Alta Terra di Lavoro

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La battaglia di Potenza – 1 per la rubrica “La Barbajada”

Posted by on Gen 29, 2025

La battaglia di Potenza – 1 per la rubrica “La Barbajada”

«La vita privata del Re [Vittorio Emanuele I di Sardegna] e Regina [Maria Teresa d’Austria-Este] a Cagliari è molto uniforme, regolare. Il Re tutto l’anno si alza da letto a 7 ore la mattina, fatta la tavoletta [= toletta], e colazione, che sempre consiste in barbaja[da], ossia caffè, e cioccolata insieme, alle 8 ore va ogni giorno nella tribuna a udir una messa».

(Francesco d’Austria-Este, Descrizione della Sardegna (1812), Società nazionale per la storia del risorgimento italiano, Roma 1934, p. 9).

La “Barbajada” è una bibita inventata dal mio bisarcavolo Domenico Barbaja (1777-1841), che fu impresario di vari importanti teatri d’opera, tra cui la Scala e il San Carlo.

Prima di divenire celebre come impresario teatrale (portò a Napoli Gioacchino Rossini e Gaetano Donizetti) e dimostrarsi un valido imprenditore edile (a lui si deve la ricostruzione in soli nove mesi del San Carlo, distrutto da un incendio nel 1816, e l’edificazione della basilica reale pontificia di San Francesco di Paola), aveva fatto fortuna a Milano, creando una bevanda in cui mischiava cioccolato, caffè e latte (una sorta di cappuccino al cacao).

La bevanda, che d’estate si sorbiva anche fredda, serve per stimolare e irrobustire (e magari addolcire con la panna).

La presente rubrica intende rivolgersi al lettore:

  • stimolandolo con il caffè delle considerazioni,
  • irrobustendolo con il cacao delle dimostrazioni e, possibilmente, addolcire il tutto,
  • rasserenandolo con lo zucchero dell’ironia o la panna della leggerezza.

Gianandrea de Antonellis


La battaglia di Potenza, racconto scritto in occasione del 150° dell’Unità e pubblicato su Altri Risorgimenti. L’Italia che non fu (1841-1870), a cura di Gianfranco de Turris, Bietti, Milano 2011

Tesi

Uno dei principali punti di svolta della guerriglia antipiemontese (il cosiddetto brigantaggio) fu il mancato tentativo di occupare Potenza (novembre 1861): la rinuncia a prendere il capoluogo lucano fece venir meno gli aiuti internazionali prospettati nel caso in cui la conquista piemontese fosse stata messa militarmente in discussione da un regolare esercito napoletano e, di conseguenza, fece cadere ogni speranza di restaurazione borbonica.

A capo delle bande antiunitarie c’erano Carmine Donatelli detto Crocco, carismatico comandante dell’armata di “briganti”, ed il generale spagnolo José Borjes, inviato dai Borbone per dare una vera organizzazione alla rivolta fino ad allora spontanea e popolare. La decisione di non attaccare Potenza fu presa da Crocco, contro la volontà del generale carlista – cioè esponente del movimento tradizionalista che in Spagna si oppose e tutt’ora si oppone, senza successo, alla degenerazione liberale della Monarchia –, che fu disarmato ed allontanato dall’altro: sarebbe morto fucilato dai bersaglieri presso Tagliacozzo l’8 dicembre dello stesso anno, mentre cercava di raggiungere Roma attraverso gli Abruzzi. Crocco, invece, venne catturato nel 1864 e condannato all’ergastolo: fu l’unico capobrigante riuscito a sopravvivere, il che fece pensare ad un suo accordo con gli Italiani.

Ipotesi

Se il generale Borjes, riconquistando la Basilicata, avesse fatto mobilitare gli aiuti militari internazionali promessi a favore dei Borbone.

Svolgimento

Napoli, 15 ottobre 2011. Il professor Andrea Luigi Guarna, docente di Storia dell’Unificazione, sedeva nel suo ufficio presso l’università, rispondendo alle scontate domande di una giovane giornalista dell’edizione napoletana di ABC. L’intervista riguardava – naturalmente! – la commemorazione della grande vittoria di Potenza che, centocinquant’anni prima, aveva ribaltato le sorti della conquista piemontese dell’Italia meridionale e l’importante quotidiano nazionale voleva dedicare un’intera “terza pagina” alla celebrazione dell’avvenimento: il giornale si era rivolto ad Andrea, poiché il mese dopo avrebbe dovuto presiedere, con un discorso ufficiale, l’apertura della grande manifestazione che si sarebbe tenuta nel capoluogo lucano.

