Alta Terra di Lavoro

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Forse i mali di oggi cominciarono più di due secoli fa… anche in una città periferica come Militello, Sicilia (ultima parte)

Posted by on Apr 6, 2018

Forse i mali di oggi cominciarono più di due secoli fa… anche in una città periferica come Militello, Sicilia (ultima parte)

49.        Azioni carbonare prima del 1848

Prima della rivoluzione del 1848 ci furono tanti moti falliti, promossi dal Comitato Centrale della rivoluzione.

Persino Palermo e Messina avevano superato l’antica rivalità, tanto che nel 1842, nei festeggiamenti per il ritrovamento delle reliquie di San Placido, la città dello Stretto aveva accolto fraternamente la delegazione palermitana.

Allora, come nella rivoluzione del ’20, ricominciò il gioco delle date fissate per l’insurrezione.

“Dopo una visita del marchese Livio Zambeccari” comunicò, infatti, Francesco Crispi nella riunione dell’alta vendita di Catania, “Si è deciso che Messina insorgerà il 21 agosto 1843.”

La polizia borbonica, però, si fece subito viva, per reprimere ogni intenzione ribelle.

La rivoluzione, di conseguenza, venne rimandata all’ottobre 1843 e poi al marzo 1844.

Furono arrestati alcuni liberali, come Agostino Plutino di Reggio Calabria e l’agitatore e finto fotografo siciliano Giacomo Antonini. A Cosenza morirono fucilati i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera.

Nel 1847, dunque, si era ancora al semplice gesto di gettare nella carrozza di Ferdinando II, in visita nell’isola, una  copia della Protesta del popolo delle Due Sicilie di Luigi Settembrini (con il concorso del siciliano Giovanni Raffaele).

Il 14 aprile di quello stesso anno, con il linguaggio brioso ed allusivo dell’amico Carlo Gemmellaro, anche l’ex deputato Vincenzo Natale veniva mobilitato dalla venditacarbonara di Catania:

“Che mai è avvenuto quest’anno al sig. D. Vincenzo Natale? Passò l’inverno, e in fine la primavera, e non si tratta di sentire ch’egli voglia risolversi a rivedere il suo appartamento, da dove sono venute alla luce tante belle produzioni! Assicurarsi almeno se i topi hanno risparmiato i candelieri di stagno!”

  1. Il 1847

Alla fine, il Comitato Centrale Rivoluzionario di Napoli stabilì che nel settembre 1847 insorgessero Messina e Reggio. Andò male per il mancato coordinamento dei tempi.

La rivolta divampò prima a Messina e, quando i borbonici erano già riusciti a soffocarla, fu la volta di Reggio Calabria.

Per risposta, Ferdinando ordinò lo stato d’assedio.

Fortunatamente, i tempi erano mutati. In quell’occasione i piemontesi Cesare Balbo e Camillo Benso conte di Cavour apparvero sulla scena della storia italiana, rivolgendo  al Re un’esortazione alla clemenza.

Apparentemente, il Borbone tenne duro; ma presto licenziò i ministri reazionari Del Carretto e Santangelo. Poi, fece uscire dal carcere alcuni liberali.

Non gli servì molto. La sera del 27 novembre 1847, al Teatro Carolino di Palermo festeggiarono l’insediamento della Consulta per il governo dello Stato pontificio, voluta dal papa liberale Pio IX (che non restò tale).

“Viva Pio IX! Viva la Lega italiana!” si gridò.

Le manifestazioni continuarono il 28 ed il 30 novembre nella piazza della Cattedrale, nonostante la polizia li avesse proibite.

A dicembre fu diffusa la Lettera di Malta di Francesco Ferrara, dove venivano stabiliti i due punti-chiave del programma rivoluzionario: indipendenza da Napoli e federazione italiana.

  1. Il proclama di Francesco Bagnasco

Il 9 gennaio 1848 apparve un proclama dello scultore Francesco Bagnasco:

Siciliani!

Il tempo delle preghiere inutilmente passò. Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni. Ferdinando tutto ha sprezzato; e noi, popolo nato libero, ridotto fra catene nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i leggittimi diritti?

Alle armi, figli della Sicilia! La forza di tutti è onnipotente: l’unirsi dei popoli è la caduta dei re.

Il giorno 12 gennaio 1848 segnerà l’epopea gloriosa della universale rigenerazione. Palermo accoglierà con trasporto quei siciliani armati che si presenteranno a sostegno della causa comune, a stabilire le riforme e le istituzioni conformi al progresso del secolo, volute dall’Europa, dall’Italia,, da Pio.

