“Fra’ Diavolo”, un nome evocatore di sinistri ricordi di Alfredo Saccoccio
Ci sono nomi evocatori di sinistri ricordi. A pronunciare le loro sillabe, si prova un senso di spavento e vi viene un brivido di orrore. Altri, al contrario, non risvegliano che piacevoli reminiscenze. “Fra’ Diavolo” è di quelli. Un soprannome che odora di incenso e di zolfo, di inferno e di sagrestia. Di qui, la grande varietà di leggende sul conto suo: che fosse frate, apostata, chierico, che tenesse commercio col diavolo, per cui le palle nemiche non lo scalfivano neppure e anzi se ne serviva per rilanciarle così roventi contro chi gliele aveva sparate addosso.
Pronunciate questo vocabolo bizzarro ma armonioso e, subito, penserete all’opera comica di D, F. Auber, su libretto di Scribe e Delavigne, e canticchierete la sua musica.
“Fra Diavolo ou l’’hotellerie de Terracine “ è il titolo dell’opera di Daniel-François-Eprit Auber, andata in scena, per la prima volta, a Parigi il 28 gennaio del fecondo anno 1830.
Si era in piena battaglia romantica, in musica, come in letteratura. E il “Fra Diavolo” di Eugène Scribe e di Casimir Delavigne e di Auber porta il marchio della sua epoca vestendo una giacca del corpetto di velluto, con bottoni d’argento .Folti e lunghi capelli gli ingrosssano il capo selvaggio, coperto da un cappello a cono, su cui si piega un fascio di piume di cappone. Ha calzoni di velluto. Due pistole e due pugnali si vedono di traverso alla cintura , che gli chiude la vita. Un’altra correggia ad armacollo gli sostiene, alle spalle, un moschetto dalla larga canna,
Il romanticismo è la storia interpretata da un temperamento. Il librettista si era fatta un’idea particolare del pittoresco guerrigliero aurunco, che egli aveva scelto come eroe e, con il suo “Fra Diavolo”, aveva creato il tipo classico del brigante di opéra-comique. Questi è un rapinatore coraggioso, generoso, spirituale e garbato e galante cavaliere, che faceva i begli occhi a lady Pamela, dal languido sguardo. In quello che concerne “Fra Diavolo”, Scribe e Delavigne avevano sentito parlare di un convoglio che trasportava delle mogli di funzionari e di ufficiali francesi al servizio di Napoli, convoglio che era stato attaccato nel 1806, dalle parti di Terracina, e severamente raccontato da briganti. Il loro capo, un certo “Fra Diavolo”, avrebbe fatto scendere le donne dalle loro vetture, le avrebbe riunite e, il più cortesemente del mondo, con arie lusinghiere, le avrebbe pregate di consegnargli denaro e gioielli.
Ecco la leggenda con tutto quello che essa ha di romanzesco e di seducente. Scribe e Delavigne gli avevano dato la notorietà.
