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Giuseppe Napoleone Ricciardi antiborbonico, forse, chissà, booo

Posted by on Ott 23, 2020

Giuseppe Napoleone Ricciardi antiborbonico, forse, chissà, booo

Giuseppe Napoleone Ricciardi, napoletano appartenente ad una famiglia di giuristi, di ministri, di marchesi e componente di una parte quella bella gioventù napolitana che nonostante ricopriva importanti ruoli istituzionali con la possibilità di pubblicare in piena libertà, siamo nel 1832, la rivista Il Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti, si fece inoculare da un forte sentimento antiborbonico in nome dell’Unità d’Italia.

Il Ricciardi era un repubblicano e fervente mazziniano passato alle cronache per il suo attivismo politico rivoluzionario, per la sua intensa attività parlamentare nei primi dieci anni del Regno d’Italia e per aver organizzato l’anticoncilio a Napoli in risposta al Concilio Vaticano I voluto da Pio IX.

Tra i suo numerosi interventi alla camera dei deputati c’è da segnalare quello che ha tenuto il 20 maggio 1861, scoperto leggendo il testo Verità e Menzogne sul Brigantaggio scritto da Gaetano Marabello, dove praticamente elenca una serie innumerevoli di inadempienze del neonato Regno italiano nei confronti di Napoli e di tutto il suo ex Regno dallo stato della magistrattura, dall’esercito disciolto, dall’ordine pubblico, dal disastro dell’attività pubblica, dalla tassazione vorace, dalla dilagante corruzione, dal trattamento riservato ai prelati e dallo stato dell’istruzione cancellata dall’oggi e domani;per sintetizzare lo stato di abbandono e di anarchia in cui era precipitata l’ex capitale.

Leggendo gli atti parlamentari di quella giornata sembra di vedere quello che accade oggi, pensate che denuncia l’eccessivo uso dei decreti da parte del governo, che ti fa capire come non sia cambiato nulla e che l’Italia è un paese nato morto.

Di seguito in versione pdf la seduta parlamentare del 20 maggio 1861 estratto dal sito della camera dei deputati e una sintesi degli interventi di Giuseppe Napoleone Ricciardi curata da Raimondo Rotondi

Claudio Saltarelli

INTERPELLANZE SULLE COSE DI NAPOLI

presidente. L’ordine del giorno reca gli schiarimenti domandati dal deputato Ricciardi, intorno alle cose attuali di Napoli, al ministro dell’interno.

Il deputato Ricciardi ha facoltà di parlare.

Ricciardi. Signori, la questione italiana, come già ebbi l’onore di dirvi, sta in questo momento nella questione delle provincie napolitane, i cui avvenimenti esercitarono sempre un’alta influenza sui fati d’Italia, influenza alcune volte funesta.

E veniva citando ad esempio due epoche dolorose, quella del 1821 e quella del 1848. Quella del 1821, allorché, caduta la libertà in Napoli, ogni libertà veniva annullata per lunga pezza in Italia; quella del 1848, quando, vincitore in Napoli Ferdinando Borbone il dì 18 maggio, la causa italiana in breve tempo era vinta.

E mercoledì appunto capitava per la tredicesima volta l’anniversario luttuoso di quell’infausta giornata. E dirvi io voleva, accennando a quelle sventure, quaeque ipse miserrima vidi et pars aliqua fui; Iddio faccia che Napoli non divenga una terza volta fatale all’Italia, e per colpa nostra, siccome due volte lo fu per colpa dei Borboni! Nè vi sembrino esagerate queste parole, poiché io credo essere urgente il provvedere ai mali di quelle provincie, e l’applicare i rimedi che, debbo dirlo, e lo dirò francamente e altamente, il Governo non ha punto applicati finora. Dirò, a dimostrar ciò, che ho frugato attentamente il giornale ufficiale, dal giorno 8 del mese scorso, in cui partii da Torino, sino al foglio di ieri l’altro, e non ho trovato che due soli decreti sulle provincie napolitane: il primo del 4 aprile, in virtù del quale si stabi­liscono dei comandi militari distrettuali e provinciali; il secondo del 5 maggio, in cui, sotto pretesto di determinare meglio le attribuzioni del governo locale di Napoli, venne questo completamente esautorato.