Unione, ordine, subordinazione ai capi, rispetto a tutte le autorità, e che il furto si dichiari tradimento alla causa della patria, e come tale sia punito.

Chi sarà mancante di mezzi sarà provveduto.

Con giusti principi, il Cielo seconderà la giustissima impresa.

Siciliani, alle armi!

Quella stessa mattina si vide un altro proclama dal titolo Ultimo avvertimento al tiranno. Il giorno dopo ne spuntò un terzo. Finalmente, il 12 i palermitani si riversarono nelle strade e uno di essi, Vincenzo Buscemi, sparò la prima fucilata.

  1. Il 1848

Il 12 gennaio 1848 in diversi punti della città di Palermo l’abate Vito Ragona, il sacerdote Luigi Venuti, Giuseppe La Masa e Paolo Paternostro incitavano alla rivolta.

Si improvvisò la prima bandiera tricolore e si distribuirono le coccarde preparate nella notte dalla sarta Santa Astorina.

La Masa redasse un proclama, si costituì il comitato rivoluzionario e si diede il via agli scontri.

Alla fine della giornata i ribelli piansero un caduto in rua Formaggi, Pietro Omodei. I borbonici, invece, contarono dieci morti, di cui non ritennero necessario tramandare i nomi.

Il maresciallo Vial ed il generale De Maio, comandanti delle truppe regie, di fronte ad un simile precipitare degli eventi, non seppero far altro che ordinare alle truppe di rientrare nei loro alloggiamenti, aspettando che la buriana passasse.

Il giorno seguente, però, a dispetto della stagione, fu ancor più caldo. Durante gli scontri, per di più, Vial e De Maio constatarono che i soldati non avevano alcuna voglia di impegnarsi troppo.

Per loro fortuna, arrivarono in soccorso da Napoli 5.000 uomini a bordo di otto vascelli da guerra, al comando del maresciallo De Sauget e del fratello del re, il conte d’Aquila.

Si prese a bombardare Palermo. Ma, la città non si arrese. Al conte d’Aquila non restò che tornare a Napoli, per fare rapporto e ricevere ulteriori ordini. A complicare le cose, per di più, nell’esercito borbonico c’erano alcune diserzioni.

Ferdinando II tentò di correre ai ripari concedendo l’autonomia alla Sicilia. Mossa inutile, visto che i buoi ormai erano scappati dalla stalla.

I siciliani, questa volta uniti e determinati a vincere, il 4 febbraio finirono di liberare l’isola dai napoletani, regalando a Giuseppe Mazzini uno dei pochi sorrisi della sua vita.

Siciliani” egli scrissevoi siete grandi!

“Voi avete, in pochi giorni fatto molto di più per l’Italia, patria nostra comune, che non tutti noi con due anni di agitazione, di concitamento generoso nel fine, ma incerto e diplomatizzante nei modi…

  1. Vincenzo Natale nel parlamento rivoluzionario

Il 25 marzo si riunì il parlamento siciliano.

Due giorni dopo, il 27, veniva conferita a Ruggiero Settimo la reggenza della Sicilia, con tutte le prerogative regali nei limiti della Costituzione siciliana del 1812.

Ai ministeri andavano: Michele Amari alle finanze, Gaetano Pisano alla giustizia ed al culto, Pietro Lanza di Scordia all’istruzione e ai lavori pubblici.

Nella seduta parlamentare del 25, inoltre, su segnalazione del deputato di Catania Gabriele Carnazza, venne chiesta la nullità dell’elezione del deputato di Aci S. Antonio perché la commissione elettorale di quel comune aveva impedito che prendessero parte al voto gli elettori di Aci Catena, che su ragioni appoggiate da un atto del Parlamento del 1814 il Comitato generale aveva ammesso alle elezioni.

Col suo intervento Carnazza mirava a recuperare un seggio, per farlo assegnare a Vincenzo Natale:

“Bisogna operare” disse ai colleghi, “a beneficio di un uomo dal glorioso passato di parlamentare, la cui dottrina ed il cui equilibrio daranno ulteriore prestigio a questa istituzione.”