Per scrivere la loro opera, Scribe e Delavigne si erano documentati presso Joseph-Léopold-Sigisbert Hugo, che aveva combattuto le bande di insorgenti in questione e passava per quello che li aveva definitivamente battuti. Cosa non vera, “pur avendo –lo sostiene Francesco Barra- dato un contributo essenziale alla cattura di “Fra’ Diavolo”, volendo condividere la gloria di quelli che hanno affrontato tutti i pericoli e tutte le fatiche per uccidere o catturare tutta la sua gente. Orbene, l’Hugo non lavorava precisamente con i metodi di un archivista paleografo! Scribe e Delavigne fecero di “Fra’ Diavolo” l’avversario cavalleresco del padre di Victor-Marie Hugo, il generale Sigisbert, e, volendone onorare il vincitore, esagerarono le qualità del vinto. Scribe e Delavigne avevano dovuto certamente leggere, inoltre, le “Memorie” dello stesso generale Hugo, apparse nel 1823, che descrivono l’inseguimento (sono sguinzagliati dietro di lui 3 reggimenti di fanteria, un battaglione corso, 6 compagnie di negri del Royal Africain, 2 squadroni di cacciatori, 4 di dragoni e tutte le guardie civiche della regione) del famoso guerrigliero (maestro insuperabile ed insuperato per strategia tattica) da parte dell’allora maggiore Hugo. che fu di una lealtà generosa verso l’avversario catturato proponendo al re Joseph Bonaparte, di cui era amico, di considerare e trattare costui, a suo dire “il più famoso partigiano d’ Europa”, il più temuto avversario dell’esercito francese, non come un brigante ed un ribelle, ma quale prigioniero di guerra. Michele aveva conquistato la stima e la benevolenza dell’ Hugo, soldato serio, testardo, perseverante, di grande reputazione, per il suo coraggio e per la sua sagacia militare, segnalatosi a Caldiero, nel 1805, a capo di un reggimento, e in Spagna contro Juan Martin Diaz, meglio conosciuto come l’”Empecinado”, sconfitto in ben trentadue scontri, morto sulla forca, come il Pezza, dopo essersi battuto per il trono e per l’altare. Il Pezza chiese di essere considerato un ufficiale regolare dell’esercito, non meritevole dell’impiccagione, punibile con il plotone di esecuzione, ma gli fu negato da un processo-farsa . Il maggiore Hugo andò a trovare il Pezza in prigione. Era l’8 novembre. E gli aveva ricevuto dal re Joseph Bonaparte la missione di interrogarlo sulla maniera in cui il Pezza si procurava i sussidi, in Campania, e di ottenere i nomi dei suoi affidati,a Salerno. Celotti, che servì da interprete tra i due uomini, ha raccontato l’intervista in un opuscolo pubblicato a Napoli, nel 1817. Il maggiore Hugo, che aveva fissato il Pezza, varie volte, durante il combattimento di Boiano e che lo visitò in carcere, a Napoli, ci ha lasciato nelle “Memorie” questa descrizione :”Fra Diavolo era di piccola statura, il suo occhio era vivo e penetrante; il suo carattere fermo, qualche volta crudele; il suo spirito fine, si dice anche coltivato; bravo, attivo, intraprendente, egli univa a queste qualità quella di essere il migliore camminatore del regno”,
Orbene, bisogna confessare che la vera figura di “Fra’ Diavolo” non appartiene molto ai fatti riportati in questi ricordi. Il nostro fecondo autore di soggetti, con l’’immaginazione di cui era dotato, non aveva avuto molto bisogno di “andare alle fonti”, come si suol dire. Egli aveva fatto del suo eroe un ritratto fisico e morale che sussiste in strofe conosciute: “Vedete su quella roccia / Quel coraggioso dal’aspetto fiero e ardito; / Il suo moschetto è a lui vicino : / E’ il suo fedele amico.!. …”Guardate ! Egli si avvicina, / una piuma rossa al cappello, /e coperto dal mantello, / del velluto più bello.”
Quelli che avevano avuto personalmente a che fare con questo personaggio mezzo diabolico e mezzo sacro avevano di lui un’altra opinione e ne avevano conservato in’altra immagine.
Per il colonnello René Andriot il partigiano audace e furbo era, invece, un bandito, che ha lasciato una fama sinistra in tutti quelli che hanno vissuto a Napoli o combattuto in questo reame, nel 1799 o nel 1806. Per l’ufficiale francese, niente della sua vita giustifica la romanzesca leggenda, che prese corpo quando il Pezza fu scomparso, condannato a morte come un assassino dal Tribunale Straordinario di Napoli. Michele Pezza ebbe un difensore di fiducia, per dispaccio, l’avvocato Francesco Lauria, uno dei principi del foro napoletano, “valentissimo al suo ufficio”.
