Alta Terra di Lavoro

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FERDINANDO II DI BORBONE

Posted by on Ott 18, 2018

FERDINANDO II DI BORBONE

Morte di Ferdinando II

[…]. Ai 22 di maggio […] 1859, all’una e mezzo pomeridiane, consolato dai santi conforti della Religione, da lui ricevuti con quell’edificante pietà, che sempre aveva praticata in vita, il Re Ferdinando moriva […], lasciando i suoi popoli nel pianto e il giovane suo successore in una delle più difficili situazioni, in che avesse mai a trovarsi un principe nel salire al trono.

 

Ferdinando II era nato nel 1810, e non aveva ancora 50 anni, quando Dio volle toglierlo in tempi così gravi al Regno, che per quasi 30 anni aveva sapientemente governato. Molte parti ebbe il Re veramente grande, delle

quali diede luminose pruove e nell’interno ordinamento dello Stato, e nelle esterne relazioni colle Potenze. […] Sua gloria imperitura sarà sempre la nobile fermezza in faccia ai grandi Potentati europei, amoreggianti con la rivoluzione, e l’affettuosa figliale premura con cui accolse nei suoi Stati, nelle dolorose vicende del 1848, l’augusto Padre dei fedeli, il Sommo Pontefice Pio IX, il quale bel dimostrò quanto lo amasse, quando bandì in Roma pubbliche preghiere per la sua guarigione.

Ma circa codesto luttuoso fatto colmo di luttuosissime conseguenze, riportiamo una bella pagina del De Sivo nella sua storia delle due Sicilie.

“Nella vigilia dei supremi travagli d’Italia, scrive egli, Re Ferdinando, che per nome e senno poteva far argine alla piena, sentiva aggravarsi il morbo in Bari, lontano dalla Reggia, anco mancando de’ più eletti consigli dell’arte salutare. Fu da principio stimato avesse sciatica reumatica, prodotta dai freddi del viaggio; ma presto andò a miosite, che, trovato guasto il sangue, suppurò, e si stese all’anguinaia ed alla coscia, con tumori e febbri intermittenti, onde gli dettero chinino. Ciò gli irritò l’asse cerebro-spinale, e parve apoplessia e delirio, sicché accorsero con bagni e mignatte. Come si poté, menaronlo il 9 marzo, navigando 50 ore, alla Favorita (Portici); indi per la via ferrata a Caserta, ch’era il primo di Quaresima, a ore 3 ½ vespertine. Andò dalla stazione della strada alla reggia su una barella, tra la mestissima Real famiglia vestita a nero per altro suo lutto: pareva un mortorio; piangeva la popolazione benché discosta, i soldati non poteano rattenere i singhiozzi, ed ei con la voce e con la mano li confortava e salutava. Intristì; né valse, che, punto alla coscia, scaricasse copia di pus; che anzi vi uscirono più seni fistolosi, cui seguitò febbre etica, emottisi e tabe.

“Durò malato 4 mesi e otto giorni, con dolori asprissimi; sopportò amarezze di medele, punte di ferri con pazienza; ebbe il viatico a’ 12 di aprile, la estrema unzione a’ 20 maggio. — Piangendo i circostanti ed anche i soldati che teneano i cerei, disse: “Perché piangete? io non vi dimenticherò.” — E alla Regina: “Pregherò per te, per i figli, pel paese, pel Papa, pe’ sudditi amici e nemici, e per i peccatori.” Sentendosi più male, disse: “Non credeva la morte fosse sì dolce, muoio con piacere e senza rimorso.” Poi, ripigliando, aggiunse: “Non bramo già la morte come fine di sofferenze, ma per unirmi al Signore.” — La notte precedente al 22, dicendo morirebbe quel dì, ordinò egli stesso la Messa e i più minuti particolari del servizio sacro. — Ebbe la benedizione Apostolica con plenarie indulgenze, delegate per telegrafo dal Pontefice al confessore, monsignor Gallo, Arcivescovo di Patrasso. Al sentirsi mancare notò che gli si scuravano gli occhi; poco stante stese la mano alla croce dell’Arcivescovo, l’altra porse alla Regina in segno di addio, poi chinò il capo sulla mammella destra e finì. — Era la domenica 22 maggio, dopo il meriggio un’ora e dieci minuti.”