– Professore – chiese ad un certo punto la ragazza – cosa sarebbe avvenuto se il generale Borjes e Crocco non avessero conquistato Potenza?

«Che domanda senza senso!» pensò lo storico; ma non era il caso di palesare questo pensiero. Si sforzò a sfoderare un sorriso e rispose:

– Chi può dirlo? Sicuramente la battaglia di Potenza è stata la chiave di volta dell’intera campagna di restaurazione borbonica… Cosa sarebbe successo in caso di fallimento? Beh, è facilmente ipotizzabile che l’esercito piemontese avrebbe consolidato il potere sabaudo e che avrebbe unito l’Italia in un solo Stato centralizzato.

– Con capitale Roma?

Il professore sorrise, questa volta senza sforzo.

– È molto difficile che Vittorio Emanuele sarebbe riuscito a convincere il Papa a cedere la sua sede oppure che avrebbe cercato di conquistarla manu militari senza scatenare l’intervento della Francia e dell’Austria… piuttosto è probabile che si sarebbe accordato per far nascere nelle vicinanze una nuova, grande città che fungesse da capitale italiana: adesso la chiameremo “Roma 2”, allora qualcuno aveva già pensato al nome di “Sabaudia”.

– Capitale di uno Stato forte, però.

– Veramente, almeno dal punto di vista politico, non direi: vede, dopo una così dura guerra civile, il futuro re Vittorio Emanuele I si sarebbe ritrovato uno Stato debole, perché pieno di nemici interni, e di conseguenza succubo delle maggiori potenze europee, che lo avrebbero sicuramente coinvolto nei due terribili conflitti mondiali del ventesimo secolo… Comunque, tornando alla sua prima domanda, tra tanti dubbi rimane una sola certezza: una sconfitta a Potenza avrebbe definitivamente affondato ogni speranza di far tornare sul trono Francesco II e, di conseguenza, oggi avremmo un’Italia unita sotto la corona sabauda. Questo è l’unico dato certo.

Quindi tornò alla realtà:

– Comunque si tratta di discorsi vani, perché, come lei ben sa, il 15 novembre 1861 la battaglia fu vinta, grazie ad una tattica geniale: la Guardia Civile di Potenza fu infiltrata di elementi borbonici ed all’ultimo rafforzata con la liberazione dei prigionieri politici detenuti nel carcere cittadino. Così i Piemontesi si trovarono attaccati su due fronti: davanti le bande di briganti e le formazioni del generale Borjes; da dietro le baionette di quella stessa Guardia Civica che avrebbe dovuto guardare loro le spalle!

La giornalista spalancò gli occhi, come se sentisse quella storia per la prima volta.

– Geniale!

Il professore la guardò un poco torvo: non riusciva a comprendere se lo stupore fosse sincero (nel qual caso ci si doveva domandare cosa diavolo insegnassero a scuola nelle ore di storia) o se preparasse la successiva domanda, tra il banale ed il retorico:

– E chi furono gli eroi della giornata?

Soffocando uno sbuffo di fastidio e rispondendo come ad un formulario, Andrea enumerò gli eroi della giornata: innanzitutto il generale carlista José Borjes, mente strategica della riscossa militare borbonica; poi Crocco, che aveva eroicamente offerto la propria vita per la vittoria finale; e quindi il quasi omonimo antenato dello storico, Andrea Guarna di Ripacandida, già brillante ufficiale dell’esercito di S. M. Francesco II di Borbone, giunto in missione segreta a Potenza.

– Vede, la città era occupata dai Piemontesi ed egli si era presentato nel settembre del 1861 nascondendo i propri trascorsi militari e spacciandosi per un giovanotto gaudente, interessato soltanto all’amministrazione dei propri beni e del tutto alieno dalle questioni politiche. Quando era stato creato capitano della Guardia Nazionale, aveva finto di non desiderare affatto tale carica, di considerarla come una fastidiosa corvée… ma, al momento giusto, aveva preso il controllo della città ed aveva innalzato la bandiera biancogigliata, liberando ed armando i briganti rinchiusi in prigione. A quel punto, stretti in una morsa, i Piemontesi avevano compreso come la soluzione migliore fosse quella di arrendersi.

