Fratelli Coltelli . Come si formò l’esercito Italiano dopo il 1860
Articolo sul Corriere della Sera di Giovanni Pede Che nelle Due Sicilie si potesse contravvenire ad ogni regolamento militare, purché chi lo facesse godesse di giusta fama per i suoi meriti, lo apprendiamo dalla lettura del saggio “L’Elmo di Scipio”.
Storie del Risorgimento in uniforme di Jacopo Lorenzini, pubblicato da Salerno Editore, dedicato a tre importanti figure della stagione risorgimentale, i “napoletani” Salvatore Pianell ed Enrico Cosenz, il “piemontese” Cesare Ricotti, nati rispettivamente nel 1818, 1820, 1822.
I regolamenti erano quelli della Nunziatella, la prestigiosa istituzione militare dove si formava il fior fiore dell’ufficialità borbonica, il temerario fu Mariano Ayala, giovanissimo professore di Pianell e Cosenz. Inconcepibile che questo succedesse, invece, nella scuola militare sabauda di Torino, dove si formò Cesare Ricotti, con il suo terribile classismo, dovuto alla larga prevalenza di cadetti della nobiltà tra gli alunni, ed il minor peso, la metà del tempo, dedicato alle ore di studio.
Alla fine la differenza la fece anche la quantità, perché se solo pochi frequentavano le due accademie, quella torinese ne “sfornava” molti di più, il doppio, che a Napoli. Inoltre, mentre la massa degli ufficiali duo-siciliani era volutamente di origine umile, spesso provenienti dai ranghi dei sottoufficiali, perché tutto dovessero al sovrano, l’ufficialità sardo-piemontese era in gran parte di origine nobile, e quindi comunque istruita. “Da un lato, quindi, un esercito guidato da aristocratici che diventano ufficiali per diritto di nascita, dall’altro uno governato da una casta chiusa di militari, figli e nipoti di altri militari.” scrive Lorenzini.
Nel racconto delle prime esperienze dei tre ufficiali, risulta comunque chiaro come anche nell’esercito duosiciliano i diritti di nascita pesassero, e di più per la possibilità, concessa da Francesco I durante il suo breve regno, di “comperare” il grado di capitano prima ancora dell’ingresso nell’esercito. Con la possibilità quindi di rapide carriere, per aristocratici e borgesi benestanti, in un esercito dove tradizionalmente gli avanzamenti avvenivano quasi solo per anzianità nel grado. Così fu per Pianell. Per i tre protagonisti del saggio di Lorenzini il momento della prova arrivò presto, prima dei trent’anni, ed in circostanze molto diverse. Qui il racconto del Lorenzini si fa rapido e coinvolgente, è la drammatica primavera del 1848, il maggiore Pianell si trova nella sua città, nell’occhio del ciclone durante la rivolta dei palermitani, è in prima linea nell’attacco alle barricate degli insorti e viene gravemente ferito, Ricotti fa lo stesso da parte degli austriaci durante l’assedio di Peschiera, Cosenz, come altri diserta per seguire Guglielmo Pepe a Venezia.
Tra di loro molti artiglieri, il nerbo della resistenza della citta-fortezza, presto assediata. Esperienze raccontate a colori vivaci, che delineano quelle che saranno le scelte di vita dei tre ufficiali. Per Pianell la monarchia, sola istituzione in grado di tutelare l’ordine, suoi nemici dichiarati i «molti partigiani di repubblica, ossia di anarchia, che nel caso nostro sono sinonimi». Per Cosenz, segnato per sempre dall’educazione alla libertà ricevuta da Mariano Ayala, odio per la monarchia borbonica e solidarietà agli amici Gerolamo Ulloa e Carlo Pisacane, animi inquieti condannati all’esilio in una società che a suo parere si regge sull’ipocrisia e sulla menzogna. Per Ricotti, il riscatto attraverso professionalità e merito delle sue origini borghesi, in un esercito che lui vede gestito “da dilettanti dal sangue blu”, gli stessi privilegiati in accademia. Davanti agli insuccessi dei quali, il suo giudizio è senza appello “i nostri generali si mostrarono come al solito abilissimi per seguire la cattiva via”. Cadute Venezia e Roma, riconquistata la Sicilia dai regi, le vite dei tre ormai sono segnate, a Cosenz tocca l’esilio, a Ricotti e Pianell una brillante carriera.
