Ferdinando Mittiga, il brigante dell’Aspromonte

Platì è un paese, collocato ai piedi dell’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, dove nacque Ferdinando Mittiga il 23 giugno 1826 da una famiglia benestante. I genitori erano Don Francesco Mittiga, qualificato civile, e Donna Dorotea Roi. Il nome di questo brigante già compare durante i moti liberali del 1847/48, verificatisi sulla costa jonica di Bovalino e Ardore, quando venne liberato dal carcere.
Le insurrezioni di quegli anni fallirono e la repressione fu durissima, ma il Mittiga si mise a capo di una banda per portare avanti la sua lotta per la giustizia sociale e chiudere i conti con i ricchi “signori”, riscattando la povera gente da abusi e soprusi. Era un proprietario terriero (per questo motivo il suo nome lo si trova sugli atti ufficiali preceduto dal prefisso “don”, riservato a persone appartenenti al ceto elevato), che però aveva scelto di stare dalla parte degli umili e degli oppressi. Era un ex sottufficiale borbonico che con il sostegno dei vari comitati della zona era molto attivo alla causa borbonica già tra la fine del 1860 e l’inizio del 1861, razziando fucili nella zona di Gerace.
Nel febbraio del 1861 il governatore di Reggio Agostino Plutino era stato sostituito e al suo posto era stato nominato Raffaele Cassitto un ex borbonico. In quel mese la banda di Mittiga già razziava fucili nella zona di Gerace e negli atti del processo viene detto che il Mittiga fu arrestato e condotto nel carcere di Gerace nel luglio 1861 ma riuscì ad evadere dopo pochi giorni, il 26 dello stesso mese. Nel compendio al processo si aggiunge che, successivamente, arruolati altri compagni e continuando le razzie di fucili, il Mittiga aveva deciso di perseguire gli ideali politici e il 24 agosto 1861 contava sotto di sé sessanta uomini mentre agli inizi di settembre arrivò a circa cento individui. Mittiga cominciò a perseguire il legittimismo subito, iniziando a razziare fucili dall’ inizio del 1861 e ciò fa presupporre che già in quel periodo si preparava ad una impresa legittimista. Inoltre, una semplice banda di delinquenti comuni non ha interesse a ingrossarsi fino a centinaia di individui, ma cerca di farsi notare il meno possibile. Le razzie continuarono anche in agosto e all’inizio di settembre perché don Filippo Antonio Macrì, arciprete di Condojanni, nella sua testimonianza al processo racconta di aver subito una rapina nella notte del 7 settembre ad opera degli uomini di Mittiga che gli presero fucili, denaro e vino. Il governatore Cassitto, però, non aveva, forse, ben chiaro in quei giorni cosa stesse succedendo perché il 6 settembre 1861 mandò un dispaccio in cui asseriva che “la banda Mittiga è sciolta” e che il gruppo era “di circa 20 uomini”. La banda Mittiga, invece, era tutt’altro che di soli venti uomini e tutt’altro che disciolta, tanto che l’11 settembre invase Antonimina con l’obiettivo di cercare soldi e armi. Il 12 settembre 1861 il sindaco scrisse al giudice del mandamento di Gerace raccontando gli avvenimenti: Signore, mi affretto di riferire alla sua autorità, che ieri prima di far giorno una orda di briganti e dopo di aver ucciso a colpi di fucile don Filippo Codespoti di qui, pose in sacco la casa di don Stefano Pelle che si trovava assente con tutta la famiglia, quella di don Bruno Pelle, quella di don Pietro Pelle, quella di Giovabattista Fazari, di Nicola Monteleone e quella dell’ucciso Codespoti e di don Giuseppe Pelle. Disarmarono il posto di guardia invocandosi dieci fucili che gli trovarono. L’ordine publico fu costantemente