 

Testamento

Presso a morire Ferdinando II dettò il testamento cui volle scritto di mano del figlio Francesco, presente la Regina, i due più grandicelli figliuoli, Luigi e Alfonso, e Monsig. Gallo, in questi sensi:

“Raccomando a Dio l’anima mia, e chiedo perdono ai miei sudditi per qualunque mia mancanza verso di loro, e come sovrano e come uomo. Voglio che, eccetto le spettanze matrimoniali alla Regina, e gli oggetti preziosi con diamanti al mio primogenito, si facciano della mia eredità dodici uguali porzioni: vadano una alla Regina, e dieci ai miei dieci cari figli. La dodicesima a disposizione del primogenito, stabilisca Messe per l’anima mia, sussidii a’ poveri, e restauri e costruzioni di chiese nei paesetti che ne mancassero sul continente e in Sicilia. I secondogeniti entreranno in possesso compiuti gli anni trentuno; sino a qual tempo, ancorché fossero coniugati, staranno a spese della real casa. Ciascuna quota di secondogenito, sarà a vincolo di maggiorato; e ove si estingua, torni a casa reale. Delle quattro porzioni delle femmine voglio da ciascuna si tolga il terzo, il resto sia loro proprietà estradotale, con vincolo d’inalienabilità; e se maritate finissero senza figli, ritornino a casa reale. Da tai prelevati quattro terzi dono ducati 20 mila a ciascuno de’ miei quattro fratelli, Carlo, Leopoldo, Luigi e Francesco; ducati 15 mila al principe di Bisignano, e ducati 5 mila alla gente del mio servizio. Del rimanente si cresca la porzione dei maschi secondogeniti, ma disugualmente, distribuita in ragione diretta degli anni di età di ciascuno; affinché i minori di età abbiano col moltiplicamento di più anni raggiunta la porzione pari a quella dei maggiori fratelli. La villa Capossele a Mola, come bene libero, lascio al mio primogenito, al mio caro Laso (così per vezzo l’appellava). E voglio questa mia disposizione abbia forza di legge di famiglia, non soggetta a giudizio di magistrato, ma giudice unico ed arbitro ne sia il mio successore e chi lo seguirà.”

“Questa eredità privata, continua il De Sivo, era diversa dai beni di casa reale, componevasi di rendite napolitane, siciliane ed estere, oggetti preziosi valutati 60,787 ducati, 41,377 ducati trovati in oro, e altre parecchie carte di crediti su casse di difficile esazione. Tutta la eredità disponibile fu stimata 6,795,080 ducati; però ne spettarono a Francesco 566,256 e 69, ed altrettanti alla vedova Regina; 756,521 e 92 al Conte di Trani, e agli altri minori fratelli poco meno, in proporzione delle età. Le Principesse ebbero per ciascuna ducati 377,504 e 46 inalienabili, fuorché la rendita da porsi a frutto. Francesco volle entrassero nella sua porzione i valori di difficile esazione; ma la Regina vedova, gareggiando di sensi generosi, nol sofferse e ne tolse la metà nella sua parte.

“Vegga dunque il lettore quanti fossero i milioni lasciati dallo economo Ferdinando in ventinove anni di ricco regnare, risparmiati dalla sua lista civile, e da’ frutti delle doti di due mogli, moltiplicati in tanti anni. E la setta predicavali innumerevoli e rubati alla nazione! Inoltre aveva spesi due milioni per riedificare l’arsa reggia di Napoli, e altri per quelle di Caserta e Capodimonte. Coi beni di Casa reale aveva maritate le sue quattro sorelle, provveduto di maggioraschi i fratelli, ciascuno di ducati 60 mila. Sempre ospitale a Imperatori, a Re, a Papi, aveva con giusto fasto sostenuto il decoro della sua casa e del reame. Dappoi, quando la calunniatrice setta entrò in trionfo nella misera Napoli, confiscò ogni cosa alla Casa Borbone: i risparmi degli orfani, l’economie annose, le doti delle Regine e Principesse, e tutto quasi fosse cosa del regno rapito!” […]

Ferdinando II e la Rivoluzione

“Lo stato di agitazione in cui giaceva presso che tutta Europa per opera dei settarii, al momento in cui saliva al trono Re Ferdinando, fece sì che egli avesse spesso a lottare con la rivoluzione. Molte ebbe a soffocarne in ventinove anni di Regno. Nel 1831 ne scoppiava una a Palermo; un’altra scoprivasene ne 1833 in Napoli; una terza negli Abbruzzi nel 1837, e contemporaneamente a Catania, pretesto il cholera; una quarta in Aquila l’8 settembre 1841, due anni dopo una quinta in Cosenza; e poi una sesta in Reggio Calabria nel 1847; una settima, che fu la famosa congiura del 15 di maggio, e finalmente un’ottava nel 1848 in Sicilia. L’opera dei settarii essendo universale in tutta Europa, altri Stati e più potenti di Napoli, subivano eguali scosse, senza che riuscissero a domarle. Francia, Spagna, Portogallo ne andarono vittime.