– E tutto finì bene.

Andrea allargò le mani, come per accettare un destino superiore:

– Per quel che riguarda la guerra antipiemontese, certo. Poi, come lei del resto ben sa, almeno per i Borbone-Napoli, non proprio tutto andò bene, visto che la terza restaurazione borbonica (dopo quelle del 1799 e del 1815) venne funestata da una sorta di maledizione dinastica: la famiglia reale non riusciva a generare un erede maschio…

E l’intervista continuò, vertendo sul problema dell’Unifica­zione, di cui quell’anno era ricorso il centenario.

*          *          *

Una volta congedata la giornalista, Andrea guardò l’orologio e si accorse che avrebbe rischiato di perdere il “direttissimo” della Circumvesuviana per tornare a Castellammare di Stabia, dove abitava. Era nervoso, non sapeva se per il timore di arrivare in stazione in ritardo o se per il numero di verità ufficiali sull’impresa di Potenza che aveva ripetuto alla giornalista e che sarebbe stato costretto a riproporre di lì ad un mese. Egli infatti rifuggiva da quegli eventi ufficiali, in cui si ripeteva una “vulgata” che spesso poco aveva a che vedere con la realtà dei fatti storici, ma che serviva a rinvigorire la memoria del passato e ad esaltare gli spiriti dei contemporanei.

Uscì dal complesso dell’università e prese l’autobus-navetta che congiungeva i due poli del viale dell’Unificazione, ancora costellato di bandiere gialle e rosse con lo stemma borbonico – un po’ sbiadite – dopo la grande parata del Tercio napoletano (avvenuta ben sei mesi prima!), ed in breve fu in piazza Crocco, in cui sorgeva la stazione ferroviaria e dove troneggiava un’enorme statua dell’eroe della guerra antipiemontese, ritratto con il suo cappellaccio ed il suo rozzo mantello (si diceva che anche Garibaldi ne usasse uno dello stesso tipo – una specie di coperta bucata al centro – e che Crocco lo avesse adottato per imitarlo al tempo in cui combatteva nelle sue file), appoggiato ad un fucile, in piedi. Almeno – sospirava lo storico – non lo avevano raffigurato sopra un cavallo, con la spada sguainata! Infatti quei due simboli di nobiltà erano stati riservati al generale Borjes, detto l’Eroe dei Due Regni, il cui monumento dominava l’intera spianata dei Guantai, tra Palazzo San Giacomo e Castel Nuovo (nessuno osava più chiamarlo Maschio Angioino: nome troppo francese per non subire anch’esso una damnatio memoriae, sia pure a secoli di distanza!). Ora le due statue erano unite e nel contempo separate dall’ampio viale dell’Unificazione, realizzato all’inizio del XX secolo radendo al suolo tutte le catapecchie che andavano dal Castello alla stazione e l’ampio viale alberato era costeggiato da superbi palazzi disegnati da Antoni Gaudì (i maligni dicevano che l’architetto catalano avesse riciclato per Napoli gli eclettici disegni che gli erano stati bocciati al concorso indetto dal comune di Barcellona, la cui architettura ai nostri giorni è caratterizzata dal più rigido razionalismo).

Giunse appena in tempo per prendere il direttissimo. Mentre dal finestrino della littorina il tramonto sul golfo napoletano gli si presentava come una guache, Andrea ripensava a quella domanda che aveva ingenerosamente bollato come insensata e che invece era più interessante di quanto gli fosse parsa al primo momento. E se la battaglia fosse stata persa? E se invece dei cavourriani avessero avuto il sopravvento i mazziniani? E se invece di uno Stato unitario si fosse creata una insanabile frattura tra un Regno del Nord ed una Repubblica del Sud, con Garibaldi come presidente-dittatore?

Ma volle scacciare tali pensieri: «Perché ci domandiamo tanto spesso cosa sarebbe potuto succedere se non sappiamo neppure con esattezza ciò che è realmente accaduto?» pensò guardando i due titoli quasi identici che i due quotidiani napoletani – il conservatore Madrid (fatto rinascere da Achille Lauro) e l’innovatore La Mattinata (fondato da Edoardo Scarfoglio) – affidavano al commento di spalla, inneggiando alla solita storia dei Tre Eroi per giungere a considerazioni pressoché opposte… Ciò gli ricordò che il mese successivo avrebbe dovuto presenziare alle cerimonie di commemorazione degli eventi bellici del 1861: egli sapeva bene di essere stato scelto più in virtù della sua diretta discendenza da uno degli “Eroi di Potenza” che per la sua cattedra di Storia dell’Unificazione presso l’ateneo napoletano. E se il fatto poteva divertirlo o lusingarlo da un punto di vista sociale, da quello della ricerca accademica, della ricerca della verità, lo imbarazzava fortemente.