La faccenda non richiese tempi lunghissimi (ma, neppure brevissimi), dato che nella seduta del 6 giugno si fece la seconda lettura della legge che facultava il comune di Aci Catena di continuare a godere del diritto di rappresentanza nel Parlamento. Il voto favorevole fu all’unanimità. Così, finalmente, arrivò l’indirizzo di Aci Catena, dove si ringraziava la camera e si dichiarava di aver scelto Natale a rappresentare la città.

  1. Le riforme

Vincenzo Natale venne ammesso nel Parlamento il 5 luglio e si distinse subito per una certa premura nel voler dare avvio alle riforme.

Il 31 luglio, per esempio, si votò lo scioglimento delle corporazioni dei gesuiti e dei liguorini. Ma, mentre parte della camera si mostrava restìa ad una loro espulsione dall’isola, Natale intervenne appassionatamente per far votare l’immediata espulsione di tutti.

Il 6 settembre ripropose il suo vecchio progetto sulla istituzione di  un Giurì, ossia dei giudici di fatto,  in tutte le materie criminali, per i delitti politici e per quelli commessi a mezzo stampa.

Era una piccola rivoluzione liberale in 37 articoli, poiché toglieva dalle mani di una chiusa corporazione, troppo spesso asservita ai potenti, il potere giudiziario.

“Il cittadino” disse, “non riposa sulla inviolabilità dei suoi diritti, se non quando è persuaso che la giustizia penale non potrà servire all’altrui vendetta, o favore, o ambizione: e questa persuasione può essere soltanto ispirata dalla istituzione dei giurati, i quali sono sottratti ad ogni influenza superiore, sono scevri da ogni spirito di corpo ed animati sempre dall’interesse comune a tutti i cittadini, cioè di protezione all’innoccente e di punizione ai malvagi.”

Vinse anche questa battaglia, dato che ottenne la costituzione di una commisione ad hoc, della quale ovviamente fu eletto membro.

Molte battaglie, ancora, furono combattute per far approvare un aumento del dazio sul vino, da tarì uno a tarì quattro, da versare al comune di Aci Catena, fino a tutto il 1849. Per questo il consiglio civico comunale gli mandò una lettera di ringraziamento.

  1. Il triste caso del tenente colonnello Lanzarotti

Natale ebbe occasione di aiutare la vedova del tenente colonello don Carmine Lanzarotti, la triste vicenda del quale fu narrata dal deputato di Siracusa, Moscuzza:

“Il 3 settembre scorso il popolo di Siracusa, saputo che il nemico era alle porte di Messina, istigato dai rancori di alcuni, credette che il Lazzarotti stesse per tradire, se già non l’aveva fatto. La situazione si volse in tragedia quando l’innoccente venne ucciso, per essersi rifiutato di far parte del Comitato di difesa. Si istruisca, quindi, e tosto, il processo, ma non si leda l’onore del popolo siracusano. Io credo che, se l’ottimo cittadino signor Lazzarotti fosse stato più accorto, quel fatto atroce non si sarebbe al certo avverato.”

“Non si può mai giustificare il linciaggio” disse il deputato Vigo Calanna di Acireale. “Soltanto  se  gli assassini saranno processati, il popolo di Siracusa serberà intatto il suo onore.”

“Al momento, però” disse Natale, “il nostro primo compito è quello di rendere giustizia ad una vedova. Il processo, poi, eventualmente chiarirà i lati bui di questa dolorosa storia. Ora propongo una pensione vedovile di dieci onze mensili a favore della signora donna Maria Lanzarotti, con l’obbligo di contribuire per tre onze al mese al mantenumento della sorella dello sfortunato tenente colonnello.”

Si votò, a quel punto, sulla proposta di Natale, che venne approvata.

Di quell’esito, la sera stessa, il militellese deputato di Aci Catena dava comunicazione all’amico Gaspare Gambino di Catania:

“Lei mi comunicò che il Lanzarotti non volle mai servire il governo borbonico e viveva della sua professione di ingegnere e che il 1842 gli fu di assoluta rovina. So che nella rivoluzione ebbe da Mariano Stabile missione in Messina, quindi fu mandato a Siracusa. Egli, perciò, fu vittima della più cruda malvagità, che seppe eccitare il furore del popolo. Il suo parente, capitano d’arme D. Giocchino Gambino, procurò di salvarlo, e in effetti lo avea salvato, mettendolo in carcere, ma col tradimento lo fecero sortire quasi subito, tanto che il Gambino si portò a chiamare la forza ed il resto fu conseguenza. Oggi ho potuto soltanto porre il riparo che si poteva alla tragedia determinata dall’irragionevolezza della folla.”

