Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

“FABRIZIO RUFFO RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI” scritto da del Barone von HELFERT Vol. Primo (II)

Posted by on Feb 18, 2025

“FABRIZIO RUFFO RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI” scritto da del Barone von HELFERT Vol. Primo (II)

L’ARMISTIZIO DI SPARANISE

Nei giorni che precedettero la partenza della famiglia reale, i movimenti militari non eran cessati. Già il Duhesme stava innanzi alla fortezza di Pescara e la circondava da tutte le parti. Provvista di tutto il bisognevole pel mantenimento e per la difesa, non avea quella potente fortezza da temer molto le forze non troppo numerose che la minacciavano. Alla intimazione dei francesi il governatore Préchard rispose in modo così risoluto da far credere che con coraggio e costanza si sosterrebbe; tuttavia, appena ventiquattr’ore più tardi, egli fece come il Lacombe in Civitella del Tronto, e il 23 di dicembre capitolò (35). Allora ebbe effetto quello che da più settimane si apparecchiava.

Mentre coloro ch’erano propriamente addetti a servire e difendere Ferdinando in maniera così vergognosa sbigottiti cedevano, la popolazione dei monti dietro alle spalle del nemico si sollevava selvaggia e sfrenata, crudele e vendicativa, con l’animo pieno d’implacabile odio verso i francesi, e tanto risoluta, tanto sprezzante di fatiche, di pericoli e della morte stessa, che in breve il nemico messo alle strette dovè tremar dallo spavento. Un par di mille abruzzesi, in gran parte malamente armati, incendiarono il ponte di legno sul Tronto; impadronitisi della città di Teramo occupata dai francesi ne cacciarono i nuovi ufficiali, e di lì sul paese circostante si estesero. Di certo non erano essi in grado di tener testa in campo a schiere esperte e agguerrite; sicché il capo di brigata Cbarlot, mandato da Duhesme contro a loro, non durò fatica a sgominare quegli stuoli indisciplinati, rioccupò Teramo, e sul fiume di confine fece gittare un nuovo ponte. Ciò non ostante il pericolo a cui erano esposti i francesi non era allontanato. Poiché cominciava allora la piccola guerra, per la quale la popolazione dell’antico Sannio sapeva egregiamente giovarsi di tutti i vantaggi che le offriva il suo territorio montuoso e pieno di caverne, a ogni maniera d’agguati favorevole. Dovunque piccoli drappelli di francesi si mostravano, dovunque carriaggi o corrieri erano in via, invisibili nemici sbucavano e i male apparecchiati assalivano, uccidevano, precipitavano negli abissi, talora, a onta o esempio di terrore, inchiodavano in croce, e tutti i bagagli e le salmerio o guastavano o portavau via come bottino.

Nella metropoli i primi giorni dopo la fuga della corte passarono abbastanza tranquilli. Il popolo riconosceva l’autorità degli ufficiali, specialmente del real vicario e del corpo di città, collegio composto di sei nobili e di un borghese, e deputato a rappresentare la città di Napoli e tutto il regno, ma quasi dimenticato e fuori di esercizio negli ultimi decennj (36). Le numerose pattuglie, che il Pignatelli a tutte le ore del giorno e della notte faceva girare per la città, provvedevano al mantenimento della pubblica sicurezza. Nondimeno le classi possidenti non dimenticavano i passati atti di violenza, poco fidandosi dei lazzaroni, i quali, confesse credevano, dal loro odio verso le novità e gli stranieri potevano ogni momento essere condotti a nuovi eccessi (37). Dall’altra parte non mancavano teste calde che giudicavano opportuna la congiuntura per rammentare gli antichi privilegi della città, massimamente quello di avere a ricevere ordini dal re e non da un vicario generale. Come primo provvedimento atto a far valere il loro credito, proposero l’ordinamento d’una milizia urbana, e mandarono per ciò una deputazione al vicario reale Pignatelli. Uomo senza nessuna attitudine, tanto che da un pezzo il popolo gli aveva affibbiato il nome dell’animale dalle lunghe orecchie (38), e nello stesso tempo pieno di ogni maniera di pregiudizi egli accolse a dì 25 di dicembre i deputati della città con gran sussiego, e dichiarò che la dimanda loro offendeva i suoi diritti, avendo egli solo l’ufficio e il carico di invigilare la pubblica sicurezza. Occorsero pratiche di parecchi giorni perché il principe in massima cedesse; nacquero poi contese fra gli eletti e i deputati, che Gaetano Spinelli riuscì a metter d’accordo; finalmente, fatte le liste di sottoscrizione, in brevissimo tempo si raccolsero 14,000 nomi. Se non che a quel punto il Pignatelli osservò di non avere armi disponibili; a stento e dopo rinnovate e difficili pratiche i cittadini ottennero prima 400, poi 500 fucili, co’ quali risolutamente si accinsero a provvedere al servizio di sicurezza pubblica (39).

