Giuseppe Buttà: scrittore di parte, ma non fazioso
– Oh! Sentite!… – sbottò il cappellano – Questi saranno pure dei bei sogni, ma la realtà è quella che vedo. L’Italia! – e sbuffò. – Se essere italiano vuol dire fare ruzzolare dal trono quei re, che Dio ci ha messo e perciò ci stanno benone; se vuol dire spogliare la Chiesa dei suoi stati, imprigionare cardinali, vescovi e fucilarne uno qua uno là; se vuol dire scannare i preti, rubare nelle chiese, sforzare i monasteri e smonacare le suore… Se significa urlare bestemmie, errori, corrompere la gioventù e educarla all’odio della virtù e al disprezzo della religione… Eh! Cristo Signore Iddio! Se l’essere italiano vuol dire tutto questo… Io preferisco essere cosacco, turco o beduino!
Carlo Alianello, L’alfiere[1]
Con questa esplosione don Giuseppe Buttà, cappellano dell’esercito borbonico e fiero di esserlo, pone fine alla sua discussione con fra’ Carmelo da Acquaviva, coprotagonista del romanzo di Carlo Alianello L’alfiere. Il sacerdote che ha appena finito di sfogarsi viene descritto come teso e fremente: «E gonfiò le sue gote già tonde mentre fissava fiero il compagno e gli sprizzavano fuor dagli occhi tutte le braci del suo spirito bellicoso. […] Stava lì come un lottatore deciso che inturgidisce i suoi muscoli, pronto a ribattere e rintuzzare»[2].
La breve apparizione nel VII capitolo de L’alfiere del sacerdote e storico borbonico – testimone oculare della disfatta di Milazzo che avrebbe descritto nel Viaggio da Boccadifalco a Gaeta, che fu tra le fonti principali di Alianello – è giustificata dalla sua figura di polemista, come appare anche dalla lettura del presente ampio saggio.
Buttà nel giro di cinque anni pubblicò una sorta di “trilogia” sulla storia del Regno di Napoli e Sicilia (e poi delle Due Sicilie), attraversando l’intero periodo borbonico (I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli, tre volumi, Napoli 1877), ricostruendo la sua caduta in seguito all’aggressione militare (Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta. Memorie della rivoluzione dal 1860 al 1861, Napoli 1875) e infine analizzando i risultati della “italianizzazione” in un saggio travestito da romanzo (Edoardo e Rosolina o le conseguenze del 1861, Napoli 1880), in cui documenta i danni provocati dall’unificazione nel decennio che va dall’annessione del Sud alla conquista di Roma.
Se Edoardo e Rosolina è un saggio travestito da romanzo, I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli è un saggio non privo di elementi letterari (non voglio usare la trita frase «è un saggio che si legge come un romanzo»), un testo che vuole essere rigoroso, ma che rinuncia alla ampollosità o alla freddezza di un lavoro cosiddetto scientifico: nonostante le quasi mille pagine, si legge con piacere e non mancano aneddoti divertenti (o meglio, che sarebbero divertenti se non fossero riferiti a un evento drammatico quale la caduta del Regno), come il seguente episodio, relativo ai cavalli in bronzo regalati dallo Zar Nicola I a Ferdinando II e posti all’ingresso dei giardini della Reggia, in cui Buttà fa sfoggio di ironia:
Nel 1860, i civilissimi rigeneratori di queste nostre contrade, siccome i cavalli stanno inalberati e trattenuti da’ domatori, temendo che avessero potuto abbassar le zampe e schiacciare l’Italia una, voleano distruggerli, ma vi si oppose il console russo; e le iscrizioni già deturpate e guastate, più tardi il Municipio fu obbligato rifarle in fretta, ma in nero, e non già più a rilievo di ottone dorato.[3]
La lettura è affascinante e, se ci sono libri – come il Viaggio da Boccadifalco a Gaeta – che sono “più citati che letti”, quanto al titolo, sfogliando le sue pagine si scoprirà che I Borboni di Napoli… è un libro abbastanza citato, quanto al contenuto, però solitamente senza indicare la fonte. Infatti, ad esempio, troviamo per la prima volta una elencazione attenta dei “primati” del Regno borbonico, che ad ogni fine di capitolo riassumono quanto è stato fatto nel periodo appena descritto, assieme alla lista delle più eminenti personalità scomparse e dei principali studi pubblicati, nello stile già presente nella puntuale cronologia di Mons. Luigi Del Pozzo[4].
Del resto è perfettamente logico per un saggio che fin dal titolo palesava l’intento programmatico di dimostrare come la tanto esecrata Dinastia borbonica fosse tutt’altro che «la negazione di Dio sulla terra», come l’aveva falsamente (ma con enorme successo) bollata Gladstone[5]. Così, è naturale trovare nel corso dei tre volumi, momenti di esaltazione, ma – poiché Buttà scriveva pur sempre dopo la disfatta politica e militare – l’autore – dimostrandosi di parte, ma non fazioso – è capace di discernere tra le innovazioni veramente utili e quelle che rischiavano di essere dannose.
Un caso emblematico è quello – ricordato con una certa frequenza da tanti nostri contemporanei – della prima cattedra di Economia al mondo (1754), affidata (con il nome ufficiale di Commercio e Meccanica) ad Antonio Genovesi (che preferiva la dicitura Economia civile). Un indubbio primato, ma che dimentica che tale cattedra fu voluta da illuministi e massoni – in primo luogo l’ambiguo fiorentino Bartolomeo Intieri (1677-1753), ufficialmente amministratore dei beni allodiali dei Medici, ma in realtà informatore segreto del governo toscano, che la finanziò – per introdurre a Napoli le teorie del mercantilismo inglese e dei fisiocratici francesi, del tutto estranee alla cultura ed agli interessi del Regno partenopeo[6].