Ferdinando II, in quel modo che teneva testa alle fellonie dei rivoltosi, resisteva fortemente alle prepotenze di diplomatici frammassoni. In Ispagna, essendosi con un atto arbitrario ai danni del legittimo possessore del diritto di successione al trono, cambiato l’ordine della medesima successione, il 18 di maggio 1833 protestava solennemente contro la Prammatica Sanzione del maggio 1830, — e contro qualunque atto che potesse alterare o indebolire quei principii, che finora sono stati la base del potere e della gloria di Casa Borbone.

Nel 1840 affrontava l’ira britannica, annullando il contratto della Compagnia Taix Aycard, e dichiarava: “Il trattato del 1816 non è stato violato dal contratto dei zolfi; in luogo di danni gl’Inglesi hanno ricevuto benefizii. Ho dunque per me Dio e la giustizia; sicché fido più nella forza del diritto, che nel diritto della forza.” — Quale sovrano oserebbe parlare così di questi tempi! — L’Inghilterra si vendicò poi vilmente di lui aizzandogli contro la rivoluzione; ma la gloria di Re Ferdinando non ne fu che più bella, e tra lui e l’Inghilterra giudicherà inesorabile la storia.

Abborrendo gli ordini repubblicani, che avevano in Roma spodestato il Papa, e in Francia messo quel nobile paese sull’orlo del precipizio, fece tacere Ferdinando II nel suo animo ogni altra considerazione per quanto grave e legittima, e per il primo riconobbe Luigi Napoleone, mascherato da buon cattolico per tradire la Chiesa, come in Roma si era mascherato da femmina per tradire un onesto tetto maritale […].

Governo di Ferdinando II

“Il governo del re Ferdinando II apparve fin dal primo momento preveggente e paterno. Il suo proclama degli 11 gennaio 1831 è dettato in un linguaggio franco e leale che non trova riscontro nelle storie dei nostri tempi. Il novello Re diceva, — aver voluto conoscere in tutta la nudità lo stato di situazione della tesoreria generale, e per quanto trista la si fosse, egli non ne farà mistero.. Il deficit è di ducati 4 milioni 345 mila 251. — * [Vedi l’atto sovrano. pag. 59. R. A.]

“Nel 1831 sembrava una enormezza al giovine Re di Napoli il deficit di poco più di 4 milioni di ducati. Allora a nessuno poteva venire in capo che succederebbe un’epoca, nella quale invasori, detti liberali per antifrasi, si vanterebbero di esser venuti in Italia per rigenerarla e felicitarla, facendo salire il deficit annuale a 300 MILIONI DI LIRE con un debito pubblico di oltre 6 MILIARDI!… * [Tali erano le cifre alcuni anni addietro, quando scrivevamo queste pagine; nell’anno di grazia 1882, mercé al progresso massonico, le medesime sono grandemente modificate in peggio!
— Chi parla del debito pubblico italiano, scriveva l’ottima Libertà Cattolica, 6 settembre 1882, parla di un abisso che sempre più si sprofonda; parla, come accennano i giornali inglesi, dal Times allo Statist, di una morte, lenta sì, ma certa. Pochi altri anni, se dura