disturbato tantopiù che buona parte dei popolani si asservì hai briganti e divennero al saccheggio. Ci sono alcuni elementi degni di nota in questo racconto: anzitutto il fatto che siano state rapinate solamente case di benestanti e poi il fatto che una buona parte dei paesani partecipò al saccheggio. Sembra, almeno cosi come è raccontata dal sindaco, una insurrezione per ceti: poveri contro ricchi. Vedremo in seguito se ci sono altri elementi di conflitto sociale in questi eventi. L’unica persona uccisa fu Filippo Codespoti, il capo della Guardia Nazionale, che fu fucilato nella piazza di Antonimina probabilmente per essersi opposto agli insorti. Francesca Monteleone, la moglie, quando interrogata, afferma di aver sentito molte grida di “Viva Francesco e Maria Sofia” e di essere riuscita a stento a nascondersi. Il possidente Pietro Pelle nella sua testimonianza afferma di essere fuggito dal paese non appena arrivarono i briganti e di aver sentito chiaramente “varii colpi di fucili e delle grida confuse di Viva Francesco che perdurarono per circa tre ore continue”. Al ritorno trovò la sua casa saccheggiata. Anche Don Domenico Codespoti, proprietario di 26 anni testimonia di aver sentito parecchie grida di “Viva Francesco e Maria Sofia” e pur essendo della guardia nazionale scappò e se ne stette nascosto tutto il tempo. Ugualmente fuggirono Don Bruno Pelle e Don Giovan Battista Fazzari. Nicola Monteleone quindici giorni prima aveva ricevuto una lettera con una richiesta di cinquanta piastre sotto la minaccia dell’uccisione delle vacche. Non avendo acconsentito alla richiesta gli avevano rubato una giovenca. Il giorno del saccheggio si era posto alla finestra col fucile in mano intenzionato a resistere ma aveva visto tutta la popolazione che aiutava i briganti e pensò di scappare. Giuseppe Pelle, invece rimase in paese, ma fu aggredito e preso a schiaffi sulla testa per essere condotto in casa sua e obbligato a consegnare soldi e cose preziose . In tutte queste testimonianze l’elemento comune è anzitutto che tutti gli interessati, tranne Giuseppe Pelle, fuggirono e praticamente furono svaligiate solo le case dei fuggiti. Altro elemento interessante è il fatto che quasi tutti riferiscono di aver sentito grida di “Viva Francesco e Viva Maria Sofia”. Questo è sicuramente un indizio del carattere legittimista dell’insurrezione. Sul carattere sociale della sommossa, Nicola Monteleone conferma quanto già riportato dal sindaco cioè che tutto il paese partecipò al saccheggio nelle case dei benestanti. La repressione, comunque, fu immediata e il giudice Pietro Monaco si concentrò nelle varie testimonianze nella ricerca di chi aveva partecipato all’insurrezione per favorirne l’arresto, fiaccando sul nascere altri tentativi. Dopo qualche giorno, Domenico Armeni disse di essere stato arrestato per equivoco invece del fratello, che fu la guida dei briganti, e tutti gli arrestati negarono di essere coinvolti direttamente, affermando di essere stati obbligati. In special modo il giudice si concentrò su chi aveva gridato “viva Francesco” e anche in questo caso tutti affermarono di essere stati costretti con la forza dai capi banda. Mi sembra chiara anche nell’azione del giudice la ricerca del movente politico, considerato di sicuro più pericoloso rispetto a quello di una criminalità comune. Tra le guide della banda Mittiga sono presenti sicuramente i fratelli Pugliese che hanno un fratello che è stato soldato borbonico sbandato. Maria Reale testimonia che i briganti la mattina dell’invasione la invitarono “a prendere roba