Il colonnello Castillon, aiutante di campo del generale Vallongue, scrivendo le sue memorie, molto tempo dopo questi avvenimenti, parla, nel capitolo XVI, pagina 140, di signore francesi che andavano a raggiungere i loro mariti e fermate da banditi, tra Fondi ed Itri, a cui non fu torto un capello. Si tratta, in questa narrazione, di una vera e propria gara di gentilezza tra queste dame e “Fra’ Diavolo” stesso; gara che dette origine alla leggenda di “Fra’ Diavolo”, bandito cavalleresco. Le donne passarono la notte nel quartier generale del capomassa e l’indomani furono accompagnate a Capua, dai loro mariti. Il comandante francese della piazzaforte, udito il racconto delle rapite, ringraziò il Pezza, inviandogli una lettera, che l’itrano si portò sempre dietro, anche se non gli servì a niente.
Per l’Andriot non c’è niente da prendere in considerazione di questa avventura, in cui tutto è inverosimile.
E’ ugualmente fatta allusione, nel capitolo XVI, pagina 178, delle “Memorie “ del caposquadrone Desvernois, aiutante di campo del generale Mathieu Dumas, ministro della Guerra del re Giuseppe Bonaparte, ad un altro attacco diretto contro le spose di ufficiali e di funzionari che si dirigevano verso Napoli, nell’autunno del 1806. Tuttavia, l’incidente non ha dato luogo a ben galanti conversazioni, poiché la moglie del caposquadrone, che vi assistette, credette di perdervi la vita e, giunta a Napoli, vi cadde pericolosamente malata per la paura provata nella circostanza.
Il vero “Fra’ Diavolo”, che si chiamava in realtà Michele Pezza, è una curiosa figura dell’inizio del XIX secolo, un ardente patriota, un uomo dall’incontestabile abilità, che nel corso della sua carriera restò al di sopra delle meschine questioni di danaro. Michele manifestò sempre un attaccamento ai suoi sovrani fino a morire per la loro causa, da eroe, guidato da forte spirito patriottico, con una energia feroce contro i soldati di Championnet. Alla testa di una piccola banda di insorti, galvanizzati dal suo coraggio e che accetteranno deliberatamente la sua autorità, amandolo fino all’idolatrìa, il campione della causa borbonica continuerà, nella sua sfera, a mostrarsi un capo, dall’ardente bravura e dall’indomabile volontà, a cui Maria Carolina aveva regalato un magnifico vessillo, ricamato dalla stessa regina e dalle giovani principesse. Esso era fatto di seta bianca e recava, da un lato, lo stemma dei Borbone di Napoli, con la legenda “Ai miei cari calabresi”, e , dall’ altro, una croce con l’iscrizione consacrata dai tempi del labaro di Costantino, “In hoc signo vinces”. Maria Carolina gli dette anche uno splendido anello con due smeraldi e con le sue iniziali in brillanti, conservato dal figlio del Pezza. La sovrana, che riservava al colonnello i suoi sorrisi, scrisse al capomassa una lettera datata 16 agosto 1799, annunciandogli la sua promozione a colonnello. La missiva conteneva un braccialetto intrecciato con una ciocca dei capelli della regina Per il favore che godeva “Fra’ Diavolo” in quel momento, fu definito pomposamente dal generale Roger de Damas il “Leonida napoletano”, colui che doveva impedire all’invasore il passo tra Itri e Gaeta, che conosceva così bene, dalla cui piazzaforte faceva sortite repentine, travolgenti, con movimenti in sordina, quasi sempre portanti lo scompiglio nel nemico. Una volta Michele rientrò a Gaeta carico di viveri e di provvigioni, presi da 4 legni francesi, catturati a Mola di Gaeta, l’attuale Formia, con sei barche pescherecce!