Commoventi erano le novelle che, circa lo stato delle cose nel campo, alla città pervenivano. Gli amici delle novità, che erano a un ora amici de’ francesi, si studiavano con appassionata diligenza di diffonderle, con ogni maniera di giunte e di esagerazioni abbellendole. I partigiani del re dall’altra parte spargevano la voce che l’ammiraglio Nelson, dopo aver messo al sicuro in Sicilia la real famiglia e i tesori, tornerebbe nel ‘ golfo per sostenere e ajutar dal mare i difensori della patria. Il Mack dal canto suo si fortificava alla meglio presso Capua; ma di fronte a tanti e così spesso rinnovati esempj di tradimento e di viltà, come poteva egli sperare di mantenersi a lungo? Con lui era compiutamente d’accordo il real vicario, angustiato sempre più dalle tristi voci che correvano. Già vedeva in ispirito il nemico alle mura della città, la quale non era in ¡stato di opporre valida resistenza; e però restringeva principalmente l’opera sua a toglier di mezzo tutto ciò che poteva preparare al nemico la via o fargli cader nelle mani gli strumenti di guerra. E così un giorno (28 di dicembre) ordinò che si ardessero 120 cannoniere ancorate presso la grotta di Posillipo; le fiamme si riflettevano lontano sui quartieri della angosciata città e il cielo e i flutti tingevan di rosso, mentre più di 1000 quintali di polvere e una gran quantità di palle d’ogni specie erano buttati nel mare (40). Nello stesso tempo il Pignatelli pregava il Mack che venisse in Napoli e convocasse un’assemblea di generali; la quale in fatti il dì 30 si adunò, e fu concorde nel deliberare che si chiedesse al supremo generale nemico un armistizio (41).

A dire il vero, i francesi, non ostante i buoni successi spicciolatamente ottenuti, non si trovavan mica in quei termini vantaggiosi che, dalla parte dei napoletani, la viltà degli uni e la slealtà degli altri immaginavano. Il 28 di dicembre il general Mathieu del corpo Macdonald aveva passato presso Isola il Siri, il 80 era a Sangermano, dove anche il Macdonald. ed il capo supremo s’incontrarono: alla fine dell’anno occupavano essi le alture di Cajanello, a mezza strada tra Venafro e Calvi, e di lì dominavano la via fra Roma e Capua. Mentre in quel torno di tempo il general Rey lungo le coste di Terracina si avvicinava alla fortezza di Gaeta, negli Abruzzi il Lemoine avanzava verso Popoli, dove, com’è detto di sopra, le due colonne del settentrione dovean porgersi la mano. Il generale Gamba, che stava lì con alcuni battaglioni napoletani, offrì battaglia al nemico, e da’ due lati con gran valore e con accanimento si combattè. Già era caduto un generale francese, già i napoletani, a cui soccorso era sopraggiunta la cavalleria del Micheroux, aveano preso il disopra, quando il Lemoine fece un ultimo sforzo e gli riuscì di rivolgere la giornata a suo vantaggio. Allora le squadre napoletane si scompigliarono, e fu compiuta la disfatta del Gambs, che avrebbe avuto certa vittoria se il Micheroux avesse potuto condurgli a tempo anche la sua fanteria. Ma questa rimase tagliata fuori, e un giorno o due dopo si sciolse e disperse per modo che solo una parte degli ufficiali giunse al quartier generale in Capua (42).

Il 3 di gennajo il general Rey stava innanzi Gaeta. La qual piazza, assai forte per se stessa, era difesa da 4000 uomini e sovrabbondantemente provvista di tutto il bisognevole per la guerra: IO o 12 mortaj, 70 cannoni, 20,000 fucili, viveri per un anno. Il Rey non disponeva per il momento altro che di un obice, col quale ordinò che si tirasse granate sulla fortezza; ed ecco che, tratto appena il primo colpo, si vide alzare la bandiera bianca, e il governatore Tschudy si dette a discrezione con tutto il presidio; i soldati furon mandati prigionieri a castel S. Angelo, gli ufficiali, promettendo di non riprendere le armi contro la Francia, lasciati liberi.

