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GAETA

Posted by on Set 27, 2024

GAETA

7 settembre 1860 – 13 febbraio 1861

Solo. A prendere decisioni che avrebbero dovuto salvare il trono dove nel 1734 si era seduto, per primo, il suo avo Carlo III. Solo, a 24 anni, a tentare di salvare il regno e il futuro della dinastia“. Solo, ma non del tutto. Aveva accanto la moglie, Maria Sofia di Baviera, sorella della leggendaria Principessa Sissi. Il 5 settembre il Re incaricò il Primo Ministro di scrivere l’annuncio della partenza per Gaeta, poi andò in girò per Napoli con la Regina, su una carrozza scoperta, con al seguito un paio di gentiluomini.

La solita passeggiata quotidiana, come se l’avanzata di quel Generale col poncho – che Re Francesco chiamava familiarmente “il nostro Don Peppino” – non avesse tolto ai Sovrani neanche un quarto d’ora di serenità, come se nulla li potesse privare del dominio di sé, neanche la più pietosa delle scene, proprio sotto i loro occhi.

Francesco II era salito al trono il 22 maggio 1859, “nel punto in cui ferve in Italia una delle più difficili crisi che abbia mai offerto la storia“, si legge nel “Fondo Borbone” dell’Archivio di Stato di Napoli (f. 1691, n. 160). Le circostanze e i tempi non gli avevano permesso di imparare il mestiere di Re, di conoscere i suoi consiglieri, di mettere a fuoco le situazioni, di acquisire la maturità necessaria a padroneggiare quella caotica fase di conflitti ideologici, politici e militari. La Costituzione, l’amnistia, il rientro degli esuli e la riforma delle istituzioni siciliane sono tutti meriti snaturati dalle contingenze, privi di efficacia. Il Regno è debole e miope. La politica estera delle Due Sicilie aveva una tradizione di stretta neutralità e l’aggressione di uno Stato straniero sfuggiva a ogni previsione. La classe politica era totalmente impreparata a una “guerra ingiusta e contro la ragione delle genti“, come Francesco l’avrebbe definita nel Proclama del 6 settembre. Ingiusta e conto la ragione, perché orfana della figura centrale che sin allora aveva sostenuto la retorica romantica e giustificato l’azione bellica: lo straniero invasore e usurpatore di una terra destinata a ritornare unita. Nelle Due Sicilie non c’erano gli Asburgo, i Lorena o gli Este. Nelle Due Sicilie regnava la dinastia dei Borbone, da 127 anni. “Non so cosa voglia dire l’indipendenza italiana” – avrebbe detto Re Francesco – “io penso soltanto all’indipendenza napoletana“.

L’alternativa tra Napoli e Torino – tra la difesa di un Regno secolare e la partecipazione alla formazione di un nuovo Stato – sfuma da scelta ideologica a calcolo di convenienza, attiva antagonismi e ambizioni personali, favorisce riallocazioni di potere e aspirazioni di carriera, mette in crisi la fedeltà alla dinastia, i legami col territorio, il sentimento di appartenenza, le tradizioni. E’ il  contrappasso alla straordinarietà di Re Ferdinando II. La continuità dinastica – l’assenza di fratture tra la scomparsa dell’antico Sovrano e l’avvento del suo successore – sconta per la prima volta incertezze e perplessità. La formula il Re è morto, lunga vita al Reil Re è morto, viva il Re – la versione aristocratica del più popolare morto un Papa se ne fa un altro – è messa sotto pressione dall’impietoso confronto tra i due Re. La sacralità costruita intorno a Ferdinando fatica a rimodularsi su Francesco. La Monarchia borbonica – privata di una figura mitizzata, che aveva accentrato tutti i volti del potere – si ritrova esposta a una perdita di fascino e mordente. La legittimità ereditata lascia il posto al consenso da conquistare, con l’audacia, il carisma, la forza. Francesco non era Ferdinando, i suoi stessi familiari – i fratelli minori e la Regina Maria Teresa – continuarono a trattarlo con sufficienza, a tenere atteggiamenti informali, e al fondo non ne riconobbero mai l’autorità. Persino la presa di potere – per lo smisurato rispetto verso Ferdinando, della famiglia reale prima, e dell’intero Regno poi – non si accompagnò subito a feste e tripudi: le celebrazioni per Re Francesco iniziarono soltanto il 24 luglio – ben tre mesi dopo la morte di Re Ferdinando – e si protrassero solo per tre giorni.

