Giambattista Vico filosofo speculativo o scienziato della politica?

Giuseppe Gangemi
L’importantissima Degnità LIII di Giambattista Vico recita così: “Gli uomini prima sentono senza avvertire; dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso; finalmente riflettono con mente pura” (1836, II, 113). Benedetto Croce, nel volume La filosofia di Vico, interpreta questa Degnità come la descrizione del “circolo eterno dello spirito” (1980, 135) in cui “tutte le manifestazioni della vita si conformano a tre tipi sociali” (1980, 133): la ferinità dove domina la violenza, la eroicità dove prevale l’azione progressiva della Provvidenza, la razionalità che produce equità.
La razionalità è l’Apogeo del cicli, raggiunto il quale, il ciclo si esaurisce e non si può fare altro, “in conformità della sua eterna natura, se non ripercorrere il suo corso, ricadere nella violenza e nel senso e di là riprendere il moto ascensivo, iniziare il ricorso” (1980, 134). In questa descrizione di Croce, il “ciclo eterno dello spirito” ha la forma di un cerchio: si sale dal punto più basso di un cerchio, rappresentato in verticale, fino a raggiungere l’Apogeo e si ridiscende fino alla base del cerchio (la fine della ricaduta nella violenza) per ricominciare il ciclo “riprendendo il moto ascensivo” con un unico grado di libertà: un cerchio più grande o più piccolo.
Spiegando la Degnità LIII, Vico distingue tra Metafisica ragionata che “insegna che homo intelligendo fit omnia” e Metafisica fantastica che “dimostra che homo non intelligendo fit omnia” (1836, II, 92). Il primo approccio è quello cartesiano che Vico indica con il principio che homo intelligendo fit omnia. Un approccio sbagliato che non considera l’eterogenesi dei fini che porta alla via contraria in cui homo non intelligendo fit omnia.
A chiarimento della differenza tra Homo intelligendo fit omnia e Homo non intelligendo fit omnia, Vico fa affermazioni importanti: 1) “l’uomo ignorante si fa regola dell’universo” significa che l’uomo che non sa di non sapere impone la propria ignoranza come regola di tutte le cose; 2) “egli di sé stesso ha fatto un intiero mondo” significa che, se poi intervenisse a cambiare il mondo, lo cambierebbe facendolo deviare dal giusto cammino (e l’eterogenesi dei fini lo farebbe precipitare nel gorgo che porta alla Seconda Barbarie); 3) “l’uomo coll’intendere spiega la sua mente” significa che l’uomo modella su quello che pensa del mondo la propria mente (se l’uomo potente sbaglia, è il mondo che diventa sbagliato); 4) “l’uomo, col non intendere, egli di sé fa esse cose, e transformandovisi lo diventa” significa che, leggendo il mondo attraverso la propria ignoranza, l’uomo rende le cose che fa o rifà ignoranti quanto lui e diventa come le cose che ha deformato.
Ritenendo che i Corsi e Ricorsi descrivono “il ciclo eterno dello spirito”, Croce fa di Vico un filosofo speculativo che analizza solo le crisi millenarie che riportano l’uomo alla Primigenia Barbarie del Senso. La rappresentazione speculativa che Croce propone della filosofia di Vico può essere graficamente rappresentata con due cerchi di grandezza diversa che hanno come punto di contatto la Barbarie del Senso. Questa rappresentazione risulta, tuttavia, superata da un’affermazione della seconda e terza edizione della Scienza Nuova, in cui Vico spiega che l’uomo allo stato originario della ferinità si trova nella condizione di Barbarie del Senso perché, al tempo, la mente dell’uomo è modellata sulla natura e la natura è ancora incontaminata dall’azione deformatrice della mente ignorante dell’uomo. Cadendo nella Seconda Barbarie, la mente dell’uomo non è più in sintonia con la natura perché è il distacco dal creato, l’incommensurabilità tra mente e natura, la causa della caduta stessa. Alla fine di questa caduta, la mente dell’uomo non si ritrova più nella Primigenia Barbarie del Senso, ma si ritrova in una zona ignota di una nuova Barbarie. Questo Vico lo dice con chiarezza nella conclusione della Scienza Nuova seconda e terza, dove conia una specie di ossimoro: “Barbarie della Riflessione” (1836, II, 617).
Assumendo questa lettura di Vico, l’ascesa e la discesa di ogni corso o ricorso può essere rappresentata con l’unione di due spirali logaritmiche di segno diverso: quella ascendente che si può rappresentare come un ciclone tropicale che parte da un punto in basso detto occhio e quella discendente come un gorgo. In questa rappresentazione, il gorgo della caduta può muoversi in ogni direzione e non verso l’originario punto di partenza. I punti di fermata di ogni caduta vanno, quindi, rappresentati come distribuiti su una circonferenza che, graficamente, può essere immaginata in orizzontale.
Le due rappresentazioni grafiche non costituiscono una vuota contrapposizione accademica su due ipotetiche letture di Vico di cui discutere in convegni di accademici lontani dalla vita di ogni giorno. Le due rappresentazioni hanno ricadute attualissime e concrete, ma solo una è utile per l’analisi del mondo moderno. Nella prima rappresentazione, Vico viene descritto come un filosofo speculativo che studia la storia delle civiltà nei suoi cicli di crisi di millenaria durata. Nella seconda, Vico viene rappresentato come uno scienziato della politica che studia la crisi empirica dei sistemi politici di durata tale che ogni uomo può farne esperienza almeno una volta nella vita.
Chi studia Vico come un filosofo speculativo (come ha fatto Croce e come fanno gli accademici lontani dal mondo della politica) vede una sola ricaduta nella Seconda Barbarie: la fine della civiltà greco-romana per opera degli invasori barbari. Chi studia Vico come scienziato della politica, vede e può descrivere con le parole di Vico tante ricadute in piccole Seconde Barbarie: il 1799, anno delle tre anarchie dei Lazzari e dei Sanfedisti (Vincenzo Cuoco); il 1806, anno in cui Napoleone Bonaparte uccide la Repubblica Napoletana (Francesco Lo Monaco); il 1816, anno di costituzione del Regno delle Due Sicilie, (l’autonomista siciliano Gioacchino Ventura); il 1861, anno di adozione dello Statuto Albertino per il Regno d’Italia (Silvio Trentin); il 1922, anno della crisi della democrazia provocata dalla crisi della ragione giuridica (Giuseppe Capograssi); l’8 settembre 1943 (Salvatore Satta); etc.
Sottolineerei che questi studiosi vichiani non hanno mai occupato cattedre di scienza politica nell’Accademia italiana perché questa disciplina, a torto, non considera Vico tra i propri padri fondatori.