E qui, o signori, mi permetterete una storia un po’ curiosa, vale a dire quella della degradazione successiva degli uomini i quali tennero le redini del Governo in Napoli dall’entrata del generale Garibaldi, il giorno 7 settembre. All’entrare del dittatore i nuovi chiamati s’intitolavano ministri e si succiavano l’eccellenza (Ilarità generale); la quale intitolazione sembrava tanto più strana , inquantochè il dittatore non voleva neppure del vossignoria. Venuto in Napoli il Re col Farini, le eccellenze scaddero a consiglieri; nè que­sto è tutto, poiché, venuto in Napoli il Nigra, i consiglieri decaddero a segretari generali. Ora, in verità, non so che cosa il Governo pensi di farne, a meno di mutarli in uscieri o bidelli. (Nuova ilarità) Quello che è certo, o signori, si è che questa degradazione successiva ha fatto grave torto al Governo di Napoli, il quale è divenuto tanto impopolare che quasi quasi io, che sono partigiano dell’autonomia napolitana, starci per dirvi: distruggetela affatto.

In una cosa, anzi in due cose, i signori segretari generali non sono punto scaduti: 1° nel percepire 400 ducati al mese; 2° nell’essere inaccessibili ed invisibili. E vi dirò che questa inaccessibilità ed invisibilità loro non ha poco contribuito al malcontento generale. (Ohi ohi)

Aggiungerò che questa inaccessibilità ed invisibilità è co­mune anche al principe di Carignano ed al signor Nigra (Mormorio); cosa tanto più strana che i pubblici funzionari dal primo all’ultimo altro essere non dovrebbero che i servitori del pubblico. »

Di Cavour C., presidente del Consiglio. Ma non dei postulanti.

Ricciardi. Poiché io vi parlava del malcontento gene­rale e profondo di quel paese, dirovvi che durante un mese intero io non ho fatto che udire un lamento perenne. Io ho visto in Napoli uomini di tutti i colori. E qui bisogna che io vi dipinga un po’ l’uomo che vi parla in questo momento. In me sono in certo modo due uomini: c’è l’uomo involonta­riamente aristocratico per grado sociale e c’è l’uomo demo­cratico per convincimento antico e profondo. Ebbene, o signori, questa mia duplice qualità mi mette in grado di essere in relazione con qualsiasi persona. Io vedo in Napoli gente di ogni condizione, dal principe e duca fino all’ultimo popolano, di modo che sembro un uomo fatto a posta per conoscere e dirvi la verità. (Viva ilarità) Nè vi spaventi, o signori, il sedere io all’estrema sinistra, poiché credo sappiate che io non siedo qui per vanità o per ambizione, nè tanto io qui siedo per un’antipatia antica, invincibile pel principio d’autorità, ma in virtù di un’aspirazione ardente e profonda verso la perfezione, tipo di perfezione insperabile forse in questo misero mondo, e ch’io pure vagheggio e vagheggierò sino all’ultimo giorno della mia vita, tenendo in mente mai sempre il bene della mia patria.

A facilitare la mia esposizione, io aggiungerò un’altra cir­costanza.

Gli onorevoli ministri impugneranno la mia relazione, di­cendo: ma le nostre relazioni sono affatto diverse da quelle che voi ci fate. Io farò loro riflettere che havvi una certa differenza fra le loro relazioni e quella che posso far io.

Essi, da chi ricevono le loro relazioni? Dai loro subordi­nati, dai segretari generali, dai governatori delle Provincie.

Ora, o signori, costoro sono uomini, i quali debbono na­turalmente non darsi della zappa sui piedi, non possono dire che le cose vanno tanto male, perchè gran parte della colpa sarebbe loro, mentre io sono affatto disinteressato, io vi dico quello di cui sono sicuro per le relazioni ricevute da persone degne di fede.

Se i vostri agenti vi dicessero: tutto va male, sarebbero eroi, ed io degli eroi ne ho celebrati parecchi come poeta, ma nella vita reale ne ho conosciuti pochissimi. (Bravo!)

