Giacinto De Sivo Note biografiche di Gabriele Marzocco
Giacinto de’ Sivo nacque a Maddaloni il 29 novembre 1814, da Aniello, valoroso ufficiale dell’esercito napoletano, e da Maria Rosa Di Lucia. Lo zio, Antonio, aveva fatto parte dell’armata del Cardinale Ruffo. Lì de’ Sivo visse i primi anni, nei possedimenti la Torre maggiore, il Castello e la Torre piccola, acquistati dai Carafa, antichi signori di Maddaloni. Frequentò poi, a Napoli, la scuola del marchese Basilio Puoti, maestro di lingua e di elocuzione italiana.
Nel 1840, a 26 anni, compose la prima delle sue otto tragedie, dedicata a Costantino Dracosa, ultimo imperatore di Costantinopoli. Nel 1844 sposò la contessa Costanza Gaetani dell’Aquila d’Aragona dei Duchi di Laurenzana, figlia del conte Luigi, maresciallo di campo e aiutante generale del re, dalla quale ebbe tre figli.
Nel 1847 de’ Sivo pubblica il Corrado Capece, che Antonio Tari giudicò il migliore romanzo storico di quell’epoca, eccettuati I Promessi Sposi. Nel 1848 Giacinto de’ Sivo, dopo essere stato componente della Commissione per l’istruzione pubblica, fu nominato Consigliere d’Intendenza della provincia di Terra di Lavoro, con settecento uomini ai propri ordini, e dal gennaio al maggio 1849, fu comandante di una delle quattro compagnie della Guardia Nazionale.
Scrive un’opera sulla rivoluzione del 1848-49, ma, “per non parer di percuotere i vinti e inneggiare ai vincitori”, non la pubblica e ripone il manoscritto in un nascondiglio della sua villa di Maddaloni. Scrive un’opera sulla rivoluzione del 1848-49, ma, “per non parer di percuotere i vinti e inneggiare ai vincitori”, non la pubblica e ripone il manoscritto in un nascondiglio della sua villa di Maddaloni.
Nel 1860 Giacinto de’ Sivo deve lasciare le sue tragedie storiche (l’ultima è Belisario, proprio del 1860). Una tragedia storica di proporzioni e conseguenze crudelissime si svolge sotto i suoi occhi, lo travolge: la fine di un Regno che vanta otto secoli di esistenza, la fine dell’indipendenza della Patria napoletana.
Nell’intraprendere la narrazione delle vicende che portarono alla caduta del Regno delle Due Sicilie, de’ Sivo confessa: II cuore sanguina, la mente si prostra, e l’animo angosciato quasi quasi rilutta contro la volontà del Signore, che tanta ignominia e infelicità permise che insozzasse la già lieta patria nostra”‘.
Segue, per quasi cinquecento pagine, un lungo elenco di vergognosi tradimenti, incomprensibili indecisioni, scelte funeste, eroismi dimenticati, anzi ignorati, paesi grandi e piccoli messi a ferro e a fuoco per essere rimasti fedeli al loro Re.
“Si voleva usurpare la monarchia, e s’è percossa la nazione; si voleva abbattere un re, e si sono spenti 100 mila sudditi”.
Il 6 settembre Francesco II lascia Napoli, “perché non le fosse arrecato danno… ” II 14 dello stesso mese una brigata garibaldina entra in Maddaloni. De’ Sivo si rifiuta di andare a Napoli a rendere omaggio a Garibaldi e viene destituito dalla carica di Consigliere.
La sera del 14, dopo che la sua villa è stata circondata da centinaia di uomini armati, viene condotto a Napoli con apposito convoglio ferroviario. Mentre il pericoloso letterato è tenuto prigioniero a Napoli, la sua casa è occupata per tre mesi da Bixio, poi da Avezzana, infine da Carbonella Rovistano dappertutto, i liberatori, tanto che trovano il manoscritto sul 1848-49, e gli lasciano la villa “guasta e vuota di roba”.
Viene scarcerato, ma il 1° gennaio 1861 è imprigionato di nuovo: il pericoloso scrittore viene portato via di casa di notte, senza nessun motivo, e rinchiuso per due mesi. Scarcerato di nuovo, vuole sperimentare “la vantata libertà della parola” e pubblica La Tragicommedia, giornale soppresso al terzo numero.
Gli fanno capire che gli conviene andar via da Napoli, se non vuole finire dentro per la terza volta. E così, nella notte fra il 14 e il 15 settembre 1861, s’imbarca sul bastimento Quirinale e si rifugia a Roma. Si lascia alle spalle una Patria conquistata che, nel solo 1861, ha visto ben 15.665 suoi figli fucilati dai fraterni liberatori piemontesi. Una Patria dove i gigli, simbolo della giustizia e della sovranità, vengono scalpellati via da tutti i monumenti; dove dilaga la caccia ai borbonici.
La camorra e la mafia si erano alleate col nuovo potere contro quello legittimo. “Il passato è quello che avverrà”: di nuovo la mafia si schiererà col nemico, per facilitare la conquista della Sicilia e oggi la camorra spadroneggia nel Sud.
Eppure si dice: “retaggio borbonico”. In quello stesso 1861 de’ Sivo pubblica L’Italia e il suo dramma politico nel 1861 e I Napolitani al cospetto delle nazioni civili.
Incaricato dal capo del governo borbonico in esilio, marchese Pietro Ulloa, di scrivere un libro sulla Storia delle Due Sicilie, nell’estate del 1862, ad Albano, ne legge alcuni capitoli al re, il quale “ascolta con entusiasmo; fornisce chiarimenti e documenti”.
Ma uno speciale Consiglio convocato per chiedere se si dovesse permettere la pubblicazione di una storia contemporanea del Regno delle Due Sicilie, da al sovrano parere sfavorevole, temendo la violenza delle dottrine dell’autore.
Lo stesso Ulloa non mette a disposizione di de’ Sivo la documentazione che gli aveva promesso, tanto che lo storico di Maddaloni, in una lettera a Cesare Cantù, scriverà: “ho stimato troncare con lui le relazioni di amicizia”.
Ciò nonostante De’ Sivo continua il duro lavoro. Nel 1863 esce il primo volume, l’anno dopo il secondo. L’opera procura gioia agli onesti, ma provoca proteste violente da parte dei responsabili di dubbi e doppiezze. Il re gli assegna la croce costantiniana ma, delle 400 copie che aveva prenotato, ne ritira solo alcune decine.
Il terzo volume della Storia de’ Sivo è costretto a stamparlo, nel 1865, a Verona. Nel 1866 il Veneto è annesso al Regno d’Italia: il tipografo ha paura di pubblicargli gli ultimi due volumi e non gli restituisce nemmeno il manoscritto!
De’ Sivo è costretto a riscriverli dai suoi appunti: una fatica a cui accenna nella prefazione al quarto volume, uscito col quinto nel 1867: “se dovessi raccontare la storia di questa Storia!..”.
Muore il 19 novembre 1867, nelle tarde ore della sera. Fu sepolto nel cimitero del Verano. Sulla sua lapide queste semplici parole: “Salute, o Giacinto, vivi in Dio”.
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