Lo stesso giorno doveva per ordine dello Championnet tutto il corpo del Macdonald andare avanti. La linea del Mack si stese lungo il Volturno da Castellammare, presso la foce di quel fiume, per Capua sino al passo del fiume medesimo presso Cajazzo, ed era in tutti i punti principali riccamente fornita di cannoni. Il Macdonald avanzò presso Capua e ottenne qualche vantaggio, cosi che il Mack per tener fermi i suoi soldati dovè minacciare di far fuoco sui fuggitivi. Intanto il corpo nemico, che disponeva solo di deboli pezzi di campagna, era venuto a tiro dei cannoni del Mack, il cui fuoco egregiamente condotto devastò talmente le file del Macdonald, che questi credè opportuno ritirarsi verso Calvi (43). Cercò presso Scafa di Cajazzo forzare il passaggio del Volturno; ma quivi un giovane nobile napoletano, il duca di Roccaromana della famiglia dei Caracciolo, tenne valorosamente testa ai francesi e li costrinse a tornare addietro. Costò quell(‘)aspra giornata ai francesi non meno di 400 fra morti e feriti; 100 prigionieri, fra cui il colonnello Darnaud; il general Mathieu perse un braccio, il generale Boisregard cadde. I napoletani contarono 100 morti o feriti, fra questi ultimi il prode Roccaromana. La sconfitta dei francesi, secondo l’opinione degli stessi scrittori loro, sarebbe stata intera, se il principe di Moliterno, a cui il Mack aveva affidato due reggimenti di cavalleria, e del resto valente capitano che nella campagna del 179495 si era singolarmente segnalato, fosse con quei due reggimenti venuto fuori dalle trincee per assalire le schiere nemiche che non troppo ordinate si ritiravano (44).

Le condizioni dello Championnet erano in ogni modo assai pericolose, e più ancora divenner tali quando la sollevazione popolare crebbe e si estese. Con le colonne del settentrione il corpo principale area perso ogni attinenza, tanto che non sapeva dove si aggirassero nò in che termini fossero. Il Duhesme in fatti da Pescara, dove rimase un debole presidio, avea mosso verso Chieti, mentre il Busca con un’altra colonna doveva risalire il fiume Pescara per dar la mano al Lemoiue. Se non che il Busca, continuamente contrariato dagli agguati, dalle offese, dagli assalti degli abruzzesi, perse uomini e carriaggi, e giunse a Popoli quando il suo compagno d’armi, dopo averlo aspettato alquanti giorni, ne era già partito per riunirsi di là da Sulmona all’esercito principale, il 2 di gennajo. Il 6 si trovava il Lemoine in Alife e Piedimonte; la cavalleria dello Championnet in Venafro; la linea del Volturno la guardavano il Macdonald da Cajazzo fino alla strada di Napoli, il Rey di là sino al mare; una piccola riserva era in Calvi.

Ma allora dietro le spalle dello Championnet scoppiarono le sommosse popolari. Cominciò Sessa appena sgombrata dai francesi, e appresso furono sossopra Teano, Itri, Castelforte, e Fondi sin verso San Germano. E cosi lo Championnet, che pareva tenesse bloccato il suo avversario, si trovò piuttosto lui stretto in un largo cerchio e come tra due fuochi. Le cattive novelle si succedevano senza posa. Qui quelle torme disperate distruggevano i ponti che il Bey, venendo di Gaeta, aveva gittati sul Garigliano; li assalivano un parco d’artiglieria francese e lo facevano saltare in aria; alle forze mandate contro di loro virilmente tenean testa, o attaccavano il nemico persino ne’ suoi proprj accampamenti, per modo che in tale impari lotta lo Championnet contava quasi 600 uomini perduti (45). Oltre di che, impediti i trasporti o presi dai ribelli, soprastava minacciosa la mancanza di viveri e munizioni; interrotte erano le comunicazioni con Boma, ed era anche da temere di peggio, se le colonne napoletane rimaste dietro i francesi, giovandosi delle angustiate condizioni del nemico, si avanzassero verso le terre che la ribellione agitava e questa con le loro forze raccolte e disciplinate rinvigorissero. La qual cosa si poteva sospettare di Roger Damas e di Diego Naselli. Quest’ultimo, cedendo finalmente alle rappresentazioni del Granduca ed ai rigorosi avvertimenti del ministro toscano, per l’appunto in quei giorni, fra il 31 di dicembre e il 3 di gennajo, avea sgombrato Livorno. Se non che né lui né il Damas aveano la minima idea di ciò che inaspettatamente su i patrj campi di battaglia avveniva, e stimarono fosse miglior consiglio il condurre le schiere loro direttamente alla metropoli.

E così il maggiore dei pericoli che minacciavano lo Championnet fu allontanato. Ma quelli che rimanevano erano pur nondimeno tali da dargli grave pensiero e metterlo in forse, se convenisse arditamente tener sodo, o piuttosto guadagnar tempo e, innanzi che fosse troppo tardi, ripassare il Garigliano. Prima di tutto si condusse verso Venafro per apparecchiar la strada alla divisione Duhesme. Ma questo generale si batteva nel cuore degli Abruzzi con le popolazioni armate, che andavan sempre crescendo di forze e di audacia. Aveano fra le altre cose ripreso valorosamente la città di Aquila, talché i francesi si dovettero chiudere nella fortezza col pericolo imminente di perire o per assalto o per fame. Più vicino verso Terra di Lavoro il distretto di Molise formicolava di bande armate; ivi la sommossa aveva un punto d’appoggio nella forte Isernia, che il Duhesme doveva prendere innanzi di avviarsi verso l’esercito principale.

