“GIORNATA DELLA MEMORIA” del Regno delle Due Sicilie del Regno di Napoli e del Regno di Sicilia
ogni volta che c’è una giornata della memoria di altre comunità noto che molti napolitani sentono il bisogno di ricordare i nostri defunti e da tempo questa cosa mi fa molto pensare e riflettere arrivando alla conclusione che è arrivato il momento di creare una giornata della nostra memoria. più volte ho cercato di parlarne ma senza……..
avere riscontro ed allora da qualche mese ho cercato, insieme all’associazione che rappresento nell’alta terra di lavoro, di individuare una data adatta e che abbracciasse varie dinamiche, identitarie, religiose, storiche e abbiamo deciso con molta umiltà, sobrietà e senza personalismi di commemorare annualmente il 12 maggio chiedendo a tutti di fare altrettanto. Non è necessario venire ad isola del liri, anche se per il primo anno sarebbe inmportante vedere la chiesa piena, ma ovunque vi trovate nel mondo in quel giorno pregate, riflettete, contemplate, dalla sera prima accendete una candela fuori la finestra e fate dire una messa alle 18. Non è giornata di eventi, di congressi, di bandiere associative perché è dedicata alle nostre anime sante. Di seguito un piccolo saggio storico di fernando riccardi su quanto è accaduto il 12 di maggio del 1799, allora giorno di pentecoste, ad isola liri, un manifesto che è a disposizione di tutti e ogni anno sarà sempre lo stesso dove è indicato solo il giorno senza anno e numerale e un regolamento che detta linee guide che non sono nostre ma di tutti. Il tutto è stato benedetto da padre Don Antonio Colella alla chiesa di San Giovanni di Cassino, già San Germano, il giorno 31 di marzo alle ore 08;30.
Già ho sentito dire che fare una messa se ci sarà poca gente a che serve? Ripeto quanto scritto sopra non è una giornata di eventi o convegni ma una giornata dedicata alle nostre anime sante e far dire una messa e come farla dire ai nostri cari più stretti. Quando lo facciamo per i nostri cari se la chiesa è vuota desistiamo? Quindi se avete paura di far celebrare messa per pochi intimi lasciate perdere perché non sono le nostre anime ad aver bisogno di noi ma noi di loro. Di seguito anche il regolamento che vi invito a leggere più volte prima di esprimere un giudizio definitivo.
Claudio Saltarelli
Il massacro di Isola Liri
Il 12 maggio del 1799, continuando nella loro fuga verso Roma, giunti a Isola Liri, le milizie giacobine del generale Watrin, trucidarono ben 537 persone, tra cui 350 poveretti che avevano trovato rifugio nella chiesa di San Lorenzo. “Giunti in prossimità del borgo, trovando le porte sbarrate, gli ufficiali francesi inviarono due dragoni a parlare con gli insorgenti isolani affinché fosse lasciato loro libero il transito. Dalle mura della città, invece, partì una fitta scarica di fucileria che uccise i due soldati. Ciò scatenò la furiosa reazione dei francesi che, guadato il fiume, mentre Mammone e i suoi accoliti si davano alla fuga, entrarono in Isola e dettero inizio alla mattanza con tanto di saccheggi, distruzioni, incendi, stupri e furti sacrileghi nelle chiese dove fecero scempio di reliquie e di oggetti sacri”. Fu un giorno terribile per Isola Liri, di certo il più nefasto della sua lunga storia. Così l’arciprete-canonico Nicolucci annotò nel registro dei morti della chiesa di San Lorenzo: “12 maggio 1799. E’ degno di memoria, né mai da dimenticarsi questo giorno di Pentecoste, in cui il pazzo impeto dei Francesi travolse nella rovina noi e le nostre case, facendone strage. Tutto devastò, tutto rapì il nemico: non scamparono al bottino né greggi, né armenti; non sopravvisse uomo; non vi fu donna, ancorché fanciulla, non contaminata dalla violenza dei soldati; quegli empi profanarono gli altari e le cose più sacre. Chi vuol saperne di più, legga a pag. 263 di questo libro la dolorosa nota, e vedrà perché un solo medesimo giorno registri la morte di cinquecento e più persone”. L’episodio venne descritto anche dal Colletta: “… fuggirono i borboniani, di poco scemati, e superbi di quella guerra e delle morti arrecate al nemico. Il quale sfogò lo sdegno sui miseri abitanti; e trovando nelle cave poderoso vino, ebbro d’esso e di furore durò le stragi, gli spogli e le lascivie tutta la notte. Ingrossarono le piogge, e la terra bruciava; al nuovo sole, dove erano case e templi, furono visti cumuli di cadaveri, di ceneri e di lordure”. L’atroce carneficina andò avanti per due giorni interi. “La gente atterrita cerca di nascondersi, di ripararsi, di fuggire da quell’impetuoso uragano di violenza, ma i ponti sono stati tagliati, tranne quello di Regno, e molte persone riescono a porsi in salvo sfidando a nuoto le acque del braccio destro del fiume, ingrossato dalle piogge recenti. Nell’abitato viene frugato ogni angolo e ovunque si fa scempio di vite umane. Non viene risparmiata nemmeno la chiesa di San Lorenzo, anzi è proprio qui che si consuma la tragedia più orrenda. La gente ha creduto di trovarvi un asilo sicuro, ma, sorpresa in preghiera, accende ancora di più l’ira degli aggressori e rimane vittima di una ferocia vile e bestiale. E’ un momento di autentico inferno: eccidio e