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Gesto di madre ad Itri, nell’ ultima guerra mondiale di Alfredo Saccoccio

Posted by on Gen 27, 2017

Gesto di madre ad Itri, nell’ ultima guerra mondiale di Alfredo Saccoccio

   Le truppe tedesche si impadronirono delle nostre belle contrade aurunche nel 1943. Ad Itri i nostri concittadini furono catturati sul secolare santuario della Madonna della Civita e, chiusi ermeticamente in camions, trasportati altrove. I deportati dovettero sopportare la fame e la sete, vivendo nella più ripugnante, stomachevole sporcizia, sempre sotto la minaccia di essere passati per le armi dai severi “guardiani”.

   Nel nostro paese ci furono anche grandi razzìe di animali.

   Le polverose strade di Itri erano ormai deserte, in quanto i pochi uomini che erano riusciti fortunatamente a sfuggire alla cattura si erano dati alla macchia sull’altopiano di Campello o a Monte Moneta.

Una profonda prostrazione spirituale aveva invaso gli animi della popolazione, rifugiatasi in casolari di campagna, in capanne e in pagliai.

   Il 12 dicembre 1943 si sentì un forte boato; tanto fumo si sprigionò e avvolse le nostre case. Una stretta al cuore fu avvertita da tutti, poiché immaginammo subito che la nostra cittadina era stata quasi rasa al suolo! Dopo alcune ore, dissoltasi la nube di fumo e di polvere, si seppe che le truppe tedesche erano andate via, cosicché, spinti dalla curiosità, tornammo ad Itri per vedere ciò che era successo.

   Per le strade incontrammo una persona sconvolta e stravolta in volto, che si era trovata sotto le macerie, aprendosi il varco tra le travi, che, in un certo modo, l’avevano salvata da sicura morte.

   L’aspetto di Itri era terrificante, spettrale: un’ampia coltre di polvere bianca avvolgeva tutte le case in una tetra caligine.

   Travi spezzate pendevano dai muri, una grande massa di vetri infranti copriva le vie. Di tanto in tanto si udiva il lamento di qualche animale rimasto sotto le macerie; lamento che diveniva sempre più flebile, man mano che l’aria da respirare veniva a mancare.

   Vicino al mulino Mancini, dove morirono 60 persone, si era accumulata una grande mole di materiale. Ogni tanto avveniva qualche crollo. Era una scena apocalittica!

   L’attacco terrestre-aereo-navale su Itri fu terribile nei giorni 13, 14, 15, 16 e 17maggio 1944, per cui i tedeschi iniziarono la ritirata, prima in maniera ordinata, poi disordinatamente, lasciando tutto ,compreso i fucili. Molti si trovarono un vestito da borghesi. Alle ore 12 del 19 maggio ancora si commbatteva, fra carri armati, nel centro di Itri. Le faticose vicissiitudini di quei giorni rivivono nelle parole di testimoni oculari. Riportiamo una testimonianza di Iolanda Trocchia, ottantasettenne: “Sotto la finestra di casa mia, si udivano raffiche di mitra. Sparate da chi? Non certo dai tedeschi. Le palle rimbalzavano sui marciapiedi della cittadina o strisciavano lungo gli zoccoli delle case: a domanda e a risposta, alternate su un tempo di ricerca o di agguato; o esplodevano in un baccano d’inferno, incrociandosi nell’aria tersa della notte di luna. Gli americani erano già in Piazza Incoronazione e distribuivano viveri, sigarette e caramelle ai popolani e ai ragazzini accorsi in ogni strada del paese, con fiaschi di vino. Si stavano ubriacando insieme,, anche perché, tra i soldati, c’erano molti italo-americani che parlavano in dialetto.

Ce n’erano alcuni altissimi, dinoccolati, con la cintura imbottita di bombe a mano e il mitra che sparava da solo. Gli statunitensi sparavano contro le retroguardie tedesche. Mia figlia Claudia Rosina, una bimbetta di cinque anni, ebbe il suo sorriso luminoso, dolcissimo, prima di rifugiarsi nelle mie braccia. L’altra mia figlioletta, Rosa, piangeva senza singhiozzare. Quella notte nessuno dormiva. Dietro alla finestra, al buio, guardai fuori e vidi alcuni soldati americani, che si muovevano sulle loro suole di gomma, altissimi sotto la luna, svelti, eleganti: sembravano tanti protagonisti di film e che la macchina da presa dovesse fotografare i loro gesti imparati dopo una lunga e minuziosa preparazione. Sparirono verso via Civita Farnese, costeggiando le case ancora all’ impiedi, come ombre.