Così Ferdinando IV, nel riordinare le tre Università del Regno (Napoli, Catania e Palermo), creò nuove cattedre e «nominò a cattedratici il fior fiore degli uomini più in fama di scienza, non tenendo conto de’ loro principii politici quantunque conosciuti!»[7]. E Buttà sottolinea la “bella trovata” con un punto esclamativo, reiterato poche righe sotto, quando termina l’elenco dei nuovi docenti – iniziato appunto con Genovesi – ricordando: «e per la giurisprudenza parecchi insigni legisti, tra gli altri un Mario Pagano!», con un altro punto esclamativo che indica, a fianco della magnanimità del Re, la sua scarsa lungimiranza. Sarebbe stato facile infatti rendersi conto che, così facendo, si creavano schiere di studenti i quali, oltre a imparare i rudimenti delle rispettive scienze, si abbeveravano anche a sistemi filosofici di derivazione illuminista, vale a dire sostanzialmente atea o perlomeno anticlericale. Non c’è quindi da stupirsi se le idee rivoluzionarie fecero presa tra la gioventù colta napolitana di fine Settecento…
La ricerca delle cause della fine del Regno
L’ex cappellano militare descrive – quasi fosse un avvocato intento a dimostrare l’innocenza dell’accusato (anzi, del condannato in prima e seconda istanza) che ripercorre la vita del suo assistito – i 126 anni della Dinastia borbonica, elencando i suoi indubbi meriti, ma senza nascondere – dimostrando così onestà e lucidità – gli elementi che indebolirono il Regno. Egli aveva addirittura promesso anche un’altra opera che indagasse in particolar modo le cause della sua caduta:
Per provare che l’Appendicista non si è fatto ingannare, e che non è salito in cattedra per elogiare e flagellare a suo piacere; tra non guari pubblicherà un altro umile lavoro corredato da documenti inappuntabili, col titolo: Il 1860 – Perché cadde il Trono di Napoli – Amori e sdegni di tre diplomatici.[8]
Il lavoro in questione non uscì mai, ma nei tre volumi de I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli, affrontando la storia del Regno dall’avvento di Carlo di Borbone fino alla morte di Ferdinando II, riporta elementi utili ad individuare la debolezza politica che poi determinò il crollo dello Stato borbonico – anche se non sempre essi sono esplicitamente segnalati come motivi della sua caduta.
Quattro sono le principali cause che emergono:
- gli interessi internazionali;
- la politica dell’amalgama;
- il ruolo della propaganda;
- la miopia della politica borbonica in campo amministrativo e culturale.
Interessi internazionali
Gli interessi della Francia e soprattutto dell’Inghilterra nel controllare la Penisola italica sono indubbi e più volte sottolineati da parte dell’autore: la posizione geostrategica della Sicilia nel Mediterraneo, nonché il suo zolfo abbondante e a buon mercato, facevano estremamente gola all’Inghilterra, che approfittò della rivoluzione francese (e in particolare della Repubblica napoletana prima e dell’occupazione militare napoleonica poi) per creare una sudditanza della Trinacria, se non alla Corona inglese, perlomeno alla sua flotta. La Francia si dimostrò invece sempre più interessata alla terraferma: il divieto imposto a Murat da parte del cognato “imperatore” di invadere la Sicilia – tra i vari ulteriori motivi – indica anche lo scarso interesse verso l’Isola (Napoleone non era certo un tipo che si contentava…).
Leggendo le pagine di Buttà emerge dunque, sempre più prepotente, l’interesse straniero (politico, geopolitico ed economico) a dominare il Mezzogiorno della Penisola italica, mentre sembra invece erroneo individuare motivazioni personali, come suggerisce l’autore riportando un episodio che coinvolse direttamente Palmerston, il Primo Ministro inglese accusato di aver finanziato la spedizione dei Mille.
In effetti una nipote di questi, tale Penelope Smyth, aveva sposato il Principe di Capua, Carlo Ferdinando di Borbone-Due Sicilie, ma tale matrimonio non fu mai riconosciuto dal fratello Ferdinando II. La mancata approvazione dell’unione (e quindi la mancata ulteriore ascesa sociale dei Palmerston) avrebbe scatenato la rabbia del politico Inglese che si era battuto in difesa di Carlo Ferdinando e che avrebbe quindi agevolato, se non architettato, nel periodo in cui era Segretario di Stato per gli Affari Esteri e propenso a destabilizzare le altre Nazioni, l’affaire delle notoriamente false lettere di Gladstone a causa del risentimento verso il monarca napoletano. Forse fu un motivo in più, ma sicuramente furono altri elementi più importanti – di carattere economico, geopolitico e soprattutto ideologico – a spingere Palmerston a farsi complice dei liberali italiani.
Politica dell’amalgama
Un altro elemento che emerge è quello della “politica dell’amalgama”, ossia dell’unione pacifica tra sudditi fedeli borbonici e Napolitani compromessi con i Napoleonidi, imposta al Regno delle Due Sicilie dal Trattato di Casa Lanza (20 maggio 1815), paradossalmente voluto dagli alleati Austriaci, che aggiunsero suis spontibus le clausole più vessatorie alle già notevoli richieste dei Francesi, ingiungendo il riconoscimento di tutti i titoli nobiliari, gradi militari e carriere pubbliche effettuate durante l’occupazione militare francese.
E se il riconoscimento della carriera militare poteva essere accolto (ammesso – e non concesso – che il soldato serva sempre il suo Paese, indipendentemente da chi lo comandi)[9]; se i titoli potevano essere mantenuti (a patto che non fossero lesivi di altri precedenti); sicuramente era assai pericoloso mantenere nei propri posti i funzionari che avevano fatto carriera in virtù delle loro idee politiche, come aveva già rilevato il Principe di Canosa:
Il Re, riconoscendo ed accettando il trattato di Casa Lanza, si era obbligato di mantenere tutti i Militari dell’esercito di Gioacchino nei loro gradi ed emolumenti. Se era ciò obbligato di mantenere, non era egualmente tenuto di lasciare nelle antiche cariche tutti gli impiegati civili, tra i quali veramente esisteva il marcio contro la legittima Monarchia. I soldati, si sa che sono per lo più artisti che servono meglio chi meglio li paga e li tratta […] ma il tenere nella posta, nelle finanze, nel dipartimento ecclesiastico, in quello della guerra, nella giustizia, nella Polizia e da per tutto gli amici più dichiarati della rivoluzione, valeva lo stesso che esporre l’Autorità Reale al più sicuro repentaglio, e ciò senza esservene necessità, avvegnaché l’impegno contratto dal Re riguardava, come dissi, i soli militari.[10]
La reiterazione della “politica dell’amalgama” dopo il 1821, dopo i moti europei del 1830 (che portarono, tra l’altro alla detronizzazione di Carlo X di Francia, primo Borbone a cadere definitivamente) e dopo il 1848, nella speranza che la politica del perdonismo avrebbe ottenuto il pentimento dei liberali, fu un suicidio cosciente.