dalle case dei galantuomini”. Il vicino di casa di Filippo Codispoti racconta come la figliastra di questo ebbe “l’accortezza di eludere la vigilanza dei briganti convenuti nella di lei casa, fuggire nella mia, e nascondervi la bandiera nazionale che presso di lei teneva, come oggetto prezioso”. Altri elementi degni di nota: la guida degli insorti è un ex soldato borbonico sbandatosi a seguito della battaglia del Volturno e la bandiera nazionale italiana che tenuta in casa è considerata come elemento di primo valore. Appare del tutto evidente che l’insurrezione ad Antonimina ebbe un carattere pienamente legittimista e i patrioti borbonici cercarono di attirarsi i favori della popolazione attraverso il saccheggio delle case dei ricchi possidenti e la distribuzione dei beni rubati. Chiara Varacalli vicina del Codespoti afferma che quando saccheggiarono la casa di questo, davano tutti gli oggetti ai paesani che guardavano la scena dicendo “prendete è roba vostra” e mentre facevano questa redistribuzione dei beni saccheggiati cercavano con insistenza la bandiera nazionale. Questi fatti accaduti ad Antonimina, però, si inseriscono in accadimenti di maggiore ampiezza. Infatti, il giorno dopo quanto raccontato, il 13 settembre 1861, il generale Borjes sbarcò a Bruzzano centro a circa 50 chilometri da Antonimina. Mittiga sapeva della spedizione che Borjes preparava da Malta? La notizia di un tentativo di riconquista borbonica del Regno era nota da diversi mesi, pubblicata addirittura sui giornali e lo stesso Borjes stette a Malta diverso tempo prima di sbarcare in Calabria. È dunque sicuro che il Mittiga e i comitati borbonici fossero al corrente di un tentativo legittimista. Sappiamo però dalle parole dello stesso Borjes che egli non conosceva Mittiga di cui venne a conoscenza solamente una volta sbarcato. Il Governatore aveva ricevuto il 14 settembre un’informativa da parte del Ministero, dove si avvertiva che “un gruppo 21 spagnuoli ex carlisti si erano imbarcati in Malta” ed egli mandò lo stesso giorno un dispaccio in cui scrisse che “la comitiva di Mittiga è riapparsa”. Cassitto aveva capito che il Borjes avrebbe potuto unirsi al Mittiga? È probabile, poiché egli contattò subito il ministero mettendo contemporaneamente in allerta vari settori militari. Intanto lo stesso 14 di settembre la banda Mittiga invase Condojanni, centro a circa 10 chilometri da Antonimina. Appare da subito chiaro che l’azione fu, ancora una volta, circoscritta al solo reperimento di armi e denaro evitando inutili violenze e si focalizzò esclusivamente contro le persone più importanti del paese: il sindaco, il notaio, il medico, il farmacista e i possidenti. Anche in questo caso sembra una “questione sociale”: braccianti contro galantuomini. Il farmacista del paese ci tiene a specificare che gli insorti lo chiamavano “rivoltoso” e lo accusavano di avere la bandiera nazionale in casa: ancora un indizio di come l’insurrezione fosse chiaramente anche politica. Ciò comunque, appare evidente dal fatto un paio giorni dopo il saccheggio di Condojanni, alcuni paesani diffondevano, sulla piazza di Sant’Ilario, volantini inneggianti a Francesco II: Lo stesso Cassitto appare preoccupato quando, riferendo sull’azione del Mittiga a Condojanni , afferma esplicitamente: “Se si fosse trattato di solo brigantaggio non si era di mettersi in molto pensiere ma in questo affare campeggiava lo scopo politico chiaro nello sbarco delli esteri e confirmamento dei proclami che portavano”. Il governatore aveva perfettamente capito la pericolosità che poteva avere l’unione