l’ordine presente delle cose, e questo debito diverrà la favola del mondo.
Il Diritto, giornale davvero non sospetto, così ne scrive: “L’interesse del Debito Pubblico non arrivava a cento milioni nel 1860; e, dieci anni dopo, al 31 dicembre 1870, era salito a lire 269,388,493; al 31 dicembre 1880 alla somma di lire 433,710,345 che col debito redimibile dà una cifra superiore a 500 milioni; e capitalizzato solo in ragione del cento per 5, ci ricorda che lo Stato italiano è debitore dell’ingente capitale di otto miliardi, seicentosettantaquattro milioni, dugentoseimila, novecento; ch’è insomma il prezzo della rivoluzione italiana.”
Così scrive il giornale del Mancini. Ma non parla della china precipitosa in cui s’è messo il debito sopradetto: china da cui non vi ha mano che lo possa liberare. Senza dubbio il Diritto ha usato in questo caso la prudenza del silenzio per non spaventare se stesso e i suoi confratelli. Ma è un silenzio inutile. Chiara è la voragine di cui parliamo; tutti lo veggono; molti ne sono disperati.
Questo debito costringe a pagare presso a trecento lire annue ciascuno dei ventotto milioni di poveri italiani. È il prezzo del sangue, perché prezzo della rivoluzione. Si dice che la rivoluzione divora i suoi seguaci che sono le sue prede. Noi siam dannati a mirare la verità di sì desolante spettacolo.
Si aggiunge che il Governo né ha voglia né potere di menomarne i disastri. I suoi giornali, come la Riforma, lo confessano debolezza, esitazione, confusione.
Intanto una innumerevole falange di malanni sempre crescenti rende più gravoso questo prezzo del sangue; né vi è chi adesso apponga far rimedio. E ci desolano le dicerie, gli insulti, le contumelie delle altre nazioni, le quali deridono il nostrro stato a dispetto delle fatue cupidigie di certi mestatori che seggono a scranna per iscompigliare i nostri fatti, per annullare il nostro nome.
Siamo noi caratterizzati da taluni giornali stranieri una gente pitocca, poltra, priva di utili industrie, digiuna ed appestata da micidiali miasmi d’aria corrotta. Sono amarissimi tali rimproveri, e ci lacerano il petto come avvelenati dardi.
Certo delle nostre miserie non sono causa i moltissimi onesti e cattolici d’Italia. No, la miscredenza di cui è scritto: miseros facit populos peccatum, è la causa, il principio la radice di tante rovine. — Quale spaventevole differenza coi governi dei Principi spodestati!]

“La saggia economia che prometteva il Re nel suo proclama veniva rigorosamente osservata, e produceva frutti superiori ad ogni aspettazione. E poiché il comando allora soltanto riesce utile ed efficace quando vada accoppiato coll’esempio, il Re principia da sé stesso e dalla sua corte, scemando la lista civile di annui ducati 370 mila (real decreto 9 novembre 1830); con altro decreto dei 4 febbraio 1831 riduce alla metà lo stipendio dei ministri; diminuisce di altrettanto i bilanci della guerra e della marina; economizza annui ducati 600 mila circa sugli esiti di tutti gli altri dipartimenti governativi; e così ottiene l’annuo risparmio complessivo di un milione 241 mila 667 ducati; con che supplisce al vuoto erariale. Contemporaneamente affranca i popoli dal gravoso dazio della macinatura dei cereali; abolisce altri diversi dazii; * [Decreti dei 27 marzo 1832; — 1 settembre 1833; — 13 agosto 1847; — Vedi il testo di questo importante atto sovrano in dorso della carta alligata, pag. 59. R. A.] modifica a vantaggio del commercio la tariffa doganale, sopprimendo la sopratassa di consumazione. * [Decreto 18 aprile 1845] Ribassa i dazii sulla immissione di oltre cento dieci categorie di prodotti stranieri utili per l’industria, per l’agricoltura e per le manifatture; * [Decreti 9 e 26 marzo 1846] disgrava i soldi e le pensioni dal peso della tassa; * [Decreto 16 genn. 1836] sopprime del tutto i dazii d’esportazione su taluni prodotti indigeni; * [Decreto 17 genn. 1842] scema di molto il dazio sul tabacco estero * [Decreto 5 giugno 1846] e sui diritti di bollo alle merci estere; * [Decreto 25 detto] allevia le imposte sulla esportazione dell’olio di olive. * [Decreto 21 nov. detto] “Con poca spesa, ed in soli 4 anni, fa incanalare il famoso lago di Fucino; restituisce all’agricoltura oltre a 800 mila moggi di terreno del fertile tavoliere di Puglia, svincolandolo da pregiudizievoli consuetudini. Vantaggiosissimo poi per il popolo e non imitato da nessun Governo costituzionale, né dalle antiche o moderne repubbliche, è il decreto dei 29 settembre 1838, col quale “si rivendicano a benefizio dei comuni le usurpazioni dei prepotenti; e la divisione dei demanî comunali fra i cittadini più indigenti a norma della legge;” e con ciò, senza averne gl’inconvenienti, si attuava a pro del proletario la legge agraria, eterno sospiro della democrazia di Roma antica. Compie i ponti a filo di ferro sul Garigliano e sul Calore, primi in Italia; siccome egualmente prima in Italia è la ferrovia costruita sotto i suoi auspicii, * [Vedi R.A. pag. 30 e 31] prima e perfezionata è la navigazione a vapore.

“Così Ferdinando II ristaura la pubblica finanza, reintegra la fiducia generale, a segno da far quasi duplicare il corso dei fondi pubblici dal 68 al 118, cosa non mai più verificatasi in alcun altro paese. Soddisfatti i bisogni, compiute opere di nazionale utilità e decoro, riesce in oltre a ben bilanciare le entrate con le spese, anzi ad aumentare le prime assai al di sopra delle seconde. Il gran libro, la cassa di sconto, quella di ammortizzamento vengono così mirabilmente regolate, che il Debito pubblico napolitano per le sue operazioni e per la sicurezza raggiunge l’apice del credito europeo, ispirando incrollabile fiducia meglio dei più opulenti Stati.