Ruolo della propaganda
[Fra’ Diavolo] Perché nemico degli stranieri invasori, si dichiarò caldo partigiano de’ Borboni; e si sa che i settarii largiscono l’ingiuria di briganti a’ legittimisti ed a tutti coloro che li battono di santa ragione, addebitando agli stessi saccheggi, incendi, massacri e nefandezze. Se quel valoroso e scaltro capomassa fosse stato un settario, sarebbe stato proclamato un grande eroe dal partito rivoluzionario; come questo ha proclamato più che semidei altri uomini di poca levatura e carichi di delitti.[11]
La propaganda giocò un ruolo fondamentale nella caduta del Regno: dalla “santificazione laica” dei “martiri” del 1799 alle calunnie riversate a più riprese contro la Dinastia borbonica (pensiamo solo a Ferdinando I bollato come “infame traditore” per essersi rivolto ai suoi alleati a Lubiana, quando questa accusa gli veniva lanciata da personaggi come Guglielmo Pepe, che ben prima aveva commesso tradimento nei confronti del Re a cui aveva giurato fedeltà…), fino all’accusa di aver realizzato «la negazione di Dio in terra», fortunatissimo slogan inventato dall’inglese Gladstone, che fornì in tal modo un sigillo internazionale alle calunnie contro i Monarchi napolitani.
E che quest’ultimo caso non sia stato altro che una ben orchestrata operazione propagandistica risulta evidente al solo considerare l’enorme risalto dato dalla stampa e dal governo britannico alle lettere di Gladstone e – al contrario – il silenzio fatto calare sulla replica, di parte borbonica, dello scozzese Charles Mac Farlane: questi scrisse allo stesso lord Aberdeen una lettera in cui confutava le accuse di Gladstone, ma il suo scritto non venne preso in considerazione dalla “libera” stampa inglese né venne diffuso nelle ambasciate inglesi (pur essendo state fornite le necessarie copie a Palmerston dal governo napolitano), come invece era stato fatto con il libello accusatorio.
Buttà sottolinea a più riprese il doppiopesismo dei “patrioti”, pronti a vedere la pagliuzza nell’occhio napolitano e ad ignorare la trave in quello piemontese, ad esempio a proposito della leva militare, resa obbligatoria dai “liberatori” – che però avevano avuto il grande merito di organizzare i “ludi cartacei” elettorali:
È necessario qui osservare quanto buon senso, carità, riguardi e libertà si usavano in quella legge detta di leva da un re, che i settarii voleano far credere nemico dell’intelligenza e tiranno. Ferdinando II non troncava bruscamente la carriera di un giovane scienziato o artista; non metteva le famiglie nella dura necessità di rimanere senza sostegni; ed infine accordava a tutti la libertà di abbandonare lo stato secolaresco e dedicarsi ad una vita di perfezione. È questa la vera libertà che dovrebbero darci i governi che si vantano umanitarii e liberali, e non già l’altra, che a nulla ci giova, cioè che, avendo un determinato censo, possiamo mettere nell’urna un voto per eleggere un così detto rappresentante della nazione. Il quale, o per cattiveria, o perché comprato da’ governanti, in cambio di sostenere i dritti di coloro che lo elessero, propugna i suoi, e quelli degli amici, o gli altri del governo-partito; e tutto questo supposto sempre che non vi sia intrigo nelle elezioni. Gli uomini di buona fede e di buon senso, invece di farsi imporre dalle frasi altosonanti di libertà e di progresso, dovrebbero studiare e confrontare le leggi fatte dai tiranni con quelle che ci han regalate i rigeneratori de’ popoli.[12]
Che la propaganda fosse in azione anche a livello internazionale era perfettamente chiaro per Buttà:
Gli stranieri, che venivano a Napoli, doveano parlare e stampare dello stato abbietto come vestivano e conducevansi i lazzari: ma in realtà, costoro erano meno immorali dei loro derisori in guanti gialli e profumati. Si doveano esporre e pubblicare per le stampe le sconcezze di questa capitale, mentre se ne trovavano peggiori nelle altre città che si dicevano incivilite; e si giungeva fino all’impudenza di parlarne come se la sola Napoli fosse travagliata di que’ mali comuni al genere umano; finendo sempre col prediletto ritornello: tutto causa l’infame governo de’ Borboni. Intanto nulla si dicea, perché nulla si dovea dire, di quanto vi è di bello e di buono in questa città ed in tutto il regno, e di quanto Ferdinando II avea fatto e facea per migliorare le condizioni de’ suoi popoli.[13]
L’ipocrisia giungeva ad un punto tale che,
quando i suoi detrattori non poteano farne a meno di accennare le opere pubbliche di quel sovrano, assicuravano, che egli l’avesse fatte per meglio tenere schiavi i suoi soggetti. Difatti perché fu il primo in Italia ad introdurre in questo regno i battelli a vapore e le strade ferrate, si disse che facea ciò per avere i mezzi più pronti di condurre la soldatesca da un punto all’altro ed opprimere i popoli, nel caso che costoro avessero voluto liberarsi dalla tirannia; lo stesso si disse pe’ telegrafi elettrici, cioè che gli servivano per conoscer subito i movimenti delle province contro di lui.[14]
Una propaganda così costante e martellante che lo stesso Buttà ammette:
A dirvi il vero, anch’io avea creduto tutte quelle calunnie settarie; ma mi disingannai pienamente nel 1851. Da quell’anno fino al 1854 soggiornai in varie capitali degli Stati d’Italia, e mi convinsi che il nostro paese era il migliore amministrato ed in tutti i rami, non escluso quello della tanto detestata polizia borbonica. In quanto poi al Piemonte, che da’ rivoluzionarii ci era presentato come governo modello, riportai in patria orribili convinzioni; ma avendo comunicato quanto avea veduto ed osservato a’ miei amici, costoro mi guardarono bieco, e chi sa se non avessero pensato che io mi fossi venduto alla polizia per ispacciare quelle notizie; mentre da questa non ero veduto di buon’occhio, per la sola ragione che avevo la smania di viaggiar sempre. La sètta avea talmente inoculato il suo veleno in questo Regno, che guai a colui che non avesse proclamato questo tirannico e quello del Piemonte il più progressista, il più giusto ed anche il più ricco del mondo![15]
Miopia della politica amministrativa e culturale borbonica
All’opera della propaganda si sarebbe dovuta contrapporre una controffensiva di pari valore, ma quest’ultima mancò sempre di mordente, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo. La Dinastia borbonica non comprese l’importanza di una risposta capillare, anziché di una assai più aristocratica (ma anche del tutto inconcludente) sprezzante superiorità, nella illusoria convinzione che sarebbero stati i fatti a parlare. Ma se i fatti venivano distorti e gli stessi primati del Regno ritorti contro chi li aveva creati (come il caso sopra citato dei battelli a vapore, delle ferrovie, dei telegrafi elettrici)?!