   A quel punto, vidi arrivare un tedesco piccolo, da Piazza Annunziata, che si mise a cantare, non tanto per farsi coraggio quanto perché era ubriaco fradicio. Camminava traballando, ignaro del pericolo. Fu preso in piena luce, accanto al chiosco dei giornali. “Tocca a te, John”, disse una voce in inglese. Erano rimasti in tre, nei pressi della “Casina”. “O. K.”, rispose John, avviandosi incontro al tedesco, anche lui in piena luce, esposto. “Ti saluto, amico”, disse John e sparò senza mirare. “Non c’è più”, disse con accento pacato. “E’ caduto come un dattero sotto la palma”. Ad Itri non ci fu una lunga lotta. Alla fine, gli americani presero a cantare. Ormai i tedeschi erano in fuga. Mio marito, Giulio, con un lampo negli occhi castani, disse: “siamo liberi ormai; non ci dovremo più nascondere. Domani i nostri figli finalmente potranno giocare alla “Palestra”, se non ci saranno morti”. Era davvero passato tutto. Era la fine dell’ incubo, che durava ormai da un tempo immemorabile, Strinsi tra le mie le mani di mio marito e accompagnai i figli a letto per rimboccare le coltri a Claudia Rosina, a Rosa e ad Alfredo, di appena venti giorni, che non si sarebbero addormentati, senza un mio ultimo bacio. Discesi nel portone, mentre qualcuno era già andato a vedere il soldato morto.

   “E’ piccolo, non solo basso di statura. Sembra un bambino camuffato da soldato”, disse qualcuni. “Giulio, non uscire”, invocai. Mio marito non uscì, non tentò il Signore. Aspettò in casa che la luna tramontasse. Gli americani stettero quieti, in silenzio, tenendosi per mano, in attesa dell’alba. Poi cominciò la sfilata, anzi il corteo, degli americani lanciati all’ inseguimento dei tedeschi, su carri armati dalle gigantesche ruote di gomma.

   Caudia Rosina, Rosa ed Alfredo furono presi nel vortice di quelle ruote, buttati in un pozzo di sonno, proprio dal giro silenzioso di quelle ruote, che slittavano sull’asfalto, dissolvendo il tempo e lo spazio. Fuori campo, su uno schermo che l’alba schiariva dal di dentro,con la trasparenza di una coppa di vetro diafano, sempre più diafano, una voce di donna violentò il silenzio: “E’ finita! E’ finita! I tedeschi non tornerannoi più! Nessun tedesco sarebbe più tornato: almeno non coloro che erano macinati dalle gigantesche ruote di gomma, come granelli di polvere, ridotti in cenere e fumo. Sui marciapiedi, illuminati dal giorno, la gente lanciava fiori e parole d’amore, per ricevere in cambio caramelle, cioccolatini e sigarette. DIfficile era prenderli a volo, nel fragore di tuono delle ruote, nell’esultanza delle spinte, o nel velo delle lacrime, che, ostinate, continuavano ad imperlare gli occhi delle donne. E specialmente quelli di mia madre Elisabetta, che, a vedere le distruzioni tutt’ intorno e i fragorosi rumori, si mise le palme contro le orecchie, struggendosi in un pallore di morte. Certo, era altrettanto difficile dimenticare un passato così recente e così pieno di lutti.

   Ci sarebbe voluto molto tempo. Forse l’ intera vita non sarebbe bastata. Vidi, quel giorno, una scena di grande pietà: una donna scarmigliata portò un fiore al soldatino tedesco morto, un estremo compianto, in onore di un nemico che non reclamava alcuna pietà. La donna non poté fare a meno di deporre quel fiore ai piedi del morto, caduto ubriaco su una terra calpestata con cento e cento cuori di vittime innocenti. Gesto da madre”.

Alfredo Saccoccio

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