Inviterò dunque il signor ministro ad un’escursione nelle Provincie, avvertendolo che il viaggio sarà poco piacevole, se non altro perchè c’imbatteremo ad ogni passo nei ladri.

E stamane stessa, nel metter piede in questa Camera, ho avuto alcune nuove lettere, le quali provano la verità di quanto asserisco; per esempio, ecco una lettera del 17 mag­gio, vale a dire molto recente, datata da Napoli, la quale dice:

«La diligenza fu assalita dai briganti presso Cancello, a circa otto miglia da Napoli, e il corriere fu ucciso.»

Una seconda lettera è del nostro collega Gaetano De Peppo, il quale si trova a Napoli, e così scrive all’onorevole Moffa:

« Napoli, 16 maggio 1861.

Stamattina ricevo notizia dalle Puglie da persona pre­sente al fatto, che, nel giorno 14 corrente, 700 briganti del Gargano, al grido di Viva Francesco II, hanno assalito il paese Matinata, e lo hanno spogliato di tutto; indi si son gettati nelle diverse masserie, appropriandosi quanto ci hanno trovato.

«Quel diligente governatore ha spedito immediatamente una forza; ma son 700 uomini reazionari, e chi sa quanti altri vi si possono riunire. Bisogna bene pensarci, perchè i fatti si rendono gravi e le conseguenze possono essere funeste. Ho rilevato da un telegramma che l’amico conte Ric­ciardi faccia interpellanza al ministro lunedì… »

Potrei citare altri fatti dolorosi; per esempio, un cognato, di mio fratello, il conte Daghenausen, ha subito uno di que­gli attentati celebri negli annali del brigantaggio, vale a dire che, assalito in Castellamare dai malfattori, è stato costretto a sottoscrivere una cambiale di 800 ducati. Due di questi fatti sono avvenuti nella stessa città di Napoli! Nei dintorni di Napoli, suonata l’avemaria, nessuno esce di casa. Questo è uno stato di cose intollerabile, tanto più che moltissima truppa abbiamo nel regno, massime in Napoli, ed oltre la guardia nazionale abbiamo i carabinieri e la polizia.

Ora, o signori, bisogna ch’io vi dia un sunto delle cento lettere che ho ricevute dalle Provincie e delle relazioni orali che mi vennero fatte da provinciali venuti espressamente a Napoli per riferire sullo stato delle loro Provincie. Domando un po’ di pazienza. Queste relazioni sono gravissime, e ne assumo tutta la responsabilità. Non ho fatto che prendere il sugo di tutte queste lettere, tralasciando i fatti di poca im­portanza, per attenermi a quelli di maggior gravità, ed ho piuttosto attenuato, che esagerato le cose.

«Provincia di Molise. Il governatore Giuseppe Belli è un uomo onesto e pieno di buon volere, ma debole e poco ca­pace.

«Tribunali civili… » (Rumori*. Il deputato Bixio ed altri fanno richiami)

Presidente. Prego l’onorevole Ricciardi a restringersi alla sola esposizione dei fatti, senza discendere a cose personali.

Ricciardi. Questi sono fatti !

Voci. Sono personali! Sono giudizi!

Ricciardi. Di pubblici funzionari. Io debbo fare un quadro esatto della situazione: ora l’ex-reame di Napoli si compone di provincie, e ciascuna provincia, che si trova mal governata, ha il diritto di far sentire la sua voce; io non tocco la riputazione di nessuno; io dico: il governatore tale è giudicato in questo o in quel modo; non tocco il governa­tore che nella sua qualità di uomo politico, non dico che sia un furfante! e sebbene mi siano ora stati fatti richiami, e interruzioni, non posso a meno di dire che quel tribunale civile e criminale non sia composto di uomini mediocrissimi.

Voci. È un libello ! Sono personalità ! (Rumori e richiami)

Musolino. Signor presidente, se non si lascia parlare, pare che non si voglia conoscere Io stato del paese.

Presidente. Avvertirò ancora una volta tutti i ricla­manti che ora interrompono l’oratore, che al solo presi­dente spetta di chiamare gli oratori all’ordine, quando ecce­dano i limiti delle convenienze parlamentari, e credo di aver dato prove bastanti, come questo ufficio mi stia a cuore, per non permettere assolutamente che alcuno faccia le veci del presidente. (Bravo!) Continui l’oratore.