Non era da maravigliare che i generali Damas e Naselli, lontani e tagliati fuori, non avessero punto notizia dello stato delle cose fra il Garigliano e il Volturno. Ma è impossibile che o non se ne avesse del pari nessuna notizia in Napoli, o che sulle persone cospicue ed autorevoli tanto la viltà e la spensieratezza dominassero che, invece di mettere a profitto, in favore della causa reale, le condizioni singolarmente difficili e pericolose del nemico, si figurassero di essere piuttosto essi in condizioni di tal fatta, e però facessero proposte, delle quali nessuno poteva essere più stupito di quello a cui erano rivolte.

È vero però che in questo mentre le cose avean preso in Napoli un minaccevole aspetto. La nuova milizia cittadina, fin da principio troppo scarsa, non bastava a tenere in freno gli animi, dalle alterne nuove ora per un verso ora per l’altro agitati. Al che s’aggiunse la discordia sempre più aspra fra il vicario generale e le commissioni municipali. Per liberarsi dell’incomodo viceré, una parte dei nobili, capitanati, come alcuni credono, dal principe di Canosa, ebbero l’idea di chiedere che un principe della linea spagnuola prendesse il posto del re fuggito. Uno spettacolo che in quei giorni si offerse agli occhi dei napoletani, fornì al partito la occasione desiderata di eccitare la opinione del pubblico contro il Pignatelli. Quando il re partì, le navi da guerra Partenope, Tancredi (che nel 1795 avea comandata il Caracciolo), Guiscardo, ciascuna di 74 cannoni, S. Giovacchino di 64, la fregata Pallade di 40, la corvetta Flora di 24, e alcune altre piccole navi da guerra, piuttosto che mandate a Messina, dovettero esser lasciate nel golfo di Napoli, perché degli ufficiali e degli equipaggi la massima parte aveva abbandonato il posto, e i rimasti eran tali da fidarsene poco. Ecco che a dì 8 di gennajo i cittadini scorgono fiamme che sembrano sorger dal mare, che lambiscono i larghi fianchi delle navi, che guadagnano il ponte, si fanno strada verso gli alberi, si attaccano alle antenne, alle vele, alle corde, fino a che tutta la squadra è in fuoco, e poi adagio adagio, consumata la lor preda, si estinguono o s’immergono nei flutti coi frammenti bruciati (46).

Nella metropoli, dove durava sempre incancellabile l’impressione dell’altro spettacolo del 28 di dicembre, la commozione per questa nuova opera di esterminio fu immensa, e i nobili seppero volgere al fine da essi desiderato lo scontento universale. In un’assemblea tempestosa, che si tenne in San Lorenzo Maggiore l’8 e 9 di gennajo, vinse il partito di chiedere la deposizione del Pignatelli. Il colpo fu grande pel po vero vicario generale che perse ogni prudenza, ogni assennata pacatezza. Gli occupò l’animo il timore che potesse rimetterci il capo; nello stesso modo che il Mack, suo compagno di sventura, non ostante parecchi buoni successi ottenuti nelle ultime battaglie, non aveva altro innanzi agli occhi se non la poca fede de’ suoi ufficiali e soldati e il pericolo del tradimento.

E così mentre il supremo duce francese, vedendosi alle strette, pensava di rischiare in una gran battaglia la vittoria o la morte, il principe di Migliano e il duca di Gesso, deputati dal Pignatelli, si presentavano nel campo francese a fin di proporre la cessazione delle ostilità. Padroneggiando la sua impazienza, divenuta per l’appunto maggiore a cagione della recente novella che le schiere napoletane avean preso terra all’imboccatura del Garigliano, il francese si dette un’aria superba da vincitore, onde i due negoziatori napoletani furono percossi e sbigottiti. In tal modo fu fermato a Sparanise presso Calvi un armistizio di due mesi, dal quale i francesi senza impugnare la spada trassero i maggiori vantaggi: sgombro immediato di Capua; linea di separazione fra i due eserciti che, principiando dalle due imboccature del Lagno, a nord ovest di Napoli e passando per Benevento con una larga curva, faceva capo alle bocche dell’Ofanto all’oriente della Puglia; con che ai francesi eran concessi territorj dove nessuno dei soldati loro avea per anche messo piede, ed altri dove, serrati da tutte le parti, si trovavano a dover combattere con le popolazioni esasperato; oltre di ciò chiusi tutti i porti napoletani alla bandiera inglese, alla francese aperti; finalmente una indennità di guerra di 10,000,000 di tornesi, da esser pagati una metà il 15, l’altra il 25 di gennajo (47).