“Quindi è, che bene a ragione quel sommo politico della Gran Brettagna, Sir Roberto Peel, quando da primo ministro sostenne il principio del libero scambio, ebbe a pronunziare le memorande parole: — “Io debbo dire, per rendere giustizia al Re di Napoli, di aver veduto un suo documento autografo, che racchiude principii così veri, come quelli sostenuti dai professori più illuminati di economia pubblica.”

“Del resto gli uomini più illustri ed eminenti rendevano giustizia alle reali qualità di Ferdinando II. Per non dire di cento altri, Cobden, il celebre economista Inglese, si dichiarava stupefatto dalle sue risposte sul libero scambio; l’Arciduca Carlo, portatosi a Napoli nel 1840, ne partiva innamorato della persona e delle qualità del Re, il quale produceva pure le più belle impressioni nell’animo dell’Imperatore Niccolò di Russia, quando l’ospitava nel 1847, al suo ritorno di Sicilia.

“In Napoli adunque, per confessione di amici e di nemici, floride finanze, non debiti, non aggravii, non enormezze officiali, non atrocità di delitti, non empietà; ed invece quiete nei popoli, mitezza e benignità nei governanti, abolita quasi la pena capitale dal 1851 al 1854; e ciò non ostante, il Re fa grazia a 2713 condannati per delitti politici ed a 7181 altri per reati comuni, che formano un totale di 9894 individui amnistiati: e notisi che ciò avveniva ad onta delle molte migliaia di settarii frammassoni, che da quasi un secolo travagliavano quel troppo felice paese. — Sarà forse per questo che i cospiratori subalpini chiamarono tiranno il re Ferdinando! —

“Nell’accennato periodo, come si desume da dati statistici officiali, i tribunali criminali pronunziavano 42 condanne capitali e tutte sono condonate dal Re, che ne commuta 19 coll’ergastolo, 11 con 30 anni ai ferri e 12 a pene minori. Napoli non ha conosciuto la deportazione in lontane e malsane colonie, come altri potenti stati a Botanybay, a

Lambessa, a Cajenna; e come dopo il 1861 si pratica dal Piemonte, che trascina numerose turbe d’infelici dai tiepidi climi meridionali alle rigide terre di Sardegna, e studia financo come trarne altri sulle coste africane di Mozambico.

 

Paolo Mencacci
Storia della Rivoluzione Italiana
Volume Secondo
Parte Prima — Libro Secondo
Capo IV.
(testo integrale)

1 Comment

  1. Lo confesso, io sono innamorata di Ferdinando II ! Tengo il suo ritratto in bianco e nero donatomi da un amico di Bari nella mia casa di Formia per indicarlo e parlarne a tutti quelli che ho l’occasione in incontrare… un grande Re, di grandissima umanità e illuminato quanto mai so di altri, pure che ammiro come il nostro Cecco Beppe, imperatore d’Austria…
    Sopravvissuto a due attentati, ordito da emissari di Cavour il primo, a Bari, durante un evento pubblico dove il Re rimase ferito, il secondo nel suo viaggio per ricevere la futura sposa del figlio Francesco, ad opera, questa volta e per sua stessa postuma e nascosta ammissione, dell’abate che era evidentemente suo personale e forse corrotto nemico nel monastero deve si fermò a pernottare…
    Forse era diabetico, ma, se non avesse subito nei pochi anni precedenti questi due tragici fatti, sarebbe vissuto certamente ancora il tempo necessario perché l’aggressione del Piemonte non avvenisse e capovolgesse la storia del Regno… Cavour infatti, il tessitore della trama, morì subito dopo il misfatto…e sono convinta che mai il Savoia avrebbe osato sua sponte eliminare un Re con cui era, fra l’altro, imparentato… lo dimostra la sua reticenza a scendere nel Regno…la sentiva sicuramente come un’usurpazione… infatti furono i messaggi perentori di Cavour che lo convinsero alla fine a scendere per fermare Garibaldi a Teano…
    Ma purtroppo la storia è quella che è.. ciononostante, almeno col senno di poi, dovremmo riconsiderare i tutto e possibilmente rimediare… come? dipende ora da noi. Ma è certo che l’unità d’Italia fu l’origine di un disastro infinito…
    caterina ossi

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