Dalla parte opposta l’offensiva era pesante: l’invasione militare garibaldino-piemontese fu preceduta da un best-seller del tempo come lo scandalistico Storie segrete dei Borboni di Napoli (1857) di Giovanni La Cecilia[16] (poi pentitosi amaramente, ma troppo tardi) e seguita da una Storia dei Borboni di Napoli (Napoli 1862), altrettanto faziosa e inattendibile, ma affidata alla penna più conosciuta del momento: quella di Alexandre Dumas padre. Di fronte a tanto nome, i pur bravi Giacinto de’ Sivo, Giuseppe Buttà, Gennaro Marulli, il romanzo satirico Il conte Durante del pentito Duca di Proto[17] oppure l’anonimo autore di Ernesto il disingannato[18] (1874), il primo romanzo borbonico – e soprattutto carlista – della letteratura italiana, potevano ben poco.
La politica borbonica non seppe o non volle (forse perché imbrigliata dai lacci dell’amalgama) opporre una contropropaganda capace di contrastare quella avversaria.
A questa scelta (suicida) di non belligeranza, si affianca la politica (altrettanto suicida) del perdonismo, costantemente reiterato dopo il 1815, quando non era più imposto dal Trattato di casa Lanza. Un solo esempio:
[Alessandro] Begani ritornò nel Regno con gli amnistiati del 1820, e si ribellò di nuovo contro colui che avealo beneficato insieme alla sua famiglia. I rivoluzionari son sempre gli stessi, anzi i beneficati divengono gli acerrimi nemici de’ sovrani benefattori; e guai se costoro sono tanto insipienti da metterli al potere! Nonpertanto dopo la morte di quel maresciallo, re Ferdinando II onorò la vedova e le figlie, dando financo alle stesse la pensione di grazia.[19]
L’errore fatto con Begani fu costantemente reiterato[20], nella pia e vana illusione che i perdonati avrebbero voluto riscattarsi, divenendo fedelissimi. Il solo nome di Liborio Romano (esiliato nel 1848, graziato nel 1855 e assurdamente asceso a capo della polizia nel 1860) vale per tutti.
Del resto, la miopia di certa politica borbonica “buonista” aveva radici antiche: alle già viste nomine di cattedratici «non tenendo conto de’ loro principii politici quantunque conosciuti!»[21] si affiancavano la decisione di abolire l’antichissima magistratura dei Sedili (cioè il corpo dell’aristocrazia napoletana) all’indomani della prima restaurazione (25 aprile 1800) e la scelta di mantenere la legislazione imposta dal Codice Napoleone dopo la seconda restaurazione (1816) abolendo l’antico e tradizionale diritto napolitano: provvedimenti antitradizionali, in linea con l’assolutismo e che nessuna Potenza estera aveva minimamente pensato di imporre.
Analisi profonda della situazione
Durante la lettura del presente saggio non si può fare a meno di apprezzare la capacità di Buttà di rendersi perfettamente conto della situazione politica.
Così avviene per la distinzione semantica, fatta talvolta con spontaneità tra gli aggettivi italiano, italico (la Penisola, ad esempio, viene definita solo italica, mai italiana) e italianissimo, usato ironicamente e riservato, ovviamente, ai “patrioti”, cioè ai rivoluzionari e agli invasori.