tra Mittiga, che era sostenuto da diverse persone locali, e gli spagnoli. In quello stesso 14 settembre, infatti, Borjes si dirigeva verso Precacore, odierna Samo, arruolando circa 20 contadini, per poi raggiungere nel pomeriggio Caraffa, dove ebbe il primo scontro con la guardia nazionale e la sera recarsi dai monaci del Convento dei Riformati del SS. Crocifisso, ubicato alle porte di Bianco, che lo informarono più dettagliatamente sulla banda di Ferdinando Mittiga. Nel primo pomeriggio del 15 settembre il superiore del monastero, Padre Samuele da Siderno, diresse il Borjes verso Natile dove fu presentato al notaio Girolamo Sculli e a Francesco Violì di Platì che lo condussero in prossimità di Cirella dove era il campo del Mittiga, composto di circa 120 uomini. Cassitto però non se ne stava con le mani in mano e già il 15 settembre aveva ricevuto dal capitano della Guardia nazionale di Brancaleone l’avviso di quanto accaduto il giorno prima a Precacore e Caraffa. Senza indugio venne inviato via mare nella zona il generale De Gori, che già il 16 settembre 1861 da Messina sbarcò a Bianco e schierò le truppe per ricevere un possibile attacco nemico. Mittiga e Borjes intanto la sera del 16 si erano messi in marcia per attaccare Platì il 17 settembre. L’attacco cominciò all’alba ma a causa dell’indecisione del Mittiga e per i 100 soldati giunti il giorno prima, la comitiva alle 10.30 fu costretta a ritirarsi per rifugiarsi di nuovo sulle montagne. Pur nella fuga Mittiga ancora continuava a razziare fucili e ne requisirono diversi a Ciminà: forse nonostante la ritirata confidava ancora di poter mettere a segno altre azioni. Ormai però la mobilitazione dell’esercito italiano era generale e in molti si gettarono all’inseguimento di Mittiga e Borjes che, nonostante la pioggia torrenziale, spostarono l’accampamento verso la sommità dello Zomaro e da lì il 18 settembre entrarono verso le 11 nella Piana di Gerace. La guarnigione si era di molto assottigliata e dei 200 uomini che il giorno precedente avevano attaccato Platì, i calabresi si ritrovarono con soli cinquanta uomini mentre il resto s’era sbandato ed era tornato alle proprie case. Borjes decise di proseguire per Giffone e il Mittiga lo abbandonò, preferendo tornare sul suo territorio natio dove probabilmente si sentiva più sicuro. L’alleanza tra il generale spagnolo e i calabresi era durata appena 3 giorni, dal 15 al 18 settembre. Sul fallimento di questa unione è lo stesso Borjes a trarre alcune considerazioni. Il Mittiga da subito aveva messo in chiaro le cose, sostenendo che non avrebbe ceduto il comando della sua banda e obbligando gli spagnoli ad attaccare Platì più per una questione personale che per una reale necessità del movimento insurrezionale. Inoltre i calabresi, sebbene ben muniti di fucili, non erano che dilettanti nell’arte della guerra, male avvezzi a scontri a fuoco, dove in ballo c’era la vita. Tutto il contrario del Governatore Cassitto che invece aveva probabilmente ben chiaro come sgominare i rivoltosi e stroncare ogni futuro problema trucidando tutti, inviando da Reggio i bersaglieri del 32° battaglione del maggiore Emanuele Rossi. Questi arrivati marciando a tappe forzate già il 20 di settembre assaltarono il Convento del SS. Crocifisso di Bianco che aveva dato asilo a Borjes e non contenti di uccidere lo spagnolo ferito che ivi era stato lasciato e il Superiore, Padre Samuele da Siderno, bruciarono come rappresaglia l’intero complesso. A Sant’Agata del Bianco il Mittiga aveva sostituito da qualche tempo il sindaco Francesco Rossi con il