In questa guisa la causa reale fu tradita e venduta. Tale fu l’impressione del popolo napoletano, quando la mattina del 12 lesse con maraviglia e tristezza sulle cantonate l’annunzio. L’esercito ci rimise quel poco che gli restava di spirito militare. Quando il 1213 di gennajo senza trar colpo il Mack sgombrò la forte Capua che appena dieci giorni prima era stata così efficacemente difesa, i soldati a schiere si dispersero, di maniera che di 5000 uomini a mala pena mezzi ei ne condusse ad Aversa. Nello stesso tempo, a poche giornate di marcia verso il settentrione, aveva il Duhesme espugnato Isernia e fieramente punitala per avergli così ostinatamente resistito. Niente più s’opponeva alla riunione della colonna col corpo principale, e in fatti il giorno 14 s’incontrarono. Il supremo duce dei francesi pensava già seriamente ad avanzare su Napoli e già studiava i nuovi ordinamenti di governo che vi voleva introdurre. Nel suo campo si trovava, con altri fuggiti o cacciati che speravano adesso di ritornare in patria, Carlo Laubert, stato accanito cospiratore su i principj del decennio; a lui lo Championnet dette la presidenza della commissione che a quei nuovi ordinamenti doveva attendere.

Il Hack e il Pignatelli non ci si raccapezzavano. Che bisognava egli fare? Difendere la metropoli? Due battaglioni di svizzeri e altrettanti di albanesi, oltre a qualche centinajo di artiglieri, costituivano tutte le forze disponibili per proteggere così estesa città. Il Mack destinò la brigata Dillon a rinforzare il presidio; ma appressatasi essa a Capodichino, fu dai lazzaroni assalita che la disarmarono; i soldati inermi fuggirono o si confusero co’ cittadini. Il Mack non attentandosi più di entrare in città, dove già si udivano minacce e grida: morte ai Tedeschi!» rimase al suo quartier generale a settentrione di Napoli sulla strada di Caserta. Forse così facendo secondava il vicario generale, il cui unico sforzo era di evitare ogni lotta. Quando il capitano Simeoni, in nome del presidio del castello Nuovo, domandò che cosa avesse a fare nel caso che il popolo attaccasse il forte, gli fu risposto che dovesse difendersi, ma senza far danno agli assalitori. «Non si deve dunque tirare?» «Sì, ma a polvere.» Allontanatosi il capitano, gli corse dietro il duca di Gesso, che in nome del Pignatelli gl’ingiunse assolutamente di non tirare.

Il 14 comparvero in Napoli ufficiali francesi; per vedere la città, e per andare al teatro, essi dissero; ma in verità per ricevere il giorno seguente, sotto la condotta del commissario Arcambal, la prima rata dell’indennità di guerra. Il Pignatelli fece chiamare i rappresentanti della città, e volle che mettessero insieme la somma occorrente gravando di una tassa i proprietarj di case e i commercianti; ed essendosi quelli rifiutati, egli dichiarò di lavarsene le mani. Intanto saputosi dal popolo perché i francesi eran venuti, furono a un tratto piene d’armati le strade; le grida: «Viva la Santa Fede! Viva San Gennaro!» s’ alternavano con le altre: «Morte ai francesi, ai giacobini, al Mack, al Pignatelli!» Verso sera il popolo accorse al S. Carlo, supponendo che vi fosse l’Arcambal; irruppe nel teatro con tale impeto e violenza che molti spettatori vi rimisero la vita; fu rapidamente calato il sipario; l’Arcambal fuggì nel palazzo reale, per un corridojo che fa comunicare i due edificj. Mentre alcuni savj cittadini procuravano di trarre, col favor della notte, fuori della città il commissario e i suoi compagni, innanzi ai palazzi de’ due negoziatori dell’armistizio si formavano minacciosi assembramenti; su tutte le piazze principali si aggruppavano armati; dove appariva un drappello di milizia urbana, il popolo l’assaliva e gli toglieva le armi.

Il giorno appresso, un’onda di popolo sempre crescente accorse al castello Nuovo, s’impadronì della porta esterna, occupò il ponte levatojo, fece alzare la bandiera reale, chiese armi e polvere. Aperte dai cacciatori del reggimento Sannio le entrate, il popolo irruppe dentro, cacciò via gli ufficiali e si fece padrone del forte. Il simile accadde a S. Elmo, al Carmine, al castel dell’Uovo, al grande arsenale, non opponendo in nessun luogo i soldati seria resistenza. Intanto, vedendo giunger nel golfo la nave che riconduceva il Naselli da Livorno, i popolani messisi in barche a quella si appressarono, si fecero dai soldati consegnare le munizioni, s’impadronirono infine anco della fregata e vollero per forza che s’accostasse al molo. D’armi e munizioni erano ormai le infime classi sovrabbondantemente provviste; talché, quando l’ira loro o all’interno o contro gli esterni nemici scoppiasse, c’era da temere estreme calamità. Il lazzarone non si fidava più di nessuno, né del vicario, né dei nobili, né dei generali, né dei soldati; tutti li sospettava traditori, tutti segretamente di balla co’ francesi. Il consiglio di città, i cui membri nobili avean creduto trarre il Pignatelli nella rete, vi si trovò impigliato esso medesimo e cessò le adunanze. Il cardinale arcivescovo Capece Zurlo s’industriò d’indurre la moltitudine a deporre le armi e a riprendere le pacifiche faccende; ma il suo tentativo fallì del tutto.