E così avviene, venendo ad un ambito più strettamente politico, quando sottolinea l’interesse dei rivoluzionari a creare una situazione di disagio e quindi a impedire riforme e miglioramenti realizzati dal governo in carica:
Io già l’ho detto e giova ripeterlo, i rivoluzionarii odiano e detestano il bene che i sovrani fanno agli Stati; perché vien lor meno uno de’ pretesti, col quale fan leva per rovesciare i troni e schiacciare sotto i loro rottami i popoli innocenti. Ecco la vera ragione per cui si mostrano incontentabili, criticando e malignando le opere più commendevoli ed utili de’ re, poco curandosi se cadono nella più flagrante contraddizione.[22]
I rivoluzionari, i sedicenti “patrioti”, sono uno dei bersagli preferiti di Buttà (assieme a Colletta, spesso indicato come «l’Eroe di Antrodoco» per immortalare la sua fuga nella prima battaglia del Risorgimento italiano del marzo 1821). A loro riserva strali feroci, sottolineandone la vigliaccheria, gli interessi personali, la prontezza al tradimento. Ecco i giacobini del 1799 convertiti in monarchici all’arrivo dei Napoleonidi:
I patrioti, conoscendo che il loro tempo era finito e cominciava un governo ferreo di nuova Signoria, cambiarono subito livrea, rinnegando la loro repubblica, perché prevedevano che sarebbero stati perseguitati ad oltranza più de’ borbonici, se non avessero applaudito e sorretto il nuovo ordine di cose, che facea luccicare a’ loro occhi ricchezze e potenza.[23]
Ma le critiche dello scrittore sono rivolte anche agli aristocratici che non si dimostrarono così saldi nella fedeltà al loro legittimo Monarca:
Non pochi aristocratici, dimenticando i benefizi ricevuti dal legittimo principe, vilmente lo rinnegarono; essi per quanto si erano mostrati provocanti borbonici, tanto più si mostrarono abbietti servi dello straniero; oprarono in questo modo per quell’innata ingordigia di non perdere i vantaggi che goduti aveano sotto il passato governo. La storia di questi burbanzosi langravi si ripete sempre la stessa; eglino seguirono i Borboni nell’esilio fin che ebbero speranza nel ritorno di costoro, quando questa lor venne meno, come mandria d’idolatri, si voltarono per adorare il sol nascente, commettendo viltà ed abbiettezze. Oggi appunto tanti beneficati aristocratici, che son nobili e ricchi in grazia della legittima dinastia, ci danno lo spettacolo il più ributtante d’ingratitudine e servilismo, da farsi disprezzare da quelli che ora incensano, mentre un tempo li perseguitarono. E son questi i nobili in cui dovrebbe specchiarsi il popolo? Oh! se son questi, mi contento esser nato da onesta famiglia popolana anzi che discendere da magnanimi lombi. Tra non guari dirò a quale stato degradante si ridussero taluni aristocratici per far piacere ad un istrione coronato.[24]
Buttà sottolinea l’epidemia di amnesia che colpì i rivoluzionari – soprattutto francesi – che erano partiti dalla repubblica nata dal regicidio per approdare all’impero napoleonico creatore di una nuova aristocrazia:
È poi da notarsi che, mentre si aboliva l’antica feudalità, si creava quella surta da’ Sanculotti della rivoluzione francese; ed è questa la solita contraddizione de’ così detti democratici![25]
Non solo in Francia: il “Robespierre a cavallo” creò più titolati in dieci anni di quanto un vero Monarca avrebbe potuto nominare in una vita: nella sua famiglia non un solo parente si salvò da un ampolloso titolo (con l’unica eccezione del fratello Luciano)[26] se non da una corona regale[27]. Tornando ai fautori del nuovo regime, Buttà coglie la contraddizione dei nuovi aristocratici francesi:
Il Regno di Giuseppe Bonaparte fu una vera anomalia ed in tutto; si abolì la feudalità e si crearono nello stesso tempo sei feudi col titolo di Ducati per ricompensare tanti rivoluzionari francesi divenuti assolutisti ed umili servitori di Robespierre à cheval.[28]
Non manca la critica al continuo aumento delle tasse e degli obblighi nello Stato postunitario rispetto a quello borbonico, che aveva avuto un precedente anche nella occupazione militare (ovvero durante la “liberazione” da parte dei Francesi):
Il 14 febbraio del 1810, venne istituito in Sicilia il catasto ed in settembre fu messa la tassa fondiaria. È questa una importazione francese, e come ho già detto, il primo a regalarla a’ napoletani fu Giuseppe Bonaparte nel 1806. Però quella tassa sotto i re francesi, si pagava alla ragione del venti per cento, cioè il quinto sulla rendita; quattro anni dopo, quando fu imposta a’ siciliani da Ferdinando IV, si pagava il cinque per cento sulla rendita effettiva.[29]
Del resto l’autore sottolinea più volte il desiderio dei liberali di prendere il potere non per instaurare il buongoverno, bensì al fine mettere le mani sull’erario, distribuendo prebende, sperperando denaro pubblico e di conseguenza caricando di nuovi balzelli i poveri sudditi (non senza averli elevati però al rango di cittadini!):
Siccome tutte le operazioni de’ padri della patria conchiudono con afferrar danaro, smungendolo dalle smunte tasche de’ redenti cittadini, si ordinò un altro così detto mutuo testatico, forzoso già s’intende, di un milione ed ottocentomila ducati.[30]
E Buttà si rivela più ripieno di vero spirito patrio dei sedicenti patrioti, che intendono per tali solo coloro che sono a loro ideologicamente affini – in perfetta mentalità giacobina – e non coloro che provengono, in senso etimologico, dalla stessa patria:
Lettori, son sicuro che il giusto vostro orgoglio nazionale, al pari del mio, è rimasto soddisfatto nel sentire il modo come combattettero i nostri nazionali soldati contro la flotta inglese[31], ad onta che essi non pugnassero pe’ veri interessi della nostra patria. Voi non siete come i rivoluzionarii, che occultano o travisano i trionfi nazionali sol perché non fanno i loro interessi; al contrario si mostrano essi soddisfatti delle umiliazioni patrie a loro favorevoli; e nel descriverle aggravano le tinte dichiarando vili e peggio i proprii concittadini, ed esaltano il valore, la moderazione ed anche la generosità dello straniero, che saccheggia le nostre case e si appropria del nostro terreno. Oh, i settarii non hanno né cuore né patria![32]
Del resto il disprezzo verso i sedicenti patrioti appare evidente in passaggi come il seguente in cui – allora come ora – i rivoluzionari sono pronti a far la guerra, ma pretendono (sia che si trovino sulle barricate di Toledo nel 1848 sia che si aggirino nelle strade di Genova nel 2001) che i loro avversari le buschino senza replicare:
Voi, lo sapete, lettori miei, cioè che i rivoluzionarii, quando son picchiati di santa ragione, si vendicano con proclamare la soldatesca assassina e peggio; quando poi la medesima usa misericordia a’ vinti è vigliacca. Nulla poi dico che i medesimi patrioti, rigeneratori de’ popoli oppressi, han la inqualificabile pretensione che a loro è lecito uccidere in tutt’i modi più crudeli e sleali i loro nemici, ed a costoro neppure intendono accordare il dritto della legittima difesa.[33]
Il solito errore reiterato
Purtroppo, in tanta acutezza di analisi (la precedente critica al diritto unilaterale di sparare da parte dei rivoluzionari è tuttora valida) anche in Buttà non manca il solito errore di una visione distorta del periodo imperiale ispanico (vulgo: vicereale spagnolo). Ecco una “chicca” con cui si apre il primo volume:
Chi si facesse a volger lo sguardo sul Reame di Napoli, quando trovavasi sotto il dominio spagnuolo o tedesco, altrove inorridito lo rivolgerebbe […]
Carlo III, appena libero dalle ostilità de’ nemici, rivolse il pensiero a riordinare il caos amministrativo di questo Reame, essendovi in tutto costumi, leggi ed ordinamenti spagnuoli, non tutti confacenti all’indole del nostro popolo.[34]
È vero il contrario: il diritto tradizionale, fino all’occupazione militare francese, che impose il Codice Napoleone, nasceva dalla consuetudine. In tutto l’Impero ispanico, gli Spagnoli non imposero mai alcuna legge castigliana (con l’unica eccezione del Vicereame del Perù, ma anche lì con i dovuti distinguo): ogni Regno aveva il proprio diritto (e quindi quello napoletano differiva da quello siciliano) e non ci fu mai la pretesa assolutista di omologare leggi o lingue “castiglianizzandole” (la proposta in tal senso di Tommaso Campanella[35] non fu neanche considerata da Filippo III).