Ricciardi. I giudici mancano in questi tribunali da circa sei mesi, con grave danno della cosa pubblica; poco o nessun divario tra l’antico regime e il presente, miseria, ingiustizia e malversazioni; nessun provvedimento a prò dell’istruzione pubblica, nessuna intrapresa di opere pubbliche, la guardia nazionale male organizzata e malissimo armata; i soli operai della campagna hanno lavoro, nessuna idea politica nelle mol­titudini. Francesco II non ha altro merito, tranne quello di essere più noto che Vittorio Emanuele!

La reazione mossa, più che da altro, dal desiderio di sac­cheggio, nè da potersi vincere, se non col ridonare la prosperità al paese, col dare impulso all’agricoltura, al commercio e alle industrie. Attesa l’impazienza della Camera, non leggerò altro sunto oltre quello che concerne la provincia, di cui ho l’onor di seder deputato, della provincia di Capitanata: «Governatore conte Bardesono, giovanissimo, ignaro affatto degli uomini e delle cose della provincia (Movimenti), dà udienza in contegno reale e si rende sempre più impopolare per la sua albagia. Misure arbitrarie ebbero luogo per essersi la sera del 25 marzo gridato abbasso al governatore. L’amministrazione affatto, nulla. I più gridano: si sta peggio di prima! I tribunali zop­picano. Alla guardia nazionale furono distribuiti, in tutta la Capitanata, solo 2400 fucili. Esistono in essa qua e là elementi nemici. In Foggia, tra gli uffiziali, s’annoverano sette cavalieri di Francesco II. Grande la miseria nelle città per man­canza di lavoro. Nessun’opera pubblica in attività. Furti a mano armata da per ogni dove. Molti elementi di reazione, massime nel Gargano; guai se la guerra scoppiasse in sul Mincio!» (Mormorio)

In generale le relazioni delle altre provincie sono, fatte poche eccezioni, della stessa natura.

Lo stato della capitale non è certo migliore di quello delle Provincie. Debbo dir francamente avere, dopo 38 giorni di soggiorno in Torino, trovato un gran cambiamento. Voglio dire una verità dolorosa, ma debbo dirla, poiché, per curare una piaga, bisogna denudarla; la fede nell’ordine di cose presente è diminuita; non so, o signori, se il popolo convocato di nuovo nei comizi…     

Pica. Protesto contro questa asserzione con tutte le mie forze.

Massari, e molti altri deputati. Tutti, tutti protestiamo. (Rumori e segni di disapprovazione da tutte le parti della Camera.)

Presidente. Avverto il deputato Ricciardi che non posso permettere che venga a mettersi in dubbio la volontà di qualsiasi parte d’Italia di rimanere unita a tutto il regno. Tutte le città si proclamarono, e sono italiane!

Massari. (Con ìmpeto) Napoli è italiana.

Voci. Noi protestiamo tutti !

Presidente. Prego la Camera di far silenzio: io credo di avere abbastanza interpretato i suoi sentimenti…

Petruccelli. Questa è quistione politica, non nazionale.

Ricciardi. Io credo che nessuno dubiti del mio italianismo, che nessuno dubiti del mio patriottismo…

Presidente. Non metto in dubbio nè l’italianismo, nè il patriottismo del signor Ricciardi, ma non posso permettere che egli venga a mettere in forse l’italianismo delle altre parti d’Italia. (Bene! Bravo!) Le lascio facoltà di parlare, ma la prego di non tornare su questo terreno, altrimenti non potrò lasciarlo continuare.

Ricciardi. Mi limiterò allora a dirvi che la situazione è gravissima…

Leopardi. Domando la parola.

Ricciardi. Io credo in coscienza che, ove l’Austria fosse in grado di assalirci sul Mincio, ci troverebbe in serii imbarazzi. (Forti rumori) Avremmo il nemico a fronte e la reazione alle spalle. (Rumori)

Io credo che il pericolo d’Italia ci debba commovere.

La quistione in Napoli è duplice: morale e materiale; della morale parlerò or ora, veniamo alla quistione materiale, che è quella che bisogna curare il più prontamente possibile.