Il Pezza era un partigiano che difendeva le case, gli averi, le donne, la religione, dallo straniero invasore, che arrivava preceduto dalla più triste fama. E come si può umanamente affermare che non avessero il diritto e il dovere di fare quanto andavano facendo i partigiani? Se era legittimo l’eguale modo di agire delle “guerrrillas di Spagna sostenute da Wellington, se era legittimo quanto andava facendo Andreas Hofer, comandante dei partigiani tirolesi contro l’invasore francese, se era legittima l’azione dei contadini e dei cosacchi russi, che nelle steppe fecero altrettanto e in modo speciale durante la ritirata francese da Mosca, alla Beresina, perché solamente i montanari e i contadini del Regno delle Due Sicilie debbono ancora essere considerati “briganti” e non combattenti, difensori della propria patria, come furono considerati i loro colleghi spagnoli, russi e tirolesi?
Furono proprio i francesi a riabilitarlo e a creare la sua leggenda. In particolare, celebrato da Victor-Marie Hugo in questi termini : “Fra Diavolo personificava quel tipo che si riscontra in tutti i Paesi in preda allo straniero, il bandito legittimo in lotta con la conquista. Egli era in Italia quello che poi sono stati l”Empecinado in Spagna, Canaris in Grecia e Abd-el-Kader in Africa”, ovvero un patriota, un legittimista, un precursore della guerriglia particolare. Lo scrittore e poeta transalpino sapeva la verità e volle dirla, con onestà, riconoscendo la dignità di un soldato che si era lealmente battuto per una causa da lui riconosciuta giusta, rifiutando sdegnosamente la salvezza offertagli dal ministro di polizia, il corso Antoine Christophe Saliceti, a nome dal suo nemico Joseph Bonaparte, ammirato dalle sue imprese che gli avevano procurato tante perdite e fatto versare fiumi di sangue, a cui pareva impossibile che un “brigante”, con un pugno di disperati, tenesse in scacco il suo esercito. L’importanza che gli inglesi attribuivano al Pezza e ai loro rapporti con lui è confermata, invece, non solo dal commodoro Trowbridge, che scriveva al Ruffo: “Questo Gran Diavolo per noi è un angelo”, ma allo stesso Oratio Nelson, che,il 29 aprile 1799, riferiva a lord Spencer che “Fra’ Diavolo” era a bordo del Culloden, essendo ospite della tavola dell’ammiraglio inglese. A Palermo, il 4 gennaio 1800, fu ricevuto, con grande festa , dai sovrani, dalla Real Famiglia e da tutti i signori palermitani.
L’Europa è ingannata dallo spirito di parte, da faziosità manichea, e dalla stampa di regime, che voleva demolire la figura del Pezza facendolo apparire vigliacco di fronte alla morte, lui che era stato protagonista di straordinarie e sorprendenti imprese contro i francesi. Gli storici sereni, però, sostennero che la sua morte fu “coraggiosa e degna del suo passato”. I frati Bianchi della Giustizia, che avevano assistito spiritualmente Michele nell’impiccagione, scrissero nel Registro della Congregazione:: “l’esecuzione seguì verso l’una ed il paziente morì con segni di vero cristiano e con molta edificazione”, baciando il Crocifisso. Si era voluto confessare e comunicare, si era lavato e vestito con cura: “ Muoio per il mio re, per la mia patria” furono le sue ultime parole. Contegno coraggioso, tenace fedeltà ad un monarca ingrato, disprezzo della vita di fronte a un vincitore potente e a una carriera brillante, atteggiamento non da bandito, da criminale, ma che ha, francamente, dello stoico e dell’eroico. Michele Pezza si era sentito un po’ amareggiato non per la condanna capitale, ma perché gli si infliggeva una morte ignominiosa, quella riservata ai delinquenti. Egli avrebbe meritato un plotone di esecuzione e non la forca. Il colonnello salì sul patibolo consolando lui il boia che piangeva. Morte coraggiosa, la sua, degna del suo passato e cristianamente edificante. Michele, ricevuti i conforti religiosi, ascese con fierezza la forca. Era passato dalla vita all’eternità,comparendo dinnanzi al Giudice eterno, accompagnato da cantici vecchi di Terra di Lavoro. Fu impiccato nella malinconica piazza Mercato, a Napoli, con il brevetto di duca di Cassano, che i francesi, in segno di dileggio, gli avevano appeso al collo. Era la prima volta che “Fra’ Diavolo” ostentava in pubblico quel titolo.