Perché egli sapeva come si erano effettivamente svolti i fatti e come assai poco eroici – da un certo punto di vista – fossero stati.

Una manchette pubblicitaria su uno dei due giornali gli fece tornare alla mente che aveva promesso alla moglie (e aveva dimenticato) di prendere due biglietti per il San Carlo, dove in occasione del centenario della sua composizione sarebbe stato messo in scena El martirio de San Simonìn, il dramma sacro in cinque atti scritto in castigliano da Gabriele d’Annunzio per la musica di Claude Debussy. Chissà se il Vate, quando aveva messo mano a quel poema – proprio in occasione dell’Uni­ficazione – aveva pensato alle polemiche che avrebbe suscitato, dato che allora il beato Simonino da Trento non era stato ancora ufficialmente canonizzato. Anche quell’opera lo costringeva a pensare ad una serie di problematiche storiografiche che avrebbe preferito accantonare: forse pure a causa di ciò aveva dimenticato di telefonare alla biglietteria per prenotare i posti…

Per distrarsi cercò di capire cosa stesse leggendo la sua vicina di poltrona: gli bastò incontrare il nome di due personaggi (don Rodrigo e il conte Attilio) per riconoscere Gli sposi promessi. Storia lombarda del XIX secolo del conte Alessandro Manzoni, volta in parlare corrente da padre Antonio Bresciani. Una delle  letture preferite di Andrea, nella versione di padre Bresciani, che non era solo un rifacimento dello stile (chi avrebbe la forza, ai nostri giorni, di affrontare per tante pagine quella lingua sperimentale proposta nel primo Ottocento da Alessandro Manzoni ed oggi del tutto abbandonata?), che permetteva di apprezzare una storia dagli elevati contenuti morali altrimenti destinata all’oblio o ai soli leggii degli storici della lingua; ma lo era anche, in parte, del contenuto: pur senza toccare la trama, la riscrittura era stata finalizzata a rendere più credibili le peripezie dei protagonisti, inserendole in un’ambientazione storica questa volta impeccabile (la vicenda narrava le angherie subite da una coppia di popolani – in cui Ubaldo aveva sostituito l’improbabile Fermo – nei tristi tempi della dominazione giacobina).

*          *          *

Mentre l’autobus lo portava dalla stazione di Castellammare alla zona del castello, dove si trovava la villa di famiglia, Andrea si interrogava sulla scarsa conoscenza che i suoi conterranei avevano delle vicende patrie: parlando con lui, la giornalista aveva di tanto in tanto sgranato gli occhi, come se sentisse per la prima volta la storia dell’Unificazione!

Eppure tutti sapevano – o meglio, tutti avrebbero dovuto sapere – quali erano stati i problemi dinastici dopo la terza restaurazione… La mancanza di figli maschi era stata una vera e propria maledizione: Francesco II e Maria Sofia avevano avuto Maria Cristina Pia, che non versava in buona salute e che era rimasta nubile. L’unica altra discendente era Maria Teresa, figlia postuma di Luigi Maria, già conte di Trani, il quale era tornato a combattere dall’esilio romano dopo la vittoria di Potenza per giustificare le proprie ambizioni di erede (il popolo preferisce sempre un sovrano con la spada in pugno ad uno debole e malaticcio); ma il suo sogno, quando sembrava ormai realizzarsi, era stato stroncato dalla palla di un bersagliere piemontese. Alla morte di Francesco II, nel 1894, una successione in linea femminile era impensabile: scatenare una guerra come quella carlista, costata trentacinque anni di scontri con gli “isabellini” e fiumi di sangue per portare il legittimo Carlo Luigi sul trono di Spagna nel 1868 con il nome di Carlo VI (soprattutto grazie al carisma dello stesso “generalissimo” José Borjes), né il popolo l’avrebbe sopportato, né le diplomazie internazionali l’avrebbero ritenuto utile: la devoluzione o meglio il ritorno della corona napoletana sotto quella spagnola sembrò quindi la soluzione più adatta.