C’era tutto un corpo politico e militare fedele alla persona del Re, più che alla storia del Regno, legato alla figura del Sovrano, più che all’idea di Nazione napoletana. Gli elementi della triade Re-Esercito-Territorio – che sotto Ferdinando avevano raggiunto rispettivamente il massimo livello di legittimazione, efficienza e radicamento – non solo scontavano un calo fisiologico, ma subivano l’urto di una nuova ondata rivoluzionaria. I nemici dei Borbone avevano gioco facile nel ribaltare il significato della continuità dinastica, nell’enfatizzarne il lato speculare. Francesco II era figlio di Ferdinando II, nipote di Francesco I, pronipote di Ferdinando I, ultimo anello di una catena simbolo di una maledizione perpetua, ultimo esponente di una stirpe di vili tiranni, un “nemico giurato d’Italia, un Re che giura solo per poter spergiurare“, avrebbe detto Carlo Poerio, esule napoletano. Gli assi portanti della dinastia iniziano a sfilarsi. I rappresentati della vecchia guardia si rivelano traditori, disertori, e a loro dire rivoluzionari o patrioti. Francesco non ha fatto in tempo a conoscerli, e già se li ritrova schierati contro. Dietro i cambiamenti epocali, dietro lo stravolgimento dei regimi e delle istituzioni, ci sono pur sempre gli uomini, singoli individui, protagonisti in carne e ossa della storia, a cui le rivoluzioni offrono straordinarie e irripetibili occasioni per realizzare carriere fulminee. Perché sudarsi galloni e promozioni, se tutto poteva aversi semplicemente con un cambio di casacca e di padrone, per di più giustificato dalla più nobile delle motivazioni? Perché impegnarsi in una partita già in mano all’avversario, soprattutto se a reggere il banco era Cavour, il maggiore statista dell’epoca? Perché combattere, se tutto era già scritto, e l’alternativa era così allettante? “Ma se l’Europa non lo vuole, perché dobbiamo farci ammazzare per lui?“, si racconta protestasse un alto Ufficiale borbonico, ad agosto, riferendosi a Re Francesco. Spicca un nome su tutti: Alessandro Nunziante, uomo dei Borbone, amico intimo e consigliere storico di Re Ferdinando, consultato di continuo anche da Re Francesco. E’ la figura da esibire a Torino, come simbolo dell’implosione delle Due Sicilie, e da usare a Napoli, per far passare l’esercito borbonico dalla parte del Piemonte, prima dell’arrivo di Garibaldi. Invia le dimissioni il 2 luglio, senza ricevere risposta. Scrive una seconda lettera, due settimane dopo, col colpo a effetto: la restituzione in blocco delle onorificenze ricevute negli anni, le più prestigiose del Regno. Non può portare sul petto – dice – le decorazioni di un Governo che “confonde uomini onesti, retti e leali con quelli che meritano disprezzo“. Inviterà i suoi uomini a divenire “soldati della gloriosa patria italiana” e la moglie lascerà l’incarico di dama di corte. La perdita più grave, però, non è in un singolo nome, mai in un intero corpo militare: la Marina. “Possiamo ormai far conto sulla maggior parte dell’officialità della regia marina napoletana“, scriveva l’Ammiraglio Persano al Conte di Cavour. E ancora: “Gli Ufficiali Napoletani son pur devoti alla politica di V.E. ed a me. Conservo corrispondenza con quelli di Napoli, non compromettente, ma tale però che ce li assicura senza fallo. Mi scrivono che se si tratta di venire sotto il mio comando son pronti quando che sia“. E poi: “Gli Stati Maggiori di questa marina si possono dire tutti nostri, pochissime essendo le eccezioni“. Il vile trasformismo della Marina è oggi unanimemente riconosciuto, come apparve evidente già allora. “Rispetto alla Marina Napoletana, era impossibile riconoscere le ultime promozioni fatte da Garibaldi, ch’io non esito a qualificare scandalose” – scriveva Cavour a Vittorio Emanuele. “I contro ammiragli Vacca, Anguisolla, Scugli, ecc. erano capitani di fregata nello scorso luglio, sono di sei o dieci anni meno anziani dei nostri capitani; non si sono mai battuti, hanno navigato pochissimo; non hanno saputo né servire il loro Re, né dichiararsi per la loro patria, hanno sino all’ultimo cercato a tenersi la via aperta per