Lo stesso giorno verso sera uno stuolo di gente armata mosse verso Casoria per togliere al Mack il comando; ma questi, avvisato in tempo, riparò a Caivano presso Acerra, e di là il di seguente (16 di gennajo) si condusse travestito al campo dello Championnet che onorevolmente lo accolse. Egli aveva all’ultimo momento commesso il supremo comando nelle mani del duca di Salandra; al quale toccò a pagare la pena per lui. Volendo in fatti, accompagnato dal colonnello Parisi e altri ufficiali, recarsi al campo, s’imbattè fra Caivano e Casoria in un drappello di cittadini che, pigliandolo forse pel Mack, gli si scagliarono addosso, lo ferirono nel capo, gli ruppero un braccio, e fu gran fortuna ch’e’ne campasse la vita. Allora né anche il vicario generale stimandosi più sicuro, fece chetamente portare a bordo una somma di 4000 ducati confidatagli dal tesorier generale Taccone e, abbandonando la città e il regno al loro destino, nella notte fra il 16 e il 17, indossate le vesti di sua moglie, si mise in salvo.

In tal frangente, mentre tanto minaccioso il disordine soprastava, seppero alcuni delle classi superiori, parte con la persuasione, parte, come altri ha detto (48), con la corruzione, indurre il popolo a scegliersi un capo fra i nobili. Il principe di Moliterno fu in tal maniera nominato generale e duce supremo; gli eletti gli misero compagno al fianco Lucio Roccaromana; e poiché anche il comando dei forti fu affidato a quattro nobili, avvenne così che la nobiltà avesse i più importanti ufficj e quindi tutto il potere nelle mani (49). E sul principio la cosa andò bene. La gente facea chiasso per le strade, tirava fucilate in aria, si compiaceva di far pompa delle armi carpite, ma senza recar danno a nessuno; giravano per la città pattuglie di lazzaroni, che avevano un contegno tranquillo e conveniente (50).

Ma presto le cose mutarono aspetto. Una lettera, diretta da Giuseppe Zurlo al Mack, nella quale si leggeva il nome dello Championnet, cadde la mattina del 17 in cattive mani; e tosto si levarono voci che volevano far giustizia sommaria del direttor di finanza traditore. Il duca di S. Valentino, amato dal popolo, calmò gli agitati spiriti dogli schiamazzatori, proponendo che si conducesse l’accusato nel castello del Carmine e ivi si giudicasse. E cosi avvenne. Lo Zurlo fu preso e non senza gravi maltrattamenti trascinato al castello, mentre altra gente, assaltata la sua casa, la saccheggiava e devastava. Anche i colonnelli Bardella, Bologna e Beaumont furono dal popolo tratti innanzi al tribunale; i due primi rimessi in libertà, il terzo mandato a Castellammare (51). Non c’era più sicurezza per le persone. Chi era notato come giacobino nei registri della polizia, nei quali ogni popolano poteva oramai cacciare il naso, gli ufficiali che aveano abbandonato le bandiere, infine tutti i possidenti, si videro fatti bersaglio di una moltitudine avida di vendetta e di preda, e desiderarono in cuor loro la venuta dei francesi che soli potevano proteggerli (52).

Il Moliterno riconobbe la necessità di adoperare gravi espedienti. Intimò alle moltitudini che deponessero le armi, e in gran parte l’ottenne; sulle principali piazze della città fece rizzar forche ad ammaestramento dei malfattori e riottosi. Nello stesso tempo volle provvedere alla esterna sicurezza di Napoli. Una deputazione cittadina, nella quale era il principe di Canosa, si recò al quartier generale nemico, per proporre che si manterrebbe l’armistizio se i francesi cessassero dall’avanzarsi verso la città. Ma lo Championnet, che si sentiva oramai forte abbastanza, respinse la proposta, dichiarò rotto l’armistizio, e beffardo soggiunse: «Son forse i napoletani i vincitori, e i francesi i vinti?»