  1. Catania nel ‘48

I rapporti epistolari tra Vincenzo Natale e Gaspare Gambino erano nati dal compito che questi si era assunto di comunicargli il clima politico catanese di quei mesi.

Per esempio, l’11 settembre questi gli pennellava un quadro che tendeva al nero:

Saprà certamente lo stato delle cose in Messina. Qui tutto il popolo è in armi, anche i ragazzi corrono avanti con piccole picche, l’entusiasmo è incredibile. L’evento di Messina, lungi di portare scoraggiamento, ha portato una maggiore straordinaria energia; tutti, al suono della campana della cattedrale che suona a stormo, corrono all’armi, chi con fucili, chi con lunghe micidialissime picche. Le strade sono barricate; molte pietre sono buttate in tutte le larghe e lunghe nostre strade. La causa di tutto ciò è stata la vista di tre vapori con due fregate napoletane che si vedono in questo mare, ma fino a questo momento che son le ore 24 non si sono avvicinati, tuttoché siano fin da questa mattina a vista. Ma le squadre sono venute dai paesi di questi contorni.

Esattamente due mesi dopo, l’11 novembre, Gambino si rifaceva vivo:

Ieri fu sontuosa e magnifica la solita processione dell’Immacolata. La guardia nazionale e tutta la truppa di linea in gran tenuta marciavano dietro la bara con un contegno militare veramente ammirabile.

  1. Fine della rivoluzione

Il 12 aprile 1849 a Catania tutto finito. Ruggero Settimo ne dava il triste annuncio col solito proclama:

Siciliani!

La città di Catania è caduta dopo fiera lotta, una parte delle milizie sosteneva l’accanito combattimento, mentre l’altra marciava a soccorrerla; sventuratamente non giunse a tempo!

L’onore delle armi è salvo, il Popolo di Catania ha versato il suo tributo di sangue, il nostro esercito si ricompone, e minaccia nuove offese!

Dalle ore 13 del Venerdì Santo sino all’alba del sabato, la città fu teatro di reciproche stragi; la feroce soldatesca incrudelì contro le donne, i vecchi, i fanciulli, portando a piene mani la morte e lo incendio, violò chiese e monasteri.

Cristo vendicherà le profanazioni commesse nel giorno del suo martirio in nome del superstizioso tiranno.

Noi non parliamo più all’inesorabile Europa; parliamo a noi stessi; desideriamo soltanto che il nemico venga qui a combatterci corpo a corpo ad un fatale duello. Palermo o Ferdinando di Borbone dovranno scomparire dall’Universo!

Il 17 aprile 1849, infine, il Parlamento siciliano decretò la sua proroga al 1° agosto; ma. non si poté più riunire.

  1. Memoria del futuro ministro del Regno d’Italia Salvatore Majorana Calatabiano

Nato a Militello, da giovanissimo feci proposito di non restarvi anche perché ero addolorato dalla depressione  in che Militello era tenuto dalla famiglia Majorana Cocuzzella che mai risparmiò mezzo per signoreggiarlo.

E pure non ebbi mai a lamentare un grave e diretto contrasto con quella famiglia. Se non che nel mese di giugno 1848 si veniva ad aprire un Circolo Nazionale per incitamento di quello di Catania, e malgrado io ne avessi invitato l’attuale barone a prendervi parte, essendo un’istituzione giovevolissima per l’educazione morale e politica del popolo; quella famiglia si scatenò con tale e tanta violenza contro tutti, e segnatamente contro me, che più volte taluno di loro, e più il fu Giovanni Majorana alla testa di bravi e d’armati a spese del Comune, scorazzò, più spesso e più accanitamente che nei precedenti mesi del 1848 non avesse fatto, per le piazze e strade della città, e sotto le case particolari, offendendo in mille guise i più rispettabili e pacifici cittadini.

Ad uno di quegli insulti ed alle minacce relative è dovuta la malattia e quindi la morte del medico don Felice Laganà, giusto nel settembre 1848.

Una sera dell’agosto 1848, presso alle ore due, sono stato aggredito insieme al fu avv. Vincenzo Vecchio dai sicari di casa Cocuzzella, il fu loro cuoco Salvatore il Palermitano, e l’attuale Rosario Alimo Circello.

