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Fernando Arrabal, cronista del Cervantes di Alfredo Saccoccio                     

Posted by on Mag 25, 2022

Fernando Arrabal, cronista del Cervantes di Alfredo Saccoccio                     

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   Fernando Arrabal provocatore in “Uno schiavo chiamato Cervantès”, per le edizioni Plon? Fernando Arrabal fantasista ? Perché no… Che male ci sarebbe a farentrare un poco di irrazionalità in quello che non è ragionevole? Il “Don Chisciotte” per esempio, o, piuttosto, il suo creatore, Cervantès, il solo spagnolo che abbia attinto  una rinomanza  veramente universale.

Cervantès il misterioso, di cui tutti i biografi si accordano  nel dire che noi non sappiamo niente, o quasi niente, della sua vita. Niente da archivi intimi, niente da corrispondenze, niente da testimonianze di contemporanei, ma da rari scritti su lui stesso, come pure da alcuni atti notarili, che possono dar luogo a molte interpretazioni, ad espressione di tutti i fantasmi. Perché Arrabal si priverebbe di questa libertà, poiché gli storici e i ricercatori stessi ne danno spesso l’esempio ?

   Nessun ritratto autentico non più, come rivendica la copertina del libro di Arrabal, che sfoggia un’illustrazione non datata, ritratto di un uomo che sfoggia ostensibilmente la sua lunga mano sinistra e che nasconde la destra.

   “ Al “monco di Lepanto” mancava veramente un braccio ?” chiede Arrabal, il rompiscatole, pronto a dimostrare , prove in appoggio,  che Cervantès stesso afferma di “aver perduto l’uso della mano sinistra per la più grande gloria della destra” e che resterà assillato, per tutta la sua vita, per la condanna regia  del 15 settembre 1569 (egli aveva ventuno anni), dall’ “aver, con infamia pubblica, la mano destra troncata”; condanna che lo farà fuggire dalla Spagna per Roma, dove lo attendono altre avventure. “ Se mai apprendessi che la lettura di queste notizie possa indurre il lettore in qualche cattivo desiderio o pensiero, io taglierei la mano che le descrive piuttosto che pubblicarle”, annoterà , più tardi, nelle “Novelas ejemplares” (1613). “Di quale terza mano Cervantes disponeva?”, interroga Arrabal, imperturbabile.

   Quella che ha scritto Arrabal non è dunque né una biografia, né un saggio, né un romanzo. Piuttosto una prosa poetica, che, basandosi su testi assodati e di dotte opere universitarie, rivendica tutte le libertà, esprimendo, una volta di più, come nel suo teatro o nei suoi films, la sua propensione naturale a mescolare l’umorismo, l’amore, l’erotismo, l’angoscia, il “panico”.

   L’esponente del teatro dell’assurdo ha letto tutto. Il “Don Chisciotte” evidentemente, che  gli occupa lo spirito  da quando sa leggere, ma anche ha compulsato tutti gli archivi, gli innumerevoli studi universitari e non, in francese, in inglese, in spagnolo. Arrabal va per approfittare del mistero che circonda Cervantès, della sua ignoranza, e della nostra, per scompigliare alcune idee ricevute, rovesciare le statue del Comandante e del Monco. Egli richiama innanzitutto la tesi, ormai diffusa, di un Cervantès ebreo, figlio di un chirurgo, che si diceva “hidalgo”, in realtà dicendente da marrani. Egli fa poggiare tutta la vita e le avventure dello scrittore sul “peccato abominevole”, l’omosessualità, che egli sperimenterà particolarmente durante i cinque anni  della sua cattività presso il bey di Algeri e i “favoriti” che lo circondano, di cui non parla che per scandalizzarsi. Arrabal si basa su documenti per ricordare che nessuna delle sue sorelle si sposò, ma che, figlie di un modesto borghese, esse ebbero, a Madrid, una vita da “cortigiane oneste”, che anche  egli si fece passare per il padre del bambino di una di esse. Soprattutto  insiste sul fatto che Miguel ha soprattutto vissuto tutta la sua esistenza nell’ossessione di essere monco, dopo la condanna  ad aver la mano tagliata. E che alla famosa battaglia di Lepanto, contrariamente all’immagine e somiglianza del combattente valoroso, Miguel fu “preso da febbre e da vomiti”, a bordo dell’Armada cattolica del re Filippo II, restando nella stiva. Perché avrebbe dovuto essere un eroe ? Del suo braccio, non si parlò  che molto più tardi. “Io non invento niente”, disse egli. Questo libro non ha niente di stravagante. Dire che è iconoclasta porta a sostenere le teorie antiche : che egli era cattolico, eroico, che egli era conforme alla morale dell’epoca, che egli amava le donne”.