Del resto nel 1850 Carlo VI aveva sposato Maria Carolina delle Due Sicilie, figlia di Francesco I delle Due Sicilie e di Maria Isabella di Borbone-Spagna: l’unione dei due regni sembrò dunque più che naturale. Ed il 17 marzo 1911, dopo una quindicina di anni di interregno ed una lunghissima serie di contatti diplomatici per aggirare la Prammatica Sanzione di Carlo III del 1759 che vi si opponeva, l’Unificazione o Unificación fu definitivamente sancita. Paradossalmente uno dei maggiori fautori dell’Unificazione era stato il longevo Vittorio Emanuele II di Sardegna, il quale cercava di consolarsi in tal modo per lo smacco ricevuto tanti anni prima: almeno era sopravvissuto al Re che gli aveva impedito di diventare monarca dell’intera penisola e vedeva addirittura estinguersi la dinastia avversaria; aveva anche cercato di avanzare pretese sulla corona napoletana, data la parentela con il cugino a cui aveva mosso guerra nel 1860, ma le dissestate finanze del suo regno, dissanguate dalle varie guerre e duramente colpite dalla restituzione del tesoro napoletano sul quale aveva contato per pareggiare i conti, non gli permettevano altro che un flatus vocis.

Comunque quello piemontese non era l’unico governo favorevole all’Unificazione: tra gli Stati, cioè tra quelli che veramente contavano, l’idea di unire le corone napoletana e spagnola piacque molto al Papa, che vedeva rafforzarsi un Paese intimamente cattolico ed un re sinceramente religioso; lasciò pressoché indifferenti tutti i vari residui ducati appenninici, fortemente influenzati dall’Austria; ed infine, per i soliti giochi diplomatici, quella “spagnola” era una soluzione che piaceva – o meglio non dispiaceva eccessivamente – all’Austria, alla Francia, alla Prussia ed all’Inghilterra, perché ognuna di esse vedeva in qualche modo ridimensionata una potenza avversaria: la Francia godeva dello smacco dell’Inghilterra (e viceversa) nel ritrovarsi un dirimpettaio più grande e con una importante posizione nel Mediterraneo; d’altro canto ambedue gioivano perché l’Austria perdeva uno Stato vassallo, quello napoletano; tutte e tre, infine, apprezzavano un forte Re Cattolico pronto a togliere dal fuoco le castagne altrui con il sostenere l’autonomia degli Stati tedeschi rimasti fedeli al Papa contro l’espansionismo della Prussia luterana. Insomma: mal comune, mezzo gaudio.

Ma tali giochi diplomatici, ormai vecchi di un secolo, tanto cari ad Andrea, che ne aveva fatto l’oggetto dei propri studi, non erano invece il principale interesse della gente comune… E notando come la giornalista avesse spalancato la bocca, certo più per noia che per stupore, il docente aveva deciso di passare ad un piano diverso, più divulgativo ed aneddotico: aveva quindi raccontato la vicenda del decesso del sovrano sabaudo, che si era spento prima di poter assistere alla tanto desiderata Unificazione. La morte per infarto era stata causata da un banale incidente: mentre tornava alla reale Palazzina di Caccia di Stupinigi, il 29 luglio 1900, fu “ucciso” dall’imperizia del suo cocchiere, tale Gaetano Bresci, che fece rovesciare la carrozza reale. Bresci, giovane volonteroso ma del tutto incapace a guidare i cavalli, era stato assunto solo grazie alla raccomandazione – antica piaga piemontese! – del fratello Angiolo, tenente del 10° Artiglieria a Torino, che avrebbe visto stroncata la propria carriera. Anche Gaetano perse l’ambito posto di cocchiere reale.

E così il sovrano se ne era andato, ormai ottantenne e non troppo sereno perché roso per quarant’anni dalla rabbia di non essere riuscito a divenire Vittorio Emanuele I Re d’Italia, titolo e nominale cui aveva tenuto moltissimo e di cui era stato certo, almeno fino alla battaglia di Potenza: primo re d’Italia, il capostipite di un regno grande e dalla storia millenaria; altro che secondo – vale a dire uno dei tanti – di uno staterello mezzo francese!

