavano nel Mediterraneo l’armata sua e quella ottomana, a fornire un sussidio di 9 battaglioni coi cannoni necessarj e 200 cosacchi, le quali forze, appena la stagione e le strade lo concedessero, si metterebbero in marcia, andrebbero, attraversando una parte degli stati turchi, Uno a Zara in Dalmazia, e di là sarebbero a spese di Napoli portate sulla riva opposta (100). Poco meno di un mese più tardi, il 21 di gennajo, una lega simigliante fu formata fra Napoli e la Porta, la quale si profferì nello stesso tempo a procurar la pace fra il re e i barbareschi; e in breve, con somma gioja della corte palermitana, corse voce che Abdul Kadir Bey, avuto come comandante della squadra turca ordine dal gran Visir di appoggiare con tutte le forze disponibili ré Ferdinando, aveva a questo fine già pronti 10,000 albanesi. A Corfù stava pure l’ammiraglio russo Usakof con una piccola squadra; dopo che in ottobre e novembre erano state prese le altre isole già veneziane Cerigo, Zante e Cefalonia, quella era la sola che rimanesse in potere de’ francesi. Con l’Usakof tenevan da Palermo carteggio il Mussin-Puskin e l’Italinskij. Soltanto con la potenza più intimamente legata alla casa reale siciliana, ogni relazione era del tutto cessata. Da più settimane non si avevano notizie dirette della corte di Vienna, e ciò in un tempo nel quale ogni momento recava seco nuove angustie e nuovi terrori, nel quale tutto dipendeva dal sapere che cosa fosse per fare l’Austria, e se e quando intendesse di entrare in campo, poiché cosi solamente erano in Palermo persuasi che le cose ormai disperate potessero prendere una piega migliore.
In fatto a ogni nuova che perveniva dal continente, l’inquietudine, i dubbj, i timori della corte siciliana crescevano. La prima fu la distruzione della più gran parte della propria armata per opera dell’ammiraglio portoghese Niza e del commodoro inglese Campbell; il quale estremo espediente era stato dal Nelson riservato pel caso che le navi corressero pericolo di cader nelle mani dei ribelli o del nemico straniero, ma quei due, come dalle circostanze appariva, senza sì fatta necessità lo aveano innanzi tempo recato ad effetto. Fu questo un gran colpo per la casa reale, né giovava il sapere che il Nelson avesse sottoposto il Campbell a severissima inchiesta, alla quale per altro per desiderio della regina fu messo termine (101).
«lAbbiamo tutto perduto,» così ella si lamentava con sua figlia Teresa, «la nostra bella e costosa flotta è distrutta, bruciata; cannoni, polveri, materiali da guerra, danaro, tutto è perduto!»
Ciò era accaduto l’11 di gennajo, lo stesso giorno che il vile e vergognoso armistizio di Sparanise era stato firmato dal principe Pignatelli. Quando ne giunse la nuova a Palermo, anche la gaja indifferenza del re ne fu scossa. Egli chiamò assurdi gli ordini che il suo vicario generale avea dati al principe di Migliano e al duca di Gesso per trattare co’ francesi, e disonorante il trattato che avean concluso. Egli scrisse al Pignatelli: «Io fui sommamente maravigliato in vederla operare in modo così ingiustificabile. Non aveva da me ricevuta nessuna facoltà di dar codesto passo. Bisogna che le sia uscito di mente che aveva un padrone, ovvero che abbia voluto a bella posta costringerlo ad accettare condizioni estremamente vergognose ed indegne.» Che assegnamento non si era fatto sul Mack, quante speranze fondate su lui! Anche quando le cose erano giunte a tale da dover cedere la metropoli, egli, a bordo della Vanguardia, aveva assicurato i reali di Napoli che si ritirerebbe verso sud e, appoggiato dalla Sicilia, difenderebbe le Calabrie. In fatti sui primi del 1799 il Nelson avea mandato ordine al marchese Niza di tener presso Messina la sua squadra pronta a combattere, di schierare le sue cannoniere lungo le coste calabresi, e, presentandosi il Mack, non ajutarlo solamente dal mare, ma prestargli ancora, se lo richiedesse, uomini e cannoni (102). Ed ecco giungere l’infausta nuova, che il Mack era scomparso da Napoli! Non si sapeva in che modo né dove fosse ito; solo più tardi si seppe ch’egli, riparatosi campo francese, s’era fatto dare un passaporto dallo Championnet; la qual cosa parve che agli occhi della corte gittasse anche più ombra su tutti quei misteriosi avvenimenti, e voltasse l’antica inclinazione e fiducia verso il Mack In profonda animosità ed esasperazione contro di lui.