All’orgoglioso siciliano, divenuto nel frattempo colonnello del 1° Reggimento Re, toccherà però un incidente di percorso, una lieve punizione per futili motivi ricevuta proprio da Ferdinando II, che lo segnerà per sempre. Un peccato per l’esercito, perché l’esperienza della guerra in Sicilia gli aveva fatto toccare con mano i problemi ed i difetti dell’istituzione ed il suo carattere pratico e volitivo si era applicato a porvi rimedio. Racconta anche Lorenzini di un antico precedente, di un ordine, ineseguito, del sovrano, di interrompere il percorso di studi del giovane per mandarlo subito come capitano in un reggimento di linea, perché troppo scaltro. Di questi episodi, purtroppo, conosciamo solo la versione della famiglia Pianell, che poi se ne fece un vanto, nulla delle reazioni del ragazzo e poi dell’ufficiale, che più volte si era dimostrato ostinato al limite dell’insubordinazione (ed oltre). La sua carriera proseguì comunque senza problemi, e in occasione del matrimonio con la figlia del più ascoltato consigliere diplomatico di Ferdinando, il conte Ludolf, fu anche fatto conte. Segno indubbio di favore reale, quand’anche a denti stretti. In quello stesso anno Ricotti si faceva sempre più apprezzare per i suoi meriti in Crimea, al comando di quella batteria che spezzò l’attacco dei russi alla Cernaia ed il napoletano Cosenz pagava un amaro prezzo per le sue scelte politiche, che lo avevano avvicinato prima a Mazzini e poi, dissociandosene, a Bertani. L’anno dopo, infatti, si compie la sfortunata impresa del suo amico Pisacane, un eroico sacrificio quasi voluto, a giudicare dalle parole che aveva scritto all’amico Enrico: “se tutti facessimo il proponimento di farci ammazzare in tentativi, anche infruttuosi, anche alla spicciolata, sarebbe a parer mio, cosa più utile per la nostra povera Italia”.
All’ultimo momento, Cosenz scoprendosi ingannato da Mazzini, non parte, dando origine ad un implacabile scambio di accuse. “Rivoluzionario disciplinato, ormai conquistato alla Società Nazionale e senza grilli repubblicani per la testa”, Cosenz viene nominato tenente colonnello nel 1° Reggimento dei Cacciatori delle Alpi, nell’omonima brigata al comando di Giuseppe Garibaldi nella seconda guerra d’Indipendenza e guadagna a Garibaldi la giornata di Varese, mentre a San Martino è decisivo il fuoco dei cannoni di Ricotti, anche lui tenente colonnello. Ma l’armistizio di Villafranca, l’undici luglio, mette fine alla guerra. L’anno dopo, morto Ferdinando e successogli il giovanissimo Francesco II, Garibaldi, deluso da Cavour e dai suoi soci della Società Nazionale, riavvicinatosi a Mazzini, coglie l’attimo fuggente ed il 4 maggio parte per la Sicilia. A metà luglio Pianell viene nominato ministro della guerra nel governo costituzionale. Scrive Lorenzini: “Anche se mesi dopo scriverà che tenere assieme esercito e il paese gli era sembrata fin da subito una missione disperata, la verità è che sul momento Salvatore accetta con entusiasmo”. Pianel, tuttavia, memore anche della terribile esperienza personale del 1848, è convinto che l’isola è ormai persa, e con il Consiglio di Stato spera in una soluzione diplomatica del conflitto.