Era morto un sulfureo personaggio, che passò come un tornado nelle cronache dell’epoca, grazie alle sue capacità militari, strategiche e carismatiche . La regina fece celebrare a Palermo pomposi funerali in onore del suo colonnello. Michele Pezza fu seppellito a Napoli, nella chiesa di S. Maria del Popolo, nel cortile dello Ospedale degli Incurabili. Volle morire sul patibolo per difendere l’onore e la libertà del reame di Napoli, lottando contro i falsi princìpi della rivoluzione francese, a difesa dei vecchi ordinamenti, delle antiche tradizioni e culture e soprattutto della identità religiosa e sociale, contro l’egemonia di una formula politica, ideologica e militare, imposta con le armi. Arcaico, questo contestatario? E se egli fosse piuttosto moderno? Il trentacinquenne guerrigliero lasciava una sposa poco più che ventenne e due bambini in tenerissima età. Con Michele Pezza si pongono le origini del Risorgimento politico italiano nel triennio repubblicano e nella tradizione democratica.
A Palermo la notizia fu accolta con indicibile dolore. La Corte fece celebrare solenni funerali per il Pezza, con l’intervento di tutte le autorità civili e militari e di S. Altezza , il Principe Leopoldo di Borbone. Le campane delle chiese suonarono a lutto per tre giorni, in memoria del formidabile capo di insorti, valoroso guerrigliero e abile agitatore. Su un mausoleo vennero incise lunghissime iscrizioni latine per celebrare l’uomo “strenuo, sagace, incorrotto” Ai piedi dell’urna, si legge: “Non omnis moriar”, come se si trattasse di un vate antico e di un padre della patria.
Re Joseph Bonaparte aveva fatto morire il Pezza già una volta, il 29 giugno 1806, quando gli avevano erroneamente assicurato l’impiccagione del capomassa e lui aveva, a sua volta, assicurato il preoccupato Napoleone che giustizia era fatta.
Si dice che alla notizia della morte di Michele Pezza la regina Maria Carolina scoppiasse in pianto dirotto, Queste lacrime, secondo alcuni, avvalorerebbero le insinuazioni messe in giro da libellisti dell’epoca su una relazione fra il colonnello e la sovrana, che lo chiamò, più volte, “caro buon Michele”. Certo è che questo colonnello lasciò molte “vedove”, Di bell’aspetto, dallo sguardo fiero, egli aveva avuto fama di grande Dongiovanni e i suoi amori si erano disseminati per tutta l’Italia meridionale. Il 1° dicembre 1806 Ferdinando IV di Borbone accordava alla vedova del Pezza l’assegno mensile di 100 ducati, notevolissimo per l’epoca.
In ultima analisi, possiamo dire che, per quanto scrittori parziali o prezzolati si siano sforzati di manipolare la storia a fini ideologici, alterando gli avvenimenti, dobbiamo dire che egli non compì mai una sola azione contraria alle consuetudini dei belligeranti. Nonostante le alterazioni, gli avvenimenti rimarranno con la loro forza primitiva.