Viceversa, con la “restaurazione” (che restaurò ben poco) si mantenne il diritto francese che era stato imposto dai dominatori – questo sì del tutto non confacente all’indole del popolo –, cambiando solo il frontespizio del codice.
Il fatto è che il pregiudizio antispagnolo era dovuto a oltre un secolo di propaganda (su cui si è basata, tra l’altro, proprio la “costruzione” del concetto e del sentimento di “italianità”[36], inesistente fino all’800[37] – gli “appelli” di Dante e Petrarca, che dovrebbero essere contestualizzati, fanno riferimento ad una identità culturale, prima che politica) ed è comprensibile (ma non accettabile) che anche chi era stato vittima dell’antispagnolismo – come i difensori del Regno delle Due Sicilie – ripetesse la solita, trita storia. Del resto, pure Giacinto de’ Sivo avrebbe scritto: «L’unità per noi è ruina. In nome della libertà ne vien tolta la libertà; perdiamo il dono di Carlo III; ritorniamo a’ Viceré, anzi a’ luogotenenti, anzi a’ prefetti, anzi a’ molti prefetti, per esser menati con la frusta. Siam costretti a pagare i debiti fatti dal Piemonte appunto per corrompere e comprare il nostro paese»[38].
Ed era in buona compagnia, se lo stesso Francesco II (molto mal consigliato – ma gli ex fuoriusciti del 1848 chiamati a fargli da consiglieri li aveva scelti lui) nel suo ultimo atto ufficiale redatto a Napoli (Proclama del 6 settembre 1860) si era definito «discendente d’una dinastia che per 126 anni regnò in queste contrade continentali, dopo averle salvate dagli orrori d’un lungo governo viceregnale»[39].
Conclusioni
Alla fine della lettura de I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli, constatando la falsità dell’immagine che ci hanno sempre propagandato e lo sviluppo che il Reame aveva raggiunto, è lecito chiedersi: la caduta del Regno poteva essere impedita? Dal punto di vista politico, sembra difficile, perché le cause politiche interne risalgono almeno al 1799, se non prima; anche se indubbiamente la concessione della terza costituzione portò con sé un necessario, ulteriore indebolimento del potere statale, come Buttà considerava già a proposito della costituzione siciliana del 1812:
Io rispetto tutte le opinioni oneste, però abbomino i governi detti misti, non essendovi in fatto responsabilità né del potere legislativo, né di quello esecutivo. I governi costituzionali come li vediamo oggi, sono un misto di democrazia, aristocrazia e monarchia; sembrano ottimi in teoria, come la repubblica di Platone, e riescono pessimi in pratica. Nulla poi dico de’ grandi mali che arrecano quando il potere esecutivo domina quello giudiziario, ed intriga sulla nomina de’ deputati; allora sì, divengono col fatto pessimi. Se io avessi la disgrazia di esser re, e volessi tiranneggiare il mio popolo, darei una costituzione, combinata in modo che i miei ministri potessero intrigare per l’elezioni politiche e dominare la magistratura; così potrei tiranneggiare il popolo a nome dello stesso popolo.[40]
Forse, dal punto di vista strettamente militare, laddove il comando fosse stato affidato a un generale di valore, anziché ai vari ufficiali cialtroni e/o venduti al nemico, alcune battaglie si sarebbero potute agevolmente vincere e, fermando Garibaldi in Sicilia, si sarebbe potuta dare una svolta diversa alla Storia. Buttà lo dice espressamente, rimpiangendo il fatto che la guida dell’esercito non sia stata assunta (per propria volontà) da Carlo Filangieri. Ma anche in lui riconosce alcuni limiti, che sono poi quelli della politica borbonica in generale:
Però gli uomini siccome non son pessimi, del pari neppure sono ottimi; quindi, con la mia solita franchezza, dirò eziandio le colpe del mio eroe. [Nel 1848] Egli strappò la Sicilia dalle rapaci ed insanguinate mani della demagogia, rendendo non solo un segnalato servizio a quell’Isola e al resto del Regno, ma all’Italia ed alla stessa Europa; dappoiché i tristissimi casi del 1860 sarebbero avvenuti nel 1848, se l’esercito napoletano non fosse stato capitanato da un Carlo Filangieri. Dalla Sicilia partì il grido di rivoluzione, che commosse popoli e troni, e questo gran capitano la conquise col suo senno e col suo poderoso braccio. Egli però volle usare assai moderazione co’ rivoluzionarii, proteggendoli troppo; e così lasciò un lievito, che fermentato produsse i deplorevoli danni del 1860. Magnanimo fu veramente, quando si fece mediatore ed intercessore presso il sovrano, per ottenere il facile perdono de’ ribelli, che aveano anche lui calunniato bassamente; ma fu gran fallo aver lasciato costoro ne’ posti, che aveano ghermiti nella ribellione a danno degli uomini dell’ordine ed affezionati alla dinastia. Fu eziandio gran colpa ed imperdonabile l’aver dato cariche a’ capi della sicula rivoluzione, chiudendo gli orecchi a’ giusti reclami degli offesi; e proseguendo a governare in nome del legittimo principe, preparava novella e più fiera rivolta. La gente onesta ed i borbonici, maltrattati e derubati, attesero invano i meritati compensi; i rivoltosi, i ladri e gli assassini si godettero il maltolto, insultando perfino le loro vittime superstiti, e lasciando nelle menti popolari l’utilità della colpa: questa ricordanza non fu l’ultima causa che produsse la catastrofe del 1860.[41]