Il 18 sul far della sera si diffuse per la città la voce che s’era tentato di trattare col nemico, che le pratiche eran fallite, che lo Championnet voleva marciare su Napoli. Allora scoppiò daccapo lo sdegno popolare e più sfrenato che mai. Il Moliterno e il Roccaromana furon chiamati traditori e indegni che più a lungo si prestasse loro fede e obbedienza. Persone dell’infima plebe si buttarono sulle forche e le abbatterono; altri corsero ai luoghi dove nei giorni precedenti avean deposto le sciabole e i fucili, e si armarono di nuovo; altri finalmente presero dei cannoni e li trascinarono a Poggioreale, a Capodichino, al ponte della Maddalena. Soldati dei reggimenti dispersi; bassi ufficiali del corpo Naselli, capi dei camiciotti, divennero i conduttori. Un mercante di farina, di nome Paggio, e il figliuolo di un trattore, detto Michele il Pazzo, furono acclamati generali. Tutte le selvagge passioni presero il sopravvento; preti fanatici e frati col crocifisso in mano accendevano gli animi alla vendetta contro i francesi, alla distruzione degli eretici, e benedicevano le armi che il popolo divotamente presentava loro. Ricominciò la caccia ai giacobini. Chiunque portasse un abito di nuova foggia o i capelli corti correva pericolo di esser preso per amico e alleato dei francesi: cosi che molti poveramente si vestivano, un po’ per propria sicurezza, un po’ per mescolarsi ai lazzaroni, scoprirne i disegni e giovarsene. Fra le altre cose essi persuasero il popolo a liberare i prigionieri politici. Ma in tal modo anco le celle di molti comuni malfattori si aprirono, i galeotti ruppero le catene, e, cresciuta cosi con grave pericolo la popolazione, salì a 40,000 il numero di quelli che portavano armi.

Accadde allora che un servitore del duca della Torre si lasciò inconsideratamente uscir di bocca che il suo padrone avea ricevuto lettere del generale Championnet (53) e preparava per lui un sontuoso convito. Vi fu subito gente che andò ad assaltare il palazzo del duca; il suo appartamento, ricco di preziose collezioni, di libri, di strumenti fisici, d’incisioni, di quadri, saccheggiarono e dettero alle fiamme. Il duca stesso strapparono dalle braccia della vecchia madre che invano piangeva e supplicava per lui; presero anche il secondogenito, Clemente Filomarino, uomo non meno dell’altro stimato e colto, e trascinatili entrambi nella strada della Marina, sopra un rogo prestamente messo insieme vivi li bruciarono. Oramai l’angoscia e il terrore s’insignorirono della miglior parte della società. Il campo dello Championnet formicolava di messi mandatigli dai proprietarj, dai nobili, dagli eletti della città per pregarlo che non indugiasse l’entrata, assicurandolo che poteva fare assegnamento sulla cooperazione di tutti i migliori cittadini. Il generale francese volle che in malleveria di siffatta assicurazione fosse messo in suo potere il forte Sant’Elmo, e a tal domanda per parte dei nobili fu consentito (54). Un certo numero di patriotti che solevano ritrovarsi in casa Niccola Fasulo, formarono fra loro un comitato centrale (55), che seppe tirare alle proprie opinioni il Moliterno e il Roccaromana. Si trattava innanzi tutto di sedare il furor popolare. Il cardinale arcivescovo fece portare solennemente in giro il capo e il sangue del santo protettore fino alla statua di lui sul ponte della Maddalena, dove i preti gridarono le parole di S. Giovanni Battista: «Poenitentiam agite, facite fructus dignos poenitentiae!» Il Moliterno, in vesti da penitente, con capelli sciolti, scalzo, accompagnò la processione, che, percorse le strade principali, tornò finalmente verso la mezza notte in Duomo. Ivi egli si fece avanti; sospirando e piangendo arringò la moltitudine; deplorò l’infortunio che colpiva la città confortò ad aver fede nella protezione del Santo, che. non ne concederebbe ai francesi la signoria; volle che in nome di S. Gennaro si giurasse di perseverare nella causa della patria, e primo egli prestò tal giuramento che fu con entusiasmo dalla folla ripetuto. Ma nello stesso tempo esortò che tutti per quel giorno tornassero pacificamente alle case loro, in seno delle loro famiglie; sperava il di seguente trovarli radunati al palazzo municipale in S. Lorenzo. Ciò accadde dal 19 al 20 di gennajo (56).

Poiché lo Championnet ebbe fatto venire la divisione Duhesme, Napoli si trovò chiusa in un gran cerchio da Capua ed Aversa fino a Sarno. Una colonna sotto gli ordini del colonnello Broussier marciando per i passi caudini, dove le truppe reali, senza trar profitto del luogo, presero la fuga, avanzò verso Benevento che senza resistere le aprì le porte. Dietro le spalle della linea principale francese il general Rey ebbe l’incarico di disperdere le milizie lungo il Garigliano inferiore, di sottomettere novamente Castelforte, Traetto, Itri, e ripristinare le comunicazioni col territorio romano.