Rimarrà la conquista, il 31 luglio 1799, della fortezza di Gaeta, difesa dai francesi,e la presa di Roma del 23 agosto 1799, entrando da Porta San Paolo, essendosi impadronito il Pezza dei forti di Fiumicino e di S. Michele. Il celebre “Fra’ Diavolo” penetrò nell’ Urbe gettando lo spavento nella guarnigione francese e tra i cosiddetti “patrioti”, che si chiusero in Castel S. Angelo, lasciandolo padrone della Città Santa, dalla cui fortezza evase prodigiosamente, una volta messo agli arresti. Da allora si cominciò a parlare di Michele Pezza, che si era fatto onore , grazie alla sua guerriglia “creativa”, facendo vedere i cosiddetti sorci verdi agli invasori francesi, venuti a portare, col ferro e col fuoco, la loro “libertà” alle popolazioni dell’Italia meridionale. Il mitico “Fra’ Diavolo” affrontò un’avventurosa esistenza al servizio del suo re Ferdinando di Borbone, senza titubanze, subendo la pena capitale, a soli 35 anni, lui che aveva, con fulminei colpi di mano inferto ai francesi continui smacchi e altrettante subitanee scomparse. Tattica inedita e micidiale quella dell’indomito fegataccio itrano, tattica da “Primula rossa”, che riusciva a comparire, all’improvviso, dove meno lo si aspettava. L’insurrezionista popolare combatteva vigorosamente, senza tregua, con aspra guerriglia i francesi nella doppia invasione compiuta contro Napoli nel 1799 e nel 1806. Il guerrigliero distruggeva distaccamenti isolati, catturava corrieri, tagliava ponti su fiumi e le comunicazioni nemiche da Terracina a Capua, abbatteva alberi della libertà, occupava paesi e poi spariva, alimentando così le più svariate voci sulla sua inafferrabilità, apparendo, di giorno in giorno, veramente imprendibile. Favorito dalla profonda conoscenza dei luoghi e segretamente protetto dai pastori, dai boscaioli e dai contadini, sgusciava da ogni rete, internandosi in forrre e in anfratti o inerpicandosi per sentieri assolutamente sconosciuti ai suoi inseguitori, beffandosi di loro, fucilandoli da tergo mentre essi credevano di tenerlo nel mezzo, esasperandoli in una lotta di insidie e di acrobatismi. ”Fra’ Diavolo”, davvero, in tutta l’estensione della parola.
L’ardito partigiano lottò con tutte le sue forze contro l’invasore affinché il suo sovrano fuggiasco potesse risalire sul trono abbandonato da lui stesso. Il giovanissimo capomassa di Itri diventa l’incubo dei francesi, ai quali non concede tregue, tanto che lo stesso Napoleone si induce a scrivere al fratello Joseph, esortandolo a liberarsi di quel “ribaldo”. Ma si tratta poi di un ribaldo vero e proprio, o non piuttosto di un capo partigiano, come lo definiscono taluni cronisti del tempo, costretto a lottare con tutte le armi e con tutti i mezzi contro un nemico più potente di lui?
Michele Pezza diviene un personaggio non secondario nella storia del nostro Mezzogiorno, sempre angariato e sempre alla ricerca di un definitivo riscatto.
Egli fu autore della presa del forte di Amantea, delle occupazioni di Cosenza, di Lago, di Carolei, restaurandovi l’autorità borbonica, per non parlare di Licosa, della battaglia di Maida, dove gli inglesi del generale John Stewart riportarono una sfolgorante vittoria contro i francesi del gen. Jean-Louis-Ebenezer Reynier, e dei prigionieri francesi che Michele aveva portato al governatore di Capri, il famoso Hudson Lowe. Nella sola giornata del 23 luglio 1806 furono centoventi. Per questo il Parlamento di Palermo votava un paio di pistole al Pezza.
*****
Michele Pezza, anima e fiamma della resistenza opposta agli invasori francesi
“Vita ed imprese del colonnello Michele Pezza, detto Fra’ Diavolo” è un’opera di Alfredo Saccoccio, per le Edizioni Odisseo di Itri, che ripercorre le vicende del colonnello borbonico e duca di Cassano allo Ionio Michele Pezza, anima e fiamma della resistenza opposta dalle popolazioni meridionali alle invasioni francesi, difensore del suolo patrio e delle patrie istituzioni. Per la prima volta, una vera e propria “chicca”, è il manifesto della sentenza di morte del guerrigliero itrano.