Si ricominciò poi a riprendere alquanto di coraggio nella metropoli siciliana quando si venne a conoscere la condotta del popolo; come non solamente contro l’esterno minaccioso nemico ma anche contro gl’interni favoreggiatori di esso si fosse levato in armi, come abbandonato da’ suoi legittimi condottieri avesse scelto proprj generali (103), come avesse solennemente giurato di spargere in difesa de’ patrj focolari sino all’ultima goccia del suo sangue. E in Palermo si attendeva a trovar mezzi da portare ajuto all’assediata città, allorché fu vista nel porto una piccola nave con bandiera austriaca; era il vicario generale del re, e un certo numero di ufficiali superiori della guardia, che con lui avean cercato scampo nella fuga. Il Pignatelli ebbe ordine di non lasciar la sua nave, e di pensare a dar giustificazione della sua inesplicabile condotta.
Sul continente le cose peggiorarono daccapo. I duci scelti dal popolo lo tradirono; il Moliterno e il Roccaromana s’iutesero col supremo comandante francese — «teux polissons» li chiamava ora la regina, «giovani non buoni ad altro che a cavalcare, senza religione, senza principj né costumi;» — il Salandra dichiarò che co’ suoi 2500 uomini pon potea far nulla; i soldati consegnarono le loro armi al popolo, il quale, secondo che giudicavano a Palermo, era caduto nella rete dei nobili tràditori. «Io preferisco l’entrata dei francesi,» scriveva Maria Carolina estremamente irritata alla sua amica e confidente inglese, «e che essi tolgano a quei miserabili la camicia, piuttosto che vedere i nostri sudditi spergiuri, queste misere bestie,, questi vili bricconi condursi in tal modo! Gli esempj dati da sì compassionevole genia mostrano che la rivoluzione è compiuta, e che la nobiltà è stata quella che ha fatto ogni cosa» (104). Quando poi accadde realmente ciò che la regina, appassionata com’era, avea desiderato ai napoletani traditori, allora jl colpo fece un effetto terribile anche sul suo consorte. Ora che tutto era perduto, che bisognava depor la speranza di. ricuperar così presto il continente, che egli vedeva nella sua Napoli abolito il nome e titolo regale e sostituitovi forme repubblicane, parve ora che egli stesso non trovasse più nessun diletto ai favoriti suoi diporti; così almeno giudicò la regina: «egli è fuor di misura triste; sembra colpito e mi dà gran pensiero.»
Veramente è da dubitare che Carolina, per non fare apparire il re sotto luce troppo sfavorevole agli occhi de’ suoi parenti di Vienna, nel dipingerne la tristezza non caricasse alquanto le tinte. A ogni modo tal disposizione nell’animo di lui non fu di lunga durata; e altri luoghi delle lettere di Carolina mostrano ch’ella non sapeva sempre padroneggiare in ugual modo i proprj sentimenti, e che l’indifferenza del marito, in quelle condizioni ch’erano a lei stessa cagione di pena infinita, tanto più le riusciva grave quanto più il suo primogenito appariva per tal rispetto non dissimile del padre.