«Fu gran fallo aver lasciato costoro ne’ posti, che aveano ghermiti nella ribellione a danno degli uomini dell’ordine ed affezionati alla dinastia»: questa frase non sintetizza forse l’errore pluridecennale causato dalla “politica dell’amalgama”? Nel 1860 la struttura burocratica napolitana era troppo corrotta, troppo infiltrata da elementi liberali per poter pensare che un diverso comando dato nella battaglia di Calatafimi o in quella di Milazzo potesse modificare le sorti non dico della campagna militare, ma della vicenda politica del Regno. Del resto, un Regno pacifico e profondamente cattolico, sostanzialmente arrendevole come quello borbonico non avrebbe potuto competere, nel corso dei decenni, con la “concorrenza” di nazioni aggressive, di mentalità protestante (ancorché ufficialmente cattoliche), con ministri che alla lettura del breviario o della Filotea preferivano quella de Il Principe di Machiavelli… Dal 1799 in poi non si è trattato che di rimandare una fine prevedibile: i giacobini repubblicani che – convertitisi in monarchici – avevano servito i Napoleonidi, rimasti ai loro posti avrebbero pilotato la rivoluzione carbonara del 1821 e i loro figli quella del 1848 e quella del 1860, trasformandosi da estremisti mazziniani in più moderati cavourriani. I due Ferdinandi erano riusciti a frenarli, ma non a fermarli e la decisione (imposta o autonoma che fosse) di perdonarli ha portato al necessario risultato di fornire al principale nemico l’arma con cui questo avrebbe conquistato il potere. Vagheggiare che i liberali, vistosi concesso il ritorno in patria, si commuovessero e si convertissero, era una pia illusione, come quella di chi sperava (fino a qualche anno fa) che accogliere gli islamici in Europa portasse alla loro conversione all’edonismo materialista. Una illusione che è costata ai Borbone un Regno e ai loro sudditi una vita sotto il tallone italiano: una vita fatta di tasse, di emigrazione forzata, di denigrazione del proprio passato, di sudditanza psicologica.
Infine vale la pena rileggere una considerazione di Buttà su Murat, ma che non può non far pensare – visto che fu scritta nel 1875 – ai fatti del 1860.
[Murat] Spedì la sua piccola flotta a Gaeta; la stessa era composta di una fregata, una corvetta e trentotto barche cannoniere. Dispose che la sua famiglia si recasse in quella fortezza per essere in salvo d’ogni evento a lui contrario. A quest’ultima disposizione si oppose il ministro Saliceti e sua moglie Carolina, facendogli riflettere che avrebbe scoraggiato tutt’i partigiani de’ francesi.[42]
Implicito il giudizio sulla sciagurata scelta di Francesco II di non affrontare i garibaldini in campo aperto, ma di chiudersi nella fortezza ai confini del Regno in attesa che qualcun altro (l’Austria? la Francia? la Russia?) venisse a togliergli le castagne dal fuoco. Il risultato fu, senza dubbio, di scoraggiare a Napoli “tutt’i partigiani dei Borbone”.
E torna alla mente l’ordine dato ai soldati in Sicilia nel 1848: «Ritirarsi difendendosi»[43]. Cioè evitare di attaccare, evidentemente per non rendersi odiosi alla popolazione. Al contrario, i nemici dei Borbone, hanno preferito attaccare avanzando e, guarda caso, sono riusciti vincitori.
Gianandrea de Antonellis
Castellammare di Stabia, 13 giugno 2021,
S. Antonio “gloriuso”
[1] Carlo Alianello, L’alfiere, Osanna, Venosa 2000, p. 97.
[2] Ibid.
[3] Giuseppe Buttà, I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli, II, 7; corsivo mio.
[4] Luigi Del Pozzo, Cronaca civile e militare delle Due Sicilie sotto la dinastia borbonica, Napoli 1857; edizione moderna: Ripostes, Cava de’ Tirreni 2011.
[5] Le cui mendaci lettere aperte al conte di Aberdeen (1851) sono state recentemente ripubblicate, con testo originale a fronte, numerosi documenti e buona ricostruzione dell’affaire, con il titolo Lettere sul Regno di Napoli, dalle edizioni Trabant (Brindisi 2015).
[6] «La metafisica di Genovesi risultava influenzata dal razionalismo e dall’empirismo di Locke, che si risolvevano in una drastica demolizione del linguaggio e delle categorie filosofiche e teologiche tradizionali». Giulio De Martino, L’illuminismo meridionale. La tradizione filosofica del Regno di Napoli tra ’600 e ’700, Liguori, Napoli 1995, p. 90.
[7] I Borboni di Napoli…, I, 5. Il punto esclamativo è nell’originale.
[8] Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta. Memorie della rivoluzione 1860-1861, Trabant, Brindisi 2009, p. 384.