Molti critici hanno ritenuto il ponderoso libro il lavoro “maximo” dello storico aurunco, il cui sforzo è stato sorretto da scrupolosa ricerca della verità, dalla caparbia ricerca in biblioteche e in Archivi di Stato di tutta Europa di fonti mai tirate in ballo finora, da riferimenti al composito mondo dell’arte che contornano il personaggio di aloni che ne hanno trasfigurato nella positività la figura, o che hanno cercato di menomarne l’immagine con sommari giudizi negativi e con mistificazioni che hanno condannato il Pezza alla “damnatio memoriae”, lui che aveva messo tutto se stesso e le truppe a massa da lui raccolte al servizio di una causa comune : la difesa della terra e della religione avite dall’occupante francese, che entrava di prepotenza nel territorio altrui, mentre gli occupati difendevano dalla violenza dell’invasore e dei suoi fiancheggiatori le proprie tradizioni, le proprie famiglie, i propri beni, sistematicamente spoliati dagli occupanti francesi strappando opere d’arte dai luoghi di culto e dalle collezioni private delle famiglie nobili dell’”ancien régime”. Roma e tante altre città italiane furono saccheggiate dei loro più bei tesori d’arte.
Nella Città Eterna i transalpini sequestrarono, con furto massiccio e metodico, centinaia di statue romane e cinquecento manoscritti della Biblioteca Vaticana; a Venezia i francesi si impadronirono di cinquecento manoscritti della biblioteca Marciana e perfino dei cavalli bronzei di San Marco; in altre località furono preda di guerra opere di Raffaello, di Correggio, di Guercino, di Carracci, del Domenichino e di altri artisti, oltre a manoscritti di Galilei , di Leonardo da Vinci, e a codici ed incunaboli della Biblioteca Estense, dei duchi di Ferrara, della cui esistenza si ha notizia sicura fin dal 1393. Persone agiate dovettero sborsare tributi onerosi e specifiche contribuzioni a favore di ufficiali francesi. E l’elenco delle opere che presero la via della Francia potrebbe continuare all’infinito, perché “l’armata liberatrice” è un’orda di Galli rapaci, di Galli avidi di preda e di sangue, desiosi di estinguere la loro cruda fame. Letterati famosi, quali Alfieri e Monti, non erano certo favorevoli alle nuove idee d’oltralpe, alla “rivoluzione rigeneratrice”. Il poeta astigiano, come è noto, dopo una iniziale adesione ai principii del 1789 (“Parigi sbastigliata”), sfogò il suo livore antifrancese ne “Il Misogallo”, permeato di un forte astio verso il potere napoleonico, che gli impedì di accettare la nomina a membro dell’Accademia delle Scienze di Torino, mentre il traduttore dell’”Iliade”, nella “Bassvilliana”, composta in occasione dell’assassinio in Roma del diplomatico francese Hugo di Bassville, nel dicembre 1793, ebbe toni antifrancesi. Per le loro prepotenze e per le spoliazioni di opere d’arte dai luoghi di culto e dalle collezioni private delle famiglie nobili, fu creato uno sfottò riguardante tre generali francesi, mandati a Roma da Napoleone Bonaparte “E ssentite, si vvolete ride, come (parlando con poco rispetto) se chiamaveno : uno Cacò, uno Sammalò e uno Morì”. I generali erano Cacault, Saint-Malot e Maury.