borbonico Giuseppe Franco. Per tale motivo il maggiore Melissari andò a e prese dal suo palazzo il barone Franco, suo fratello Giuseppe Franco e suo zio sacerdote don Antonio Franco portandoli a Bianco. Qui sempre il 32° battaglione fucilò sulla pubblica piazza l’abate e riportati gli altri due a Sant’Agata fucilarono Giuseppe Franco, mentre riuscì a salvarsi il barone per intercessione della folla che gridava la sua innocenza. Un rapporto dei carabinieri di qualche giorno più tardi riferisce che il 21 settembre alle ore ventidue, lo stesso 32° battaglione fucilò 5 persone a Bovalino anche se negli atti comunali sono riportate solo quattro persone giustiziate:
1. Francesco Codespoti di Bovalino di anni 18
2. Saverio Perre di Benestare di anni 21
3. Francesco Musolino di Benestare di anni 22
4. Giuseppe Zappia di Benestare di anni 21
Ad Ardore lo stesso 21 settembre alle ore 22 da un distaccamento del 32° battaglione fu fucilato il notaio Girolamo Sculli di Bovalino ma domiciliato in Natile mentre il 23 settembre alle ore tredici fu fucilato Francesco Violi di Platì. Il 22 fu fucilata una persona a Gerace: Giuseppe Marrapodi di Casal Nuovo di Africo bracciale di anni 53. Un dispaccio dei carabinieri riferì che “il 23 sono stati fucilati a Gioiosa 4 innomati probabilmente della Banda Mittiga” e il fatto che nemmeno si sapeva il nome di chi si fucilava la dice lunga sul carattere sommario di queste esecuzioni. In realtà i fucilati a Gioiosa furono:
1. Giuseppe Antonio Ciccarello di Castelvetere bracciale di anni 70 2. Bruno Ciccarello di Castelvetere bracciale
3. Antonio Ciccarello di fu Filippo Antonio di Castelvetere bracciale
4. Ilario Ciccarello di Castelvetere
Questi fucilati a Gioiosa erano legati ai Ciccarello che nel 1847 avevano consegnato i “martiri di Gerace” alla polizia, facendoli arrestare. Viene, in questo caso, il dubbio che l’esecuzione del 1861 a Gioiosa non sia altro che una vendetta posticipata 14 anni per i fatti dei martiri di Gerace. Lo stesso 23 settembre un distaccamento del 32° bersaglieri fucilò in Sant’Ilario 8 persone accusate di far parte della banda Mittiga. Appare evidente come ormai l’appartenenza, vera o presunta, a questo gruppo di persone giustificasse qualsiasi violenza da parte dello Stato Italiano. Se l’esercito, dunque, nei giorni seguenti i saccheggi di Antonimina, Condojanni e Platì in modo solerte aveva cercato di eliminare fisicamente tutti i membri della banda, l’obbiettivo principale certamente rimaneva il capo, Ferdinando Mittiga. Questo ormai braccato, si era rifugiato in un territorio a lui noto, la campagna di Natile, ed era riuscito per molti giorni a nascondersi ed evitare di essere scoperto. Lo Stato Italiano però teneva troppo alla sua cattura e mise una taglia sulla sua testa, cosa che convinse un mugnaio, suo sodale, a tradirlo. Nella tarda serata del 29 settembre, verso le 23, Mittiga era insieme a Pasquale Luscrì di Cirella in contrada Mulino nuovo di Natile quando a un cenno del Mugnaio il tenente delle guardie di Galatro, Vincenzo Pisani, appostato in un casolare di fronte il mulino, sparò diversi colpi di fucile. Mittiga e il suo compagno, feriti si trascinarono fino ad un vicino campo di granturco, dove spirarono poco dopo. Finiva in questo modo la breve epopea della Banda Mittiga durata solamente un mese. Ci furono in seguito altri minuscoli casi di brigantaggio ma la crudele repressione del settembre 1861 aveva stroncato sul nascere qualsiasi moto insurrezionale in questa parte della Calabria che ne conservò ancora per molti anni il ricordo e il terrore.