approfittare degli eventi qualunque essi fossero“. Ma defezioni e tradimenti si erano avuti già in Sicilia, prima che Persano arrivasse a Napoli con armi per combattere, agenti per negoziare e denaro per corrompere. Francesco Cossovich, incapace di impedire l’arrivo delle navi garibaldine. Guglielmo Acton, con la sua ridicola opposizione allo sbarco di Marsala. Marino Caracciolo, in clamoroso ritardo nell’appoggiare il già debole contrasto ai “Mille”Amilcare Anguissola, pronto a consegnare la sua pirofregata Veloce a un imbarazzato Persano (che a sua volta la girò a Garibaldi che la ribattezzò Tuckory, il nome del soldato ungherese caduto a Palermo con le camice rosse). I fatti siciliani suscitarono sconcerto persino a Torino. “Le cose di Sicilia sono una gran lezione ai Governi” – scriveva D’Azeglio a Persano, il 28 maggio 1860 – “Pensare che quello di Napoli è arrivato a indebolirsi al punto che un uomo solo, con poche centinaia, sembra ormai sia bastato a rovesciarlo. Quel che non capirò mai (salvo aiuto inglese, o tradimento dei comandanti napoletani) è come il Re, con ventiquattro fregate a vapore non abbia potuto guardare tre o quattrocento miglia di coste. Una fregata ogni venticinque miglia faceva dalle dodici alle sedici fregate, e mai più bella occasione di servir bene. Basta: meglio così“.  Il voltafaccia delle forze di mare fu impressionante, ma altrettanto sconcertante fu l’atteggiamento delle forze di terra. La lista si apre con Paolo Ruffo, Principe di Castelcicala, luogotenente del Re in Sicilia. Inviò contro le camicie rosse soltanto la colonna del Generale Francesco Landi (anch’egli bollato col marchio di traditore, e se non lo fu nei fatti, lo rimase nella percezione diffusa: relegato a Ischia, retrocesso alla seconda classe e infine collocato in pensione). Non utilizzò la “Brigata Bonanno”, giunta da Gaeta a rinforzare le truppe. Rimase incerto, timoroso e indeciso in ogni circostanza. Re Francesco lo richiamò a Napoli dopo lo sbarco di Garibaldi, gli evitò il giudizio del tribunale, ma non gli risparmiò un giudizio personale – moralmente più pesante – di incapacità e codardia. Non lo incontrò né lo volle a Gaeta. Ferdinando Lanza sostituì il Castelcicala, su consiglio di Filangieri. Disponeva di 20.000 uomini e seppe solo asserragliarsi a difesa della capitale siciliana. Inviato anche lui a Ischia, in attesa di giudizio, fu poi assolto e messo in aspettativa, anche qui con una condanna morale di Francesco che oltrepassava ogni sentenza formale. Sarà tra i primi a recarsi a Palazzo d’Angri a ossequiare  Garibaldi, dopo la partenza del Re da Napoli. Giuseppe Letizia consigliò a Lanza di prolungare la tregua con i garibaldini, di affrettarsi a firmare la capitolazione, quando a Palermo c’erano ancora migliaia di soldati borbonici pronti a combattere. Gennaro Gonzales riuscì a perdere un’intera Brigata, prima a Messina e poi in Calabria, senza sparare un colpo. Francesco Bonanno, inviato in Sicilia in aiuto di Landi, sbarcò inspiegabilmente a Palermo anziché a Marsala, e poi, in Puglia, smarrì anche lui la sua Brigata. Il Maresciallo Filippo Flores non provò neppure a combattere e preferì sedersi subito a tavolo delle trattative col Generale garibaldino Stefano Turr. Tommaso Clary fu il principale responsabile della perdita definitiva della Sicilia, anche a causa delle infelici decisioni prese a Catania, dove i borbonici erano usciti vittoriosi, e anziché consolidare le posizioni favorevoli furono smembrati con l’invio di truppe a Messina. E poi Fileno Briganti, Nicola Melendez, Giuseppe Caldarelli, Giuseppe Ghio, tutti personaggi ambigui, in vario modo colpevoli dell’atto più ignobile: il rifiuto a combattere, l’accordo sottobanco col nemico, l’abbandono delle truppe. L’elenco della vergogna sarebbe interminabile, a volerlo esaurire. C’era una massa di imbelli e profittatori che quando fu chiaro chi fosse il vincitore “si dichiararono partigiani del nuovo ordine di cose e si sarebbero dichiarati anche sans culottes o maomettani se vi avessero trovato tornaconto” – scriverà il cappellano borbonico Giuseppe Buttà.