Quella narrata dal Saccoccio è una storia mai raccontata e che valeva la pena di scoprire, squarciando il velo di silenzio steso da oltre duecento anni da una storiografia di retroguardia, prigioniera dei luoghi comuni della vulgata rivoluzionaria su una delle pagine più tragiche e più luminose della storia nazionale. Il volume rende finalmente onore, non solo al Pezza, ma al senso stesso della ricerca storica. L’opera resta il testo più completo, avvincente e, soprattutto, veritiero prodotto fino ad oggi sulla figura di “Fra’ Diavolo”. Grazie ad Alfredo Saccoccio, che non ha voluto fare l’avvocato del diavolo, anzi del Fra’ Diavolo”, oggi la nostra storia ha “un bandito in meno e un eroe in più”, che rifiutò, l’abiura, salendo sulla forca, raro esempio di coerenza e di fedeltà, se si pensa che San Pietro rinnegò per ben tre volte Gesù Cristo. Personaggio che dà lustro ed importanza mondiale alla sua città. In ogni caso, una grande figura di partigiano, che non piegò il collo al giogo della parte vincitrice e che credeva in qualche maniera nella nostra riscossa nazionale; un guerrigliero leale e coraggioso, che affrontò, altero, la morte, anziché tradire il suo re.
A contornare la meravigliosa opera concorre un corredo fotografico che l’autore può, a buon motivo, millantare come il non plus ultra della documentazione sulla tanto calunniata figura presa in esame, portatrice, invece, di autentici e popolari valori nazionali, oltre che di saldi sentimenti monarchici, vilipesi da scrittorelli di indubbia fede antistorica, da scribacchini che fanno spendere milioni di euro al contribuente italiano per consolidare le “puttanate” che storici prezzolati cominciarono a scrivere dalla seconda metà del Settecento in poi, forti del fatto di aver vinto ai danni delle popolazioni, per lo più inermi, delle province meridionali, che hanno dovuto subìre gli orrori dei massacri contadini da parte dell’orda assetata di sangue e di bottino, indifferente alle aspirazioni nazionali degli italiani. Per l’Italia, una vacca da mungere, le campagne napoleoniche furono peggio delle invasioni barbariche. Scribacchini diventati cattedratici per aver saputo rinnegare la propria origine e per aver saputo rinunciare alla ricerca della verità storica, rabberciando e stiracchiando a piacimento in numerose opere. Storiografia faziosa, erede della propaganda filo-giacobina interessata a dipingere il Pezza a fosche tinte, per cui ce l’ha tramandato come un sanguinario brigante, reo dei peggiori misfatti, mentre la sua vicenda umana ci racconta ben altra verità, tale da poterlo ascrivere tra gli autentici, strenui difensori del suolo patrio contro le usurpazioni straniere; un uomo che prestò la sua balda e fremente audacia ad ogni sorta di panzane e di tradizioni fiabesche, ma che, tuttavia, grandeggia sempre nella storia paesana come ferreo, indomabile denegatore di usurpazioni e di spoliazioni violente, oltre a costituire la prima manifestazione dello spirito di indipendenza dallo straniero, che rappresentava nel secolo XIX uno dei fattori ideali del nostro Risorgimento.
Dalla famosa opera di Scribe e Auber ai romanzetti popolari, dalle oleografie al vasellame da tavola, dai conventi alle galere, povero e glorioso guerrigliero, il suo nome è stato finanche umiliato sulle bottiglie dei liquori, su vasetti di crema da barba, su cerotti e su pomate! Pazienza ! E’ la disgrazia di un nome tanto suggestivo, preda di gente che ignora in maniera assoluta le gesta di chi lo portò.
Prepariamoci a edificanti sorprese. Risulta che “Fra’ Diavolo” fosse molto devoto alla Madonna della Civita, avendo deposto piedi dell’altare maggiore una lampada d’argento; che digiunasse il venerdì e non bestemmiasse quasi mai. Solo qualche rara volta, per ragioni di forza maggiore. Erano le stesse ragioni professionali, del resto, che gli impedivano di frequentare i popolosi sagrati della domenica mattina.
Alfredo Saccoccio