Emerge chiaramente, da tutti questi elementi, che i moti insurrezionali e l’azione di Ferdinando Mittiga nel 1861 furono senz’altro di tipo politico – legittimista, tesi a restaurare sul trono Francesco II di Borbone. Gli uomini che formavano la banda, però, avevano anche altre motivazioni per partecipare alle insurrezioni. Il gruppo, infatti, era composto principalmente di persone di umile condizione sociale, di cui la maggior parte bracciali, e questo perché vi era nella zona malcontento delle fasce più povere di popolazione. Il fortissimo aumento demografico che aveva caratterizzato il Mezzogiorno nella prima metà del XIX secolo aveva causato una vera e propria crisi malthusiana con una diminuzione del rapporto tra risorse e popolazione e un conseguente impoverimento generale. C’è da considerare anche un fattore psicologico in cui i bracciali si sentirono traditi da Garibaldi, fautore di grandi promesse nel 1860, poiché dall’ancien regime al nuovo regno non era cambiato praticamente nulla e le famiglie locali di ricchi proprietari avevano fatto in fretta a salire sul carro dei nuovi governanti, nella migliore tradizione gattopardesca. Il conflitto che si generò nel 1861 fu dunque sia politico legittimistico sia per ceti con i più poveri dalla parte di Mittiga e Borjes e i ricchi quasi tutti dall’altra parte della barricata. Di questo ne erano ben consci i giudici del processo al gruppo di insorti, che infatti ammisero ai benefici concessi dalla Sovrana Indulgenza del 17 novembre 1863 molti imputati, sebbene poi alcuni altri furono esclusi dagli stessi, poiché i saccheggi nelle case dei ricchi e le violenze gratuite furono considerate atti di criminalità comune. Un altro elemento che accomuna molti ragazzi della banda Mittiga, poi imputati nel processo, è la renitenza alla leva: dagli atti del processo tutti quelli in età di leva dichiararono di non essere stati militari. La leva istituita dal nuovo governo unitario tra il 1860 e il 1861 fu uno dei principali motivi dei fenomeni insurrezionali poiché si erano istituite quattro classi di leva contemporaneamente e le famiglie che avevano due o tre figli maschi in età di leva si vedevano portar via le braccia necessarie al lavoro nei campi e di conseguenza le possibilità di sopravvivenza. Per questi motivi molti ragazzi preferirono aggregarsi a Mittiga, prendendo la strada della montagna, piuttosto che svolgere il servizio militare. La repressione a queste insurrezioni fu brutale. Assieme alla magistratura del tutto asservita, l’apparato poliziesco-repressivo costituì una struttura portante del nuovo regime. Nel solo settembre 1861 furono fucilate nella provincia di Reggio Calabria tra le 50 e le 100 persone senza alcun processo e spesso solo per essere sospettate di far parte della banda Mittiga. Siamo ancora lontani dalla proclamazione, da parte del governo, dello stato d’assedio nelle province meridionali, avvenuta nell’estate del 1862 e dalla promulgazione della legge 1409 del 1863, nota come legge Pica, eppure senza alcun fondamento giuridico, nel 1861 il nuovo stato italiano uccideva i suoi cittadini senza che nessuno potesse esprimere parere contrario. Anche la prigione di Reggio Calabria divenne strumento della repressione a ogni opposizione. Il processo alla Banda Mittiga, che vide imputate 256 persone poi in grossa parte dichiarate innocenti ed assolte, si concluse solamente nel 1864. Ecco cosa significò l’unità d’Italia almeno in questo periodo: la completa sospensione di ogni diritto. Ciò è normale in tempo di guerra e in questo modo dobbiamo considerare il 60-61 in Calabria: la guerra per l’unità d’Italia non si limitò dunque al solo 1860, ma incluse anche gli anni seguenti, in un susseguirsi di violenze da ambo le parti. Per concludere vorrei focalizzare il discorso su un punto in particolare: negli ultimi 15-20 anni ha preso sempre più vigore il filone letterario sulla rivalutazione del risorgimento italiano e si è passati da una sublimazione eroica dei fatti che hanno