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Tutte le nuove giunte negli ultimi tempi da Napoli erano venute a caso o per vie traverse. La diretta comunicazione con la metropoli continentale era quasi del tutto cessata, del che la regina non si angustiava soltanto fuor di misura, ma vi scorgeva anche il tristissimo indizio che la catastrofe fosse colà irreparabilmente compiuta. Quanti pochi esempj occorrevano di fedeltà e costanza, e quanta gratitudine destavano nell’animo suo! Non c’era uno di tali valorosi, per infimo che fosse, al quale ella non pensasse e, potendo, non facesse significare la sua riconoscenza (105). Ma «dove sono il de’ Marco, il Simonetti, lo Spinelli? Dove l’arcivescovo, dove tutti i magistrati? E nessuno si rammenta del suo sovrano? Questo è per me un crudele e tristissimo ammaestramento,» ella scriveva in una lettera alla sua imperiale figliuola, «ed io ti assicuro che io vivo appena, non esisto più e non fo se non pregare Iddio che non mi privi della ragione.» Tutto quello che udiva dire o vedeva intorno a sé le accresceva la malinconia, la diffidenza, l’amarezza dell’animo. Il Gallo era partito per recarsi prontamente a Vienna; di certo non era da fargli colpa del non poter prendere la via più breve, ed arrivar presto; ma Tesser egli ancora a Brindisi il 21 di gennajo, cioè un mese preciso dopo la sua partenza da Napoli, e il fare intanto vendere tutte le sue suppellettili a Palermo, era pure una cosa singolare che suscitava forti sospetti contro di lui nell’animo del re e della regina. Delle nobili famiglie che stavano più vicine alla corte, non poche l’aveano accompagnata in Sicilia, altre per una ragione o per un’altra eran venute dopo. Ma non di tutte potean esser contenti Ferdinando e Carolina; e alcune si apparecchiavano apertamente a tornare a Napoli. Del contrammiraglio Caracciolo si raccontava ch’era rimasto offeso dell’essersi la famiglia reale servita per andare in Sicilia piuttosto della Vanguardia inglese che del Sannita comandato da lui; secondo altri dell’aver levato dalla sua nave una parte dei tesori che vi erano stati nascosti, e trasportatili sopra un altra, come se non si avesse in lui fiducia (106). Checché ne sia, un giorno egli si presentò al re e pregò, sotto pretesto di dover visitare i suoi possessi continentali, che gli fosse concesso di lasciar l’ufficio e tornare a Napoli. Ferdinando accordò l’una e l’altra cosa, ma soggiungendo che «il cavaliere non dimenticasse trovarsi Napoli in poter del nemico» (107). La regina non si oppose, ma si sentì ferire il cuore come da una pugnalata; conosceva abbastanza la volubilità di quell’uomo da prevedere quali potessero essere le conseguenze del suo allontanamento. Ma era egli veramente possibile che mancasse di fede? «Ha ogni giorno al palazzo vedute le nostre lacrime!» Quando egli venne all’udienza di congedo, ella lo scongiurò a non tralasciar nulla che potesse tornar utile alla real casa (108).
Il suo scudo, la sua difesa, il protettore della infelice sua famiglia e dell’isola ch’ella poteva ancora chiamar sua, era il così prontamente divenuto celebre vincitore di Abukir o, secondo il nome che gl’inglesi davano allora alla battaglia, del Nilo, viceammiraglio Orazio Nelson. A lui il conte St Vincent, che comandava la squadra inglese nel Mediterraneo, aveva affidato il comando dalle coste meridionali di Francia sino alle settentrionali di Affrica. Parte con lui, parte sotto di lui, servivano il commodoro Duckworth, che da Minorca teneva d’occhio il porto di Tolone, ma doveva nello stesso tempo star pronto a ricevere l’attacco dal lato degli spagnuoli e però domandava rinforzo di qualche vascello di linea; il capitano Troubridge — «gallant and most excellent second in command,» come il Nelson disse parlando al St. Vincent,— il quale era comandato in Egitto, e là dovea distruggere i trasporti francesi e mantenere comunicazioni e accordi con Sir Sidney Smith, che aveva un comando in Asia Minore; il capitano Ball, che incrociava con una squadra innanzi a Malta, e in breve cosi strettamente la bloccò, che si sperava di vedere da un giorno all’altro il presidio francese costretto a capitolare per fame; finalmente il capitano Louis, che Nelson avea mandato da Livorno col Minotauro, con la Tersicore e l’Alleanza, perché si mettesse in relazione col ministro inglese Sir Wyndham, e si tenesse pronto pel caso che la famiglia granducale di Toscana o il re di Sardegna già scacciato da’ suoi stati, essendo stretti dai francesi, chiedessero agl’inglesi soccorso.