sacrilegio in un unico gesto”. Passato l’uragano a quelli che, atterriti e sconvolti, decisero di ritornare in paese, si presentò una scena apocalittica. “Case sventrate, strade ingombrate dalle rovine e appena praticabili, mura cadenti pericolose e funeste; tra gli ammassi di calcinacci sporgono cadaveri e cadaveri orrendamente trucidati, altri penzolano dalle finestre diroccate; c’è tutt’intorno un silenzio raggelante; nell’aria si spande un odore nauseabondo di bruciato. Ma i guasti più spaventosi sono toccati alla chiesa di S. Lorenzo. Qui si scorgono centinaia di corpi decapitati o infilzati già in via di decomposizione; cadaverini di bimbi ricaduti sugli altari dopo essere stati violentemente scagliati contro le pareti; vetrate in frantumi e porte fracassate, danni ingenti alla costruzione (l’edificio sacro poté essere riaperto alla pratica del culto solo nel Natale di quell’anno, nda), agli arredi e alle suppellettili: ovunque i segni dell’odio, della razzia, della profanazione”. Né gli effetti della strage rimasero circoscritti a quel tragico giorno. La ventenne Mariangela Vicalvi, ad esempio, morì qualche mese dopo, il 18 luglio, in seguito alle ferite infertele dai francesi. Nel 1899, a cent’anni di distanza dall’eccidio, la municipalità isolana collocò nella chiesa di San Lorenzo, sulla parete di destra rispetto alla porta di ingresso, una epigrafe marmorea che ricordava l’infausto evento: “Il di 12 maggio 1799 qui caddero massacrati dalle milizie francesi 533 cittadini. Il popolo isolano nel giorno del centesimo anniversario pose”. Da quel giorno, salvo sporadiche e quasi carbonare rievocazioni, “su un evento così drammatico è calata, fitta e impenetrabile, la nebbia dell’oblio. Sui libri di storia, inspiegabilmente, non c’è spazio per la tragedia di Isola Liri: eppure in quel drammatico 12 maggio, giorno di Pentecoste, trovarono la morte tanti poveri innocenti. I cronisti dell’epoca raccontano che il copioso sangue delle vittime colorò di rosso il fiume Liri. Ciò malgrado il ‘silenzio’ continua a regnare sovrano o quasi. Un’altra grande ingiustizia della nostra storia patria alla quale, prima o poi, qualcuno dovrà porre rimedio”.
I martiri di Casamari
Lasciata Isola a piangere i suoi tanti morti, attraversata Sora, i giacobini, la cui ritirata ormai stava trasformandosi in precipitosa rotta, si allontanarono in direzione di Veroli. Ancora una volta, però, non mancarono di versare sangue di vittime innocenti. Alcuni soldati, contravvenendo agli ordini degli ufficiali che volevano lasciare il più in fretta possibile il Lazio meridionale dove gli insorgenti la facevano ormai da padrone, il 13 maggio penetrarono nell’abbazia di Casamari in cerca di cibo e di bottino. Nel monastero erano rimasti soltanto pochi frati come conferma un passo di un anonimo scrittore di Valvisciolo: “Il rimanente dei monaci fuggirono di soppiatto ed altri, calando dalle finestre si andarono a nascondere nel campo della clausura, chiamata volgarmente pastorecchia, si appiattarono nel mezzo del grano che era assai alto, e sul far della notte di quel tragico dì 13 maggio, presero tutti la fuga; la maggior parte se ne andò nel vicino collegio di Scifelli dei RR. PP. Liquorini distante da Casamari quasi due miglia, portando con loro quel poco d’avanzo di sacri arredi, cioè: 9 pianete, 9 dalmatiche, 32 stole, tre mitre e sei sottotovaglie”. Ciò, però, non fu sufficiente ad evitare la tragedia. “I soldati irruppero alle otto della sera… quando ormai la piccola comunità si accingeva al canto della completa prima del ‘magnum silentium’ che domina nella notte in un’abbazia di regola benedettina. Ed invece fu una notte di orrore, di spavento e di sangue, che ebbe funeste conseguenze nella vita della comunità”. Anche questa volta il canovaccio fu il solito: distruzioni, furti di oggetti sacri, devastazioni di arredi. Gli empi giacobini, ubriachi per la gran quantità di vino bevuto dalle botti delle cantine del monastero, presero le pissidi custodite nel ciborio e gettarono a terra le sacre particole. I poveri monaci tentarono in tutti i modi di mettere riparo al grave gesto sacrilego, provvedendo a raccogliere le ostie dal pavimento. Gesto che scatenò ancora di più la collera dei francesi che a suon di sciabolate uccisero sei religiosi: il padre-priore Simeone Cardon, padre Domenico Zawrel, fra Maturino Pitri, don Albertino Maisonade, fra Modesto Burgen e fra Zosimo Brambat. “I corpi poi dei sei monaci uccisi rimasero così per tre giorni sopraterra, e furono custoditi per grazia di alcuni ufficiali e per cura di alcuni buoni secolari che vigilarono intorno al monastero”. Fatalità volle che ben quattro dei sei monaci trucidati a Casamari fossero di nazionalità francese: essi erano scappati dalla loro terra non appena si erano propagate le idee e i principi rivoluzionari che non potevano trovare albergo in uomini di profonda fede e di santa vita. Il loro destino, però, era segnato: trovarono la morte proprio per mano di quei connazionali dai quali erano fuggiti. Il martirio dei sei monaci è ricordato da un austero altare marmoreo posto nella navata di destra dell’abbazia.
Fernando Riccardi