Le divisioni Macdonald, Lemoine e Duhesme si accostavano sempre più alla città. Il Broussier ebbe ordine di tornare, dopo la presa di Benevento, al fianco sinistro del Duhesme che stava presso il Vesuvio. Ed egli partì carico di tesori predati per la più parte alle chiese. Ma quelle stesse gole caudine, che pochi giorni innanzi una codarda soldatesca aveva abbandonate al nemico, erano intanto state occupate dalle squadre de’ contafi ini, desiderosi di dare al duce francese la stessa lezione che più di duemila anni prima i padri loro avean data ai consoli Tito Venturi© e Spurio Postumio. In numero di 4,000 perseguitarono, impedirono e molestarono in mille modi il nemico; fino a che il 20 di gennajo non venne fatto al Broussier di fermarli presso Campizze e, dopo averne messi fuori di combattimento 470, disperderli e fugarli.

Nello stesso tempo vi fu anche su altri punti presso Napoli accanito combattimento. Non appena i capi del popolo conobbero i movimenti dei francesi, chiamarono le loro genti all’arme; dai forti tonò il cannone, su tutti i campanili della città e dei dintorni sonarono a stormo le campane per eccitare il popolo a combattere il nemico che si avanzava. Una grossa schiera di lazzaroni uscì con alquanti cannoni dalla città, assalì un posto francese presso i Ponti rossi, corse ad Aversa, passò il Lagno per andar contro Capua; ma il generale Poitou accorso in fretta gli attaccò così risolutamente che, abbandonati i cannoni, tornarono fuggendo in città.

La sera dello stesso giorno i patriotti di Napoli tentarono di mantener la promessa che avevan data al general francese. Una colonna sotto la cqudotta del cavaliere’ di S. Giovanni Frane. Grimaldi si ragunò sulla piazza Madonna dei sette Dolori e si avvicinò verso le 11 pomeridiane a Sant’Elmo; ma sbagliarono la parola gridando «Napoli» invece di «Partenope» per modo che furono accolti a colpi di fucile e anche di cannone. L’impresa pel momento fallì; bisognava con altro disegno e con maggior prudenza rinnovarla. Nelle prime ore del 21 una mano di patriotti fra cui Vincenzo Pignatelli di Strangoli, Vincenzo e Giuseppe Riario di Corleto, Leopoldo Poerio, Vincenzo Pignatelli di Marsico, si presentò innanzi la porta del castello, la quale dal comandante Niccolino Caracciolo di Roccaromana, che era d’intesa, fu loro aperta sotto colore che venissero a rinforzare il presidio. Luigi Brandi, ardito condottiero di 130 popolani armati, prese ombra. Ma il capitano Simeoni seppe con un pretesto mandarlo a fare una ricognizione, e intanto mise i patriotti e la gente loro nei punti più importanti del forte. Richiamato il Brandi allora dalla sua ronda, come se gli si volesse fare una comunicazione di fiducia, fu per ordine del Simeoni preso, bendato, messo in ceppi e mandato via. Della sua schiera parte fu rimandata a casa, parte dovè obbedire. Altri patriotti furono via via lasciati entrare nel castello, che in breve con tutte le sue opere, armi, cannoni e provviste d’ogni maniera fu iù piena loro balìa,, pronto ad esser ceduto ai francesi. Su proposta del Simeoni fu a questo fine formata una bandiera tricolore con una striscia bianca dell’antica bandiera, aggiuntovi un lembo di mantello turchino e un pezzo di divisa rossa, perché al momento decisivo potesse essere inalzata come segno di alleanza (57).

Si ebbe anco previdente cura di apparecchiar la città a quello che stava per succedere. Tra i prigioni del castello, liberati dai patriota, si trovava Giuseppe Logoteta, quel cospiratore di Reggio che il consiglier Di Fiore avea fatto prendere e mettere in custodia; egli profittò della riacquistata libertà per raccogliere compagni e con l’ajuto loro introdursi nel governo. Nelle ultime ore si era formato in Napoli un comitato col proposito di mantenere in certo modo l’ordine e la sicurezza nell’agitata città; ne facevano parte il principe di Canosa, il duca di Castelluccio, Ottaviano Caracciolo Cincelli, Michele Picenna, Gennaro Presti. A quel comitato i nuovi padroni di castel Sant’Elmo indirizzarono uno scritto, nel quale li chiamavano sindacabili di qualunque nuovo eccesso popolare, dichiarando che, se questo accadesse, si bombarderebbe la città e così si faciliterebbe allo Championnet l’entrata. Nella risposta che il Canosa e i compagni suoi mandarono il 21 di gennajo al castello, dovettero riconoscersi impotenti a trattenere una moltitudine di 40,000 armati, e diedero così tacitamente a intendere che conferivano ai patriotti di Sant’Elmo pieno potere di fare al momento definitivo quel che loro sembrasse opportuno.

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