Il Nelson con la Vanguardia era a Palermo, dove la real famiglia lo tratteneva. Più volte dopo il suo arrivo in Sicilia avea fatto proposito di far novamente vela verso Napoli ovvero verso Malta secondo che apparisse di potere in un luogo o nell’altro condur le cose a un passo definitivo. Ma tuttavia rimaneva fermo cedendo alle rappresentazioni, alle preghiere della real coppia, che non si sentiva tranquilla e sicura senza di lui (109). Era manifesto che il ministro inglese o piuttosto la sua vezzosa lady avessero gran parte in tal risoluzione; e dall’altro lato il re e specialmente la regina dovevano esser persuasi che, se si fosse allontanato il Nelson, anco gli Hamilton non sarebbero probabilmente rimasti a lungo.
Intanto il Nelson si dava a credere che la sua condiscendenza fosso cavalleresco dovere di annegazione verso una «casa reale colpita dall’infortunio,» alla quale egli sacrificava anco la sua salute, sapendo che solo l’aria dell’Inghilterra e oltre di ciò la pace e il riposo. potevano ristabilirla: «finché vivo e finché la regina lo desidera, rimarrò per sua sicurezza al posto onorevole che m’è assegnato.» E a lady Hamilton scrisse una volta: «Io dichiaro innanzi a Dio che tutti i miei sforzi son rivolti a guadagnarmi quanto meglio io possa l’approvazione della regina» (110).
L’ eroico marinaro estendeva si fatto reverente contegno a tutto ciò che toccava gl’interessi del re e della «grande regina.» Così raccomandò premurosamente al capitano Ball che, cadendo Malta, lasciasse da parte quanto poteva offendere i sentimenti della real casa, la quale vantava diritti sull’isola, e piuttosto avesse cura che la bandiera siciliana a canto alla inglese sventolasse. Di certo da buon inglese egli faceva assegnamento sicuro che a nessun altro, dall’Inghilterra in fuori, la famiglia reale sarebbe per ceder Malta al cui possesso non attribuiva gran valore; e in fatti i desiderj di Carolina, nelle condizioni in cui trovavasi, si ristringevano a volere che quella piazza importante non fosse in mano de’ francesi (111).
A soccorsi dalla parte degli alleati non c’era da pensare in quel momento. Né sul principio c’era neppur da parlare di siffatti soccorsi col Nelson, specialmente di quelli dei russi ch’egli profondamente odiava, tanto che con l’ammiraglio loro a Corfù non voleva aver niente che vedere (112). Quello però ch’egli non poteva dall’altra parte comprendere era l’«inerzia del gabinetto austriaco,» essendo chiaro che, cadendo Napoli in balìa de’ francesi, anco i possessi italiani dall’imperatore e la secondogenitura dell’augusta casa in Toscana dovevano andar perduti; se ciò avvenisse, sarebbero, più che i francesi con le loro armi, i ministri di Vienna con la mollezza e irresoluzione loro cagione di tanta sventura; «l’entrare in azione e non il restar passivi è il mezzo di attraversare i disegni di quei bricconi» (113).
fonte
https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1885-Fabrizio-Ruffo-Barone-von-HELFERT-2025.html