   Sempre insolente ed insolito, il romanziere iberico Arrabal si pone così in una tradizione letteraria  che ha tentato romanzieri desiderosi di torcere il collo a dei tabù, ad immagine e somiglianza degli innumerevoli esegeti di Dom Juan fino a Gabriel Garcia Marquez, che reinventa il patriota sudamericano Simon Bolivar in uno dei suoi ultimi libri, o a Alejo Carpentier, scrittore e musicologo cubano, che,  in “L’Harpe et l’Ombre”, metteva Cristoforo Colombo nel letto di  Isabella, la Cattolica, regina  di Castiglia, che aveva fornito al navigatore italiano i mezzi con cui Cristoforo Colombo aperse la via alla fondazione dell’impero coloniale spagnolo in America.

   Però è innanzitutto di sè che Arrabal vuole parlare. Della sua Spagna interiore. Quattrocento anni dopo, nel 1967, egli era stato arrestato ed incarcerato nella prigione di Carabanchel  per “ingiurie contro la patria” e per “blastemìa”, perché egli aveva scritto per una dedica a un lettore : “Me ne frego del Buon Dio, della patria e di tutto il resto”. Alla fine, egli era stato prosciolto, dato che il tribunale aveva considerato che Arrabal non aveva scritto “Patria”, ma “Patra”, il nome della sua gatta, che figura in parecchi suoi romanzi !

   Nel suo film “L’albero di Guernica” (1975), per esempio, Arrabal inventava la sua guerra di Spagna, scuoteva la cronologia, mischiando immagini di attualità a quelle della sua memoria, alla guerra che aveva vissuta.

   In “ Uno schiavo chiamato Cervantès”, Arrabal non cessa di fare andate e ritorni nel tempo e nello spazio, di regolare i suoi conti con un impero di Carlo V, “tanto vasto quanto l’ex Unione Sovietica  congiunta agli Stati Uniti, con le finanze del Messico attuale”, di mettere, fianco a fianco, vicino alle pire degli autodafé, Savonarola , il frate domenicano, impiccato ed arso vivo in piazza della Signorìa, e il cardinale e uomo politico spagnolo Francisco Jiménez de Cisneros, l’inquisitore fondatore dell’università di Alcalà de Henares.

Fernando Arrabal evoca Salvador Dalì, Pablo Picasso, André Breton, o “la cervantina Lou Salomé”, a proposito di Elisabeth di Valois (1545-1568), l’ammaliante, che seduceva Don Carlos. Arrabal ammira le donne intrepidi ed audaci della famiglia di Cervantès, come le campionesse di scacchi odierne, l’ungherese Judith Polgar, la cinese Xie Jun. Il libro cammina fino a  Lepanto e si ferma nel 1875, quando Cervantès  è prigioniero. Come in una serie TV, Arrabal annuncia un secondo tomo : “Dans les prisons d’Alger”. Odissea non meno parodistica di quella del cavaliere dalla Triste Figura, che si interroga sulla verosimiglianza della fiction.

P. S. Alla cortese attenzione del dott. Antonio Scatamacchia.

Cordiali saluti da Alfredo Saccoccio.

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