Possiamo gettare sale sulla ferita del tradimento e chiederci come mai il Regno Due Sicilie “avesse nei suoi quadri di vertice uomini vecchi e inoltre facilmente corruttibili o comunque pronti ad abbandonare l’ ‘amato’ sovrano“; ma sarebbe un’impostazione autoreferenziale, un voler tacere su modalità persuasive di stampo manifestamente corruttivo, un mettere in sordina il male fatto alla causa risorgimentale da una fedeltà divenuta merce di scambio; e di fronte a tradimenti e cospirazioni, a sotterfugi e manipolazioni, non può fare a meno di dare voce al pensiero dell’uomo della strada: “avrebbero agito allo stesso modo nei confronti di Re Ferdinando?“.

“Il mondo intero l’ha veduto, per non versare il sangue ho preferito rischiare la mia corona.

I traditori pagati dal mio nemico straniero sedevano accanto ai fedeli nel mio Consiglio;

ma nella sincerità del mio cuore io non potea credere al tradimento”.

(Re Francesco II delle Due Sicilie)

L’oro del Governo di Torino aveva comprato i militari di Napoli.

Francesco aveva portato poco a Gaeta. Non aveva ritirato i depositi personali, aveva lasciato intatto il tesoro dello Stato, e messo in salvo dalla Reggia solo oggetti di devozione e ricordi familiari. Il Governo italiano confiscò tutto, ma era anche pronto a una conciliazione, a restituire a Francesco il suo patrimonio, se solo Francesco avesse pubblicamente rinunciato a ogni pretesa sui territori delle ormai decadute Due Sicilie.  Francesco oppose sempre un fermo e dignitoso rifiuto. Non accettò mai di ritirarsi in cambio di un’onorevole sistemazione, anche quando stretto da condizioni economiche precarie. Ancora nel 1870, all’indomani della partenza da un agonizzante Stato Pontificio, così rispondeva al diplomatico austriaco, Barone von Hubner, che si offriva di mediare per il recupero di almeno una parte delle ricchezze: “La restituzione del mio non mi adesca. Quando si perde un trono, poco importa il patrimonio. Se l’abbia l’usurpatore o lo restituisca, né quello mi strappa un lamento, né questo un sorriso. Povero sono, come oggi tanti altri migliori di me. Il mio onore non è in vendita.

Il traditore aveva permesso la supremazia dei nemici – interni e esterni – ma aveva anche offerto le motivazioni ad agire ai lealisti borbonici, e “giammai il Regno di Napoli ricorda soldati così fedeli alla bandiera” – scriverà Cesare Morisani, un intellettuale militante – come quelli chiamati a far da controcanto ai vili e ai disertori. Chi fu obbligato a seguire le scelte opposte dei diretti comandanti – come i marinai delle navi sequestrate da Persano – espresse il suo dissenso con azioni di sabotaggio. Non si mossero le navi a cui Vincenzo Criscuolo – fedelissimo della dinastia – aveva ordinato di accompagnare il Re in partenza. Lo seguì la fregata a vela Partenope, stracarica di uomini. I capitani traditori Vacca e Vitagliano recuperano sì le loro navi, ma le trovano vuote: gli equipaggi erano scesi a terra, per raggiungere Francesco a Gaeta. La resistenza di Gaeta – fiera, orgogliosa, accanita – mirava a suscitare una reazione diplomatica all’espansionismo corsaro dei Savoia, ma si alimentava anche con la speranza di un revival del miracolo del 1799, quando un’azione lampo, supportata dal popolo, aveva riconsegnato il Regno al bisnonno di Francesco II. “Quella gloriosa e sventurata campagna del 1860-1861” – come la definì il Generale Giosuè Ritucci, comandante del fronte del Volturno, memoria storica dell’Armata delle Due Sicilie – coagulò la rabbia per la prepotenza dello straniero, il disprezzo per il tradimento dei profittatori, la lealtà delle truppe rimaste accanto alla dinastia e l’eroismo dei popolani. Nasceva il mito unificante della resistenza borbonica.  “Chi restò fino all’ultimo, fra quelle mura di sasso, rimase orgoglioso della scelta atta al punto da scriverlo sui biglietti da visita. Difficile comprendere che cosa spingesse tanta gente a combattere su quell’estremo baluardo di una guerra ormai definitivamente compromessa. Odio per il nuovo corso? Desiderio di non darla vinta ai prepotenti? Senso dell’onore? La storia, talvolta, regala atteggiamenti razionalmente incomprensibili che maturano in un clima irripetibile, esaltato, anche se appare del tutto evidente – agli stessi protagonisti – che il risultato finale non può che essere un massacro […]. I borbonici legittimisti sapevano di non avere un briciolo di speranza. Il loro atteggiamento poteva sembrare il rimasuglio di una romanticheria ottocentesca. Forse qualcuno sperava ancora nella rivolta del popolo e nella guerriglia nelle campagne, ma la maggior parte non poteva non rendersi conto che Francesco II e i brandelli di corte rimasti con lui avevano le ore contate. Viverle eroicamente era il tributo che ciascuno pagava al proprio orgoglio. […]. Francesco II e la regina Maria Sofia si comportarono con orgoglio e dignità. Lui riscattò l’immagine del mollaccione che gli era piombata addosso e lei fu donna di straordinario fascino che trascinò l’entusiasmo dei giovani nobili d’Europa. Si distinsero sugli spalti, incoraggiarono i soldati, curarono i feriti e si dichiararono comprensivi con gli uomini della guarnigione, condivisero il razionamento del cibo e, anzi, si privarono del pranzo per favorire gli abitati civili della cittadella. […]. Sembravano preparati – e forse rassegnati – al peggio e lo dimostrarono in modo quasi incurante, come fosse un dovere della regalità“.