I “fatterelli” avevano raggiunto il loro effetto ed Andrea aveva proseguito continuando a sintetizzare gli eventi relativi all’Unificazione. Con il passaggio incruento alle Spagne, Napoli aveva iniziato a vivere un nuovo momento di prosperità: non più capitale di un piccolo regno, è vero, ma seconda città di un regno molto più vasto. Sembravano tornati i tempi di Caravaggio, Fanzago e della scuola musicale napoletana: meta privilegiata della nobiltà spagnola, la città abbellì palazzi e chiese; i suoi numerosi teatri ospitavano i drammi di due illustri regnicoli come Pirandello e d’Annunzio; le sue due università crescevano: oltre a quella fondata da Federico II ed intitolata a S. Tommaso d’Aquino, nota soprattutto per la facoltà di filosofia, divenuta la prima in Europa e grazie alla quale già da ottant’anni il tomismo aveva soppiantato l’hegelismo, c’era l’ex Collegio dei Cinesi, fondato dal missionario Matteo Ripa, divenuto Reale Istituto delle Lingue, che aveva sempre difeso la necessità di rispettare le diverse favelle delle numerose popolazioni del Regno ispanico.

– Già – aveva sentenziato la giornalista –: dall’Europa all’America, dall’Africa all’Asia, sotto la corona spagnola si parlano un sacco di lingue… 

– Sì, un “gran numero” di lingue – aveva corretto Andrea, infastidito dall’idiotismo giovanile –: un problema risolto mantenendo le lingue locali a livello parlato. Ecco perché, ai nostri giorni, a Napoli si continua a parlare napolitaliano (si scrive in castigliano, ma questo è necessario per poter comunicare con le varie parti del Regno, come secoli fa si parlava napoletano, ma si scriveva in italiano o in latino), lingua comune a tutta la parte meridionale d’Italia, una sorta di koinè che fonde ed amalgama i vari dialetti locali ed ha una comune matrice nella lingua letteraria di Dante, Petrarca, Boccaccio e, in tempi più recenti, del purismo di Padre Bresciani, il che rende il napolitaliano comprensibile anche nel centro e nel nord d’Italia, dove si parla, a seconda delle zone, il romitaliano o toscoitaliano (con l’eccezione di Firenze dove si usa il fiorentino puro) e il lombarditaliano o venetitaliano. In Piemonte, invece, si continua a parlare e a scrivere in francese.

La digressione dotta non era evidentemente piaciuta alla ragazza, che aveva cambiato discorso facendo una domanda di carattere politico. Andrea era quindi tornato nei suoi panni di storico dell’Unificazione:

– Militarmente preparata, ma non amante della guerra (soprattutto dopo il trentennio di lotte civili tra carlisti ed isabellini), come tutti sanno la Spagna non partecipò ai due conflitti mondiali, pur sapendo tenere a bada le velleità espansionistiche dei vicini («Triunfará la Cruz de Borgoña | al paso alegre de la paz» recitava un noto inno). Napoli divenne così il punto di incontro di artisti e intellettuali che in un’Europa dilaniata dallo scontro tra Wehrmacht e Armata Rossa cercarono rifugio nel luogo che appariva più lontano dalla guerra: non solo geograficamente, ma anche culturalmente, perché le teorie corporative, proprie della tradizione medioevale ed esaltate dalle università spagnole di mezzo mondo, ma soprattutto dall’ateneo napoletano, rifiutavano drasticamente la visione hegeliano-marxista della storia come scontro costante di elementi contrapposti, preferendo invece la collaborazione tra i diversi corpi.

– E poi nacque il falangismo…

– Esatto, un movimento “militarista culturale” che prende il nome dal suo principale ideatore, Manuel Fal Conde, Capo dei Requetés, che ebbe l’intuizione di trasformare ogni impiegato e funzionario dei vari corpi intermedi che formano il Regno in un servitore della Corona, con tanto di divisa e giuramento relativo. Di conseguenza la Monarchia spagnola si rafforzò e la sua fermezza e solidità furono premiate dai moti popolari che portarono varie nazioni del mondo a chiedere di tornare ad essere suddite del Rey: così gran parte dell’America latina venne governata direttamente da un Viceré spagnolo, mentre altri Stati si unirono nell’associazione detta del Comune Benessere o Mancomunidad

…o Commonwealth – interruppe la ragazza utilizzando un’altra espressione gergale, di quelle che facevano storcere il naso ai puristi. Andrea Guarna compreso.

1 – continua

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