[9] Infatti cinque anni dopo, ancor prima dello scoppio dei moti carbonari, il Principe di Canosa avrebbe ammonito: «Questa regola ha fallato. Abbiamo veduto difatti militari così disonorati e perversi che, a dispetto di ogni buon trattamento e gratitudine, sono diventati i più accaniti traditori dei Monarchi loro benefattori. Questa terribile lezione dovrebbe confermarci nella massima molto più vera, che con la canaglia rivoluzionaria non si può mai transigere e che coloro che hanno una malattia di cuore, sia essa fisica, sia morale, non guariscono giammai». Antonio Capece Minutolo, I piffari di montagna (1820), in Idem, Saggi politici (1796-1820), Solfanelli, Chieti 2021, p. 262, n. 89.
[10] Ivi, p. 262-263.
[11] I Borboni di Napoli…, I, 20.
[12] I Borboni di Napoli…, II, 4.
[13] I Borboni di Napoli…, II, 6.
[14] I Borboni di Napoli…, II, 6.
[15] I Borboni di Napoli…, II, 6.
[16] Storie segrete delle famiglie reali o Misteri della vita intima dei Borboni di Francia, di Spagna, di Parma, di Napoli, e della famiglia Absburgo-Lorena d’Austria e di Toscana per Giovanni La Cecilia, IV volumi, A spese degli Editori, Genova 1857. Se ne contano almeno altre tre edizioni genovesi (1859, 1860, 1862) e due palermitane (1860 e 1862).
[17] Il Conte Durante. Racconto di Ausonio Vero per il sesto centenario di Dante, Italia 1864. L’autore era il deputato del parlamento italiano Francesco Marzio Proto Carafa Pallavicino, duca di Maddaloni (1815-1892), fuoriuscito del 1848.
[18] Il passato ed il presente, ovvero, Ernesto il disingannato, ora riproposto da D’Amico, Nocera Superiore (Salerno) 2017, prefazione di S.A.R. Don Sisto Enrico di Borbone; introduzione e cura del testo Gianandrea de Antonellis; postfazione di Francesco Maurizio Di Giovine; con due scritti inediti di Don Carlos VII e di Francisco Elías de Tejada.
[19] I Borboni di Napoli…, I, 28.
[20] Peraltro, anche l’accusa di inventare prove false per incarcerare innocenti, formulata dal Gladstone, risulta ben poco compatibile (e quindi credibile) con la successiva politica perdonista…
[21] I Borboni di Napoli…, I, 5.
[22] I Borboni di Napoli…, III, 3.
[23] I Borboni di Napoli…, I, 18.
[24] I Borboni di Napoli…, I, 18.
[25] I Borboni di Napoli…, I, 21.
[26] Che in compenso ebbe tre titoli principeschi pontifici: Pio VII lo nominò Principe di Canino (1814), Leone XII aggiunse quello di Musignano (1824) e Gregorio XVI gli concesse il titolo sul cognome (1837).
[27] In ordine di nascita: Giuseppe, re di Napoli e poi di Spagna; Elisa, granduchessa di Toscana, principessa di Lucca e Piombino e duchessa di Massa e principessa di Carrara; Luigi, re d’Olanda; Paolina, duchessa di Guastalla (poi principessa Borghese); Carolina, granduchessa di Berg e Cleves e poi consorte di Napoli, in quanto moglie di Gioacchino Murat; Girolamo, re di Vestfalia. Lo stesso Bernadotte, che da giacobino si era fatto tatuare sul petto la scritta «Morte ai re», grazie al matrimonio con Désirée Clary, ex amante di Napoleone e cognata di suo fratello Giuseppe, entrò nel “clan Bonaparte” e si ritrovò in testa la corona di Svezia…
[28] I Borboni di Napoli…, I, 21.
[29] I Borboni di Napoli…, I, 23.
[30] I Borboni di Napoli…, II, 22.
[31] Buttà ha appena descritto lo scontro del 27 giugno 1807 nel golfo di Napoli, quando Giovanni Bausan tenne coraggiosamente fronte alla flotta inglese, preponderante per numero e per armamento, con la sola flotta napoletana, senza l’aiuto di quella francese.
[32] I Borboni di Napoli…, I, 22.
[33] I Borboni di Napoli…, II, 9.
[34] I Borboni di Napoli…, I, 1 e 2; corsivo mio.
[35] Cfr. Tommaso Campanella, La Monarchia di Spagna, «Napoli Imperiale Ispanica» 3, D’Amico, Nocera Superiore (Salerno) 2023, p. 64: «E avendo il Re da acquistare il mondo, deve tutte le genti spagnolare, cioè farle spagnole».
[36] Cfr., sull’argomento, Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana, a cura di Aurelio Musi, Guerini e Associati, Milano 2003; Giovanni Turco, Antispagnolismo ed unitarismo risorgimentali. Tra storiografia e teoria giuridico-politica, introduzione a Francisco Elías de Tejada, Sardegna ispanica, Solfanelli, Chieti 2020, p. 9-58.
[37] Su questo punto mi permetto di rimandare al mio L’Italia non esiste. «Una d’arme, di lingua, d’altare»? considerazioni sull’identità italiana pre- e post-risorgimentale, Anales de la Fundación Francisco Elías de Tejada (Madrid), XXV (2020), p. 119-142.
[38] Giacinto de’ Sivo, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, cap. IX, Il Giglio, Napoli 2016, p. 65; corsivo mio. Imbarazzante mettere i Viceré spagnoli sullo stesso piano dei prefetti piemontesi, ma il paragone è dovuto evidentemente a un pregiudizio diffuso, causato da una deformazione storica pressoché – almeno fino ai nostri giorni – inestinguibile.
[39] Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Trabant, Brindisi 2009, II, 218). Corsivo mio.
[40] I Borboni di Napoli…, I, 28.
[41] I Borboni di Napoli…, II, 24.
[42] I Borboni di Napoli…, I, 21. Corsivo mio.
[43] I Borboni di Napoli…, II, 9.