Lorenzo Del Boca ci ricorda che gli eroi sono eroi, non perché vincono o perdono, ma perché si comportano da eroi.

I giorni di Gaeta – a prescindere dall’esito – rimangono una pagina di epica. Lontani dalle ipocrisie e dagli intrighi, in un’atmosfera irreale, tra fragore, polvere e grida, Francesco e Maria Sofia riacquistano il loro spazio e la loro gloria, costruiscono una regalità esaltante, attraverso il contatto quotidiano con i soldati, la condivisione dei pasti, la sfida alla morte, sorretti dalla semplicità delle loro abitudini di vita. “Che il nostro destino sia presto deciso o che un lungo periodo di sofferenze e di lotte ci attenda ancora, noi affronteremo la nostra sorte con docilità e senza paura, colla calma fiera e dignitosa che si conviene ai soldati; noi andremo incontro alle gioie del trionfo o alla morte dei prodi, innalzando l’antico nostro grido di Viva il Re!“: è il messaggio degli Ufficiali nella Fortezza di Gaeta, un mirabile esempio di valore militare e fedeltà politica, che riscatta l’onore dei Borbone e salva la storia delle Due Sicilie.

“Sire, in mezzo ai disgraziati avvenimenti, 
di cui la tristezza dei tempi ci à fatto spettatori afflitti ed indegnati;
noi sottoscritti, uffiziali della Guarnigione di Gaeta, veniamo, uniti in una ferma volontà,
rinnovare l’omaggio della nostra fede innanzi al vostro trono,
reso più venerabile e splendido dalla sventura.
Cingendo la spada, giurammo che la bandiera affidataci da V.M.
sarebbe difesa da noi, a costo del nostro sangue.
E’ a questo giuramento che intendiamo restar fedeli;
quali che siano le privazioni, le sofferenze e i pericoli ai quali ci chiama la voce dei nostri capi,
sacrificheremo con gioia le nostre fortune, la nostra vita e tutt’altro bene
per il successo o pei bisogni della causa comune.
Gelosi custodi di quest’onor militare che distingue solo il soldato dal bandito,
vogliamo mostrare a V.M. ed all’Europa intera
che se molti fra noi ànno col tradimento o viltà macchiato il nome dell’Armata Napolitana,
grande fu pure il numero di quelli che si sforzarono
di trasmetterlo puro e senza macchia alla posterità”.
(Messaggio degli Ufficiali a Re Francesco II,
in risposta al termine ultimo del 31 dicembre 1860
dato dal Re a chi avesse voluto lasciare Gaeta)

“Militi dell’armata di Gaeta, da dieci mesi combattete con impareggiabile coraggio.

Il tradimento interno, l’attacco della bande rivoluzionarie di stranieri,

l’aggressione di una Potenza che si diceva amica,

niente ha potuto domare la vostra bravura, stancare la vostra costanza.

In mezzo a sofferenze di ogni genere, traversando i campi di battaglia,

affrontando il tradimento, più terribile che il ferro e il piombo, siete venuti a Capua e Gaeta,

segnando il vostro eroismo sulle rive del Volturno, sulle sponde del Garigliano,

sfidando per tre mesi dentro a queste mura gli sforzi di un nemico,

che disponeva di tutte le risorse d’Italia. 

Grazie a Voi è salvo l’onore dell’Armata delle Due Sicilie;

grazie a Voi può alzar la testa con orgoglio il vostro Sovrano;

e sulla terra di esilio, in che aspetterà la giustizia del Cielo,

la memoria dell’eroica lealtà dei suoi Soldati,

sarà la più dolce consolazione delle sue sventure”.

(Re Francesco II delle Due Sicilie)

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