Allora lega le mani al generale Clary, a Messina, che invece riteneva di avere ancora forze sufficienti a conservare il possesso di tutta la costa fino a Milazzo ed inviava perciò una brigata a rinforzarne la guarnigione. Si susseguono ordini e contrordini, il risultato è che Garibaldi, approfittando della tregua unilaterale assicuratagli dal disordine imperante nella parte realista, attacca con forze preponderanti i Battaglioni Cacciatori del colonnello Bosco, costringendoli a rinchiudersi nella cittadella di Milazzo. La Sicilia è perduta! Nelle stesse settimane, nelle province del continente, il Ministro degli Interni, Liborio Romano, inizia l’epurazione dei vecchi funzionari al governo sostituendoli con perseguitati politici ed esuli rientrati dal Piemonte. La situazione è gravissima, Pianell se ne convince quando Don Liborio gli chiede conto della sospensione della distribuzione delle armi alla guardia nazionale di Potenza, già dichiaratasi per Garibaldi! Ma sono evidenti anche le sue responsabilità, Pianell sarà sicuramente in buona fede ma è, come al solito, pervicacemente convinto di poter gestire la situazione secondo il suo personale punto di vista.
Non tenendo però in nessun conto, fatto gravissimo, degli effetti che i disastri militari avrebbe avuto sul morale dell’esercito. Ed il Re, con la sua indecisione, né lo supporta (ma come potrebbe farlo, dato che abbandonato dai fedeli del padre, Filangieri per primo, confida ormai solo nella truppa e nella moglie) né si rivolge decisamente al partito reazionario, sbarazzandosi del governo. E così il 22 agosto, il regime costituzionale lo invita esplicitamente a farsi da parte “Che V. M. per qualche tempo si allontani dal paese e dal palazzo dei suoi antenati”. Pianell, ricevuto dal Re, gli consiglia a questo punto di affrontare Garibaldi in campo aperto, nella piana di Battipaglia o comunque di lasciare Napoli per difendersi da Capua e Gaeta. Ma il 4 di settembre si imbarca per la Francia con la moglie. Scriverà poi “«Sarei nondimeno rimasto nell’esercito, se avessi potuto prevedere la resistenza opposta poi sul Volturno e sul Garigliano, ma quando partii avevo a ragione acquistato la convinzione che il Re non contava più sulle armi proprie per difendersi». Non a ragione, ma a torto, perché l’Esercito combatté e resistette in armi fino al febbraio 1861, mentre Pianell dovette difendersi per tutta la vita dalle maldicenze. Negli anni a seguire, i tre generali rimasero al centro delle vicende militari del giovane Regno d’Italia, e fu proprio Pianell a guadagnare la maggior gloria sul campo durante la terza guerra d’Indipendenza, quando a comando di una divisione rimasta in riserva, sempre a causa delle maldicenze che lo persiguitarono, salvò dalla distruzione un intero corpo d’armata, con la difesa attiva del ponte di Monzambano sul Mincio.
Il suo contrattacco, deciso d’iniziativa nel momento di massima crisi, spezzò l’attacco austriaco, e ne arrestò la manovra avvolgente. Un decisionismo ed una capacità manovriera che al Volturno avrebbero fatto la differenza! Ricotti invece può finalmente far valere le sue idee sulla vecchia guardia piemontese, che pure l’aveva tenuto in massima considerazione portandolo alla carica di Ministro della Difesa nel 1870. Rinnova profondamente l’ordinamento militare del Regno e trasforma un piccolo esercito di soldati professionisti in un esercito di massa in senso prussiano, che mira a inquadrare il maggior numero possibile di cittadini-soldati affidandoli a un corpo ufficiali, altamente professionalizzato ma anche aperto alle forze vive della società. Alla fine del decennio successivo, i tre si ritrovano a capo dei tre principali corpi d’armata dell’Esercito, Torino ad ovest, Verona ad est e Piacenza baricentrica, in un momento storico in cui sia l’Austria che la Francia possono costituire un pericolo per il paese. Istituita nel 1881 la carica di capo di Stato Maggiore Generale, Cosenz, il primo a diventarlo, porta un contributo decisivo al progresso dello strumento militare, convinto com’è che oramai “chi dirige la guerra non può dirigere anche la battaglia”. Si dimetterà nel 1893.
L’ultimo servizio che Ricotti rende al paese, di nuovo ministro dopo la disfatta di Adua, è il commento all’assoluzione di Baratieri:“A me fa piacere sia stato assolto. Ma per quel suo rapporto sulla vigliaccheria dei soldati avrebbe dovuto essere fucilato”. Ma i tempi sono cambiati, ed Umberto I lo dimette. È l’ultimo dei tre a morire, vecchissimo, nel 1917.
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