I sicari avevano armi da fuoco e bianche, io e il mio compagno eravamo nella via della piazza presso al Monastero S. Benedetto: sopravvenne gente e mi lasciarono; e pure continuarono le ingiurie e minacce fino alla piazza contro il povero Vecchio.

Altra volta nel 1848 nella famacia Tinnirello il Giovanni Majorana con bravi venne a fare invettive e minacce d’arresti, e quasi per un’ora tenne sequestrati me e alcuni amici che eravamo colà.

Alquanto pronunciato, precisamente nei miei scritti del 1848/9, contro la signoria borbonica, fui consigliato, al di lei ritorno in Sicilia, di non allontanarmi da Militello, dove pure mi teneva debito d’onore di non abbandonare la famiglia del mio povero defunto Laganà.

Nel 1850 divenni sposo della sua vedova e padre dell’unico suo figliuolo allora di meno di cinque anni.

  1. Salvatore Majorana Calatabiano a Militello

A differenza di Natale, Salvatore Majorana Calatabiano non aveva aristocraticismi illuministi. Era cosciente che una forza politica moderna, più che sulle idee, poggia sulla coesione del gruppo. Per questo, organizzò i suoi amici come un partito, i cui leader carismatici, oltre a lui, erano il baronello Vincenzo Reforgiato, i fratelli Cirmeni e il giovanissimo figlio del medico don Felice Laganà, Francesco Laganà Campisi. Riunitisi attorno alla parrocchia di Santa Maria, ben presto, questi si fecero conoscere come gruppo dei cavallacci, o dei comici.

Composto in prevalenza da giovani, erano uniti da un legame di natura goliardica, oltre che politica.

Fino all’Unità, essi si distinsero soprattutto per certi scherzi memorabili, come quando provocarono una vera e propria inondazione nella casa di due poveri venditori di acciughe.

Spesso e volentieri, inoltre, praticarono la rivoluzione anticipando il concetto di esproprio proletario dei moderni contestatori, cioè facendo man bassa nei vigneti e nei porcili non ben guardati.

  1. La carriera di Salvatore Majorana Calatabiano

L’ascesa politica di Salvatore Majorana Calatabiano cominciò nel 1850, dopo la laurea in giurisprudenza a Catania. Se il caldo interessamento di Vincenzo Natale, gli fu insufficiente per ottenere la cattedra di Economia all’Università di Catania, ebbe in compenso affidato un insegnamento privato di scienze sociali, esercitando al contempo l’avvocatura.

Il salto di qualità, però, lo fece nel 1860, con la nomina a delegato della Dittaturagaribaldina a Militello.

Da qui, passò alla carica di ispettore provinciale ed a quella di provveditore agli studi.

Nel 1865, poi, vinse il concorso a professore di economia politica nell’ateneo di Messina, ufficio da cui si dimise per l’elezione alla Camera nel 1866.

Restò deputato ininterrottamente fino al 1879.

Nel marzo 1876 venne, finalmente, chiamato nel governo della Sinistra di Agostino Depretis, come ministro dell’Agricoltura, dell’industria e del commerico, incarico che resse fino al dicembre 1877, quando il ministero fu soppresso.

Lo stesso ministero fu ricostituito nel 1878 ed affidato da Depretis nuovamente al Majorana, che lo resse fino al 1879.

Quello stesso anno venne, infine, nominato senatore.

La carriera politica politica non gli impedì di mantenere un prestigio intellettuale di livello nazionale. Perciò, nel settembre 1874, insieme ad un gruppo di uomini della Destra (Peruzzi, Ricasoli, Cambray-Digny, Bastogi, Busacca, Torrigiani) e della Sinistra (Ferrara, Magliani, Mancini), fondò a Firenze la Società“Adamo Smith”, che si proponeva di promuovere, sviluppare, propagare e difendere la dottrina delle libertà economiche, quali furono intese dal suo precipuo fondatore, Adamo Smith, poi svolte ed applicate dagli economisti e da’ governi che l’hanno adottata.

Come organo ufficialedell’Ente, fu fondato il settimanale ”L’Economista”, al quale, ovviamente, egli collaborò.

Morì a Roma nel 1897, capostipite di una dinastia di uomini illustri, fra i quali spiccarono i figli Angelo (che fu ministro di Giolitti) e Giuseppe (che fu deputato e rettore dell’Università di Catania) ed il nipote Ettore (il geniale scienziato misteriosamente scomparso negli anni ’30 del Novecento)

Salvatore Paolo Garufi

 

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