portato al processo unitario al suo esatto opposto: l’esaltazione quasi compiacente di tutte le malefatte che i piemontesi hanno realizzato nel Sud Italia. Come documentato fino a questo punto l’unità d’Italia fu realizzata anche a costo di numerose violenze gratuite, fucilazioni, incendi, soprusi e altre nefandezze, ma vorrei sottolineare che ciò non fu fatto esclusivamente dai piemontesi contro i meridionali, come spesso si afferma, ma nella maggior parte dei casi dai meridionali contro gli stessi meridionali. La repressione contro la banda Mittiga, ad esempio, fu messa in atto principalmente da uomini calabresi e del Sud Italia in genere, a testimonianza che la violenta reazione ai movimenti di insorgenza legittimista avvenuti nel Mezzogiorno italiano non fu attuata dai soli piemontesi ma per buona parte dalle stesse persone meridionali. Il governatore Raffaele Cassitto, nato a Lucera nel 1803, aveva compiuto gli studi universitari a Napoli e aveva fatto tutta la carriera da intendente nel ministero dell’interno del Regno delle Due Sicilie. Egli fu uno dei più solerti repressori dei movimenti legittimisti e mise in atto un sistematico ricorso ad arresti in massa, esecuzioni sommarie, distruzione di casolari e masserie, vaste azioni contro centri abitati. Nel 1861 fu compensato di questa sua politica con la nomina a Commendatore ed insignito della croce di Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro mentre nel luglio 1872 ebbe la nomina a Senatore del Regno. Il reggino Agostino Plutino fu dapprima governatore predecessore del Cassitto e poi, dal marzo 1861, deputato al parlamento italiano per il collegio di Melito Porto Salvo e qui confermato sino al 16 novembre 1882 quando fu nominato senatore. Antonino Plutino, fratello di Agostino, il 22 agosto 1860 fu scelto da Garibaldi come prodittatore della provincia con pieni poteri e dopo l’Unità fu nominato prefetto di Cosenza, Cremona, Cuneo e Catanzaro. Dopo il 1862 venne eletto alla Camera dei deputati del Regno d’Italia per il collegio di Cittanova. Pietro Romeo, che era stato nel 1847 tra i capi dell’insurrezione, fu ancora nel 1860 e 1861 tra i principali difensori dello Stato Italiano e in seguito deputato per il collegio di Reggio Calabria al parlamento per molte legislature. Stefano Romeo, cugino di Pietro, aveva partecipato ai moti del 1847 e alla repubblica romana del 1849 per poi andare in esilio in Turchia. A seguito della spedizione di Garibaldi fu eletto nel 1861 al primo parlamento italiano.
Come loro tantissimi altri calabresi e moltissime famiglie furono impegnate in prima linea, inizialmente nella conquista del Regno e poi nella repressione di ogni tentativo insurrezionale. È un dato di fatto che la conquista del Sud Italia non sarebbe mai stata compiuta e mantenuta, senza l’aiuto determinante che gli stessi meridionali diedero ai Savoia. In ogni paese le principali famiglie si divisero in due fazioni favorevoli ai Borbone o ai Savoia. Avrei voluto fare degli elenchi ma sarebbe davvero una lista lunghissima. La questione non riguardò però solamente i benestanti, ma finanche i ceti più umili, che furono costretti a schierarsi da una parte o dall’altra. Dobbiamo infatti considerare che buona parte del 32° battaglione dei bersaglieri si era formato nell’aprile 1861 grazie soprattutto ai ragazzi del sud richiamati come militari di leva. Furono proprio questi ragazzi del Sud che compirono il lavoro sporco, le fucilazioni contro i loro conterranei. La guerra per il Mezzogiorno fu, quindi, anche un vero e proprio caso di guerra civile: fratelli contro fratelli, calabresi contro calabresi, meridionali contro meridionali. Una guerra fratricida che andrebbe, studiata a fondo, rivalutandone il peso e l’importanza affinché i calabresi di oggi possano comprendere che molti degli attuali mali che affliggono questa bella regione derivano da profonde divisioni e incomprensioni, ancora troppo radicate, quando invece sarebbe finalmente opportuno lavorare insieme per il bene comune.