Havvi un gran numero di persone i cui mezzi di sussistenza sono distrutti o diminuiti; per esempio tutti coloro i quali da 15 anni hanno sofferto per la patria, hanno logorate le loro sostanze, e speravano avere impieghi (Ah! ah! Rumori), che naturalmente non han potuto ottenere; havvi l’effetto del ristagno dell’industria e del commercio; havvi per Napoli in ispecie la mancanza di forestieri, e vi dirò che non ho riconosciuto la mia città natale, tanto l’ho trovata squallida e mesta! V’aggiungi gli effetti della parifica delle tariffe tra Napoli e gli antichi Stati, la quale parifica ha fatto cadere molte fabbriche, ed ha messo alla strada un gran numero di operai. Infine tante cagioni riunite fanno sì che vi sia mancanza di mezzi per un gran numero di persone. Per conseguenza la questione, secondo me, è economica sopratutto. Verremo in seguito ai rimedi; ecco per ora svelato il male. Ne segue la necessità di far cessare al più presto possibile uno stato di miseria così profonda.

Ogni Governo nuovo la prima cosa cui debba provvedere, secondo me, è questa. Abbiamo l’esempio di Luigi Filippo e di Luigi Napoleone. Quale fu la loro cura principale salendo al trono? Ovviare alla miseria che nasce da ogni rivoluzione. Naturalmente nelle rivoluzioni i lavori, i commerci s’arrestano; quindi la miseria. Luigi Napoleone non ebbe altra cura, salendo al trono, che d’ovviare a questo gravissimo danno; ed oggi stesso qual è la sua cura principale? Quella di fare che il maggior numero non manchi mai di lavoro, e questo fa sì che la Francia sia prospera, e dimentichi quasi nella sua prosperità la libertà perduta. Ora passerò in rassegna gli altri dicasteri, e prima di tutto mi rivolgerò all’onorevole ministro dell’istruzione pubblica.

Debbo dire che non mai l’istruzione pubblica fu così in misere condizioni nell’ex-reame di Napoli quanto oggi, e nello stesso tempo, cosa assai strana, non costò mai tanto quanto oggi.

L’Università di Napoli è quasi deserta. Sono state create, oltre a ciò, molte cattedre ad honorem, e concesse a persone onorevolissime, senza dubbio, ma le quali non hanno fatto e non faranno forse mai una lezione.

Alcune cattedre sono state create per collocare Tizio, Sempronio, Caio. Ci sono poi delle facoltà dove, sopra tredici professori, non ve ne sono presenti che cinque; cosicché vi sono stati dei concorsi che si dovettero sorvegliare da cinque soli professori.

Lo stato dei licei provinciali non è punto migliore, tanto più che le povere provincie sono in generale neglette. Veniamo ora all’accademia delle belle arti. Qui accade una cosa stranissima. L’accademia è chiusa da nove mesi; ciò nonostante il suo bilancio si trova raddoppiato, che, invece di settemila ducati che prima costava, ne costa ora tredicimila, il che vuol dire che la chiusura dell’accademia è dallo Stato pagata seimila ducati all’anno.

L’insegnamento primario è nella condizione la più infelice; basti l’accennare che la maggior parte delle scuole è chiusa. In Napoli n’è aperta una sola.

Si lagnano gli artisti della capitale del non essersi messa a concorso la dispensa di alcuni quadri, per cui fu stanziata una somma considerevole, mentre fu aperto un concorso pel monumento dell’unità italiana.

Domando poi all’onorevole ministro se è vero che il gabinetto delle pietre dure sia stato chiuso.

Ora debbo entrare in una materia delicatissima, quella delle finanze. Vi confesserò che ho tentennato assai prima di risolvere se dovessi o no parlarne, ma due considerazioni mi persuasero l’affermativa: la prima è che noi dobbiamo essere i guardiani gelosi del pubblico tesoro; la seconda che il da­naro oggi ha tanto maggiore importanza, inquantochè abbiamo bisogno di provvedere a spese urgentissime per le strade ferrate e per l’accrescimento dell’esercito e della marineria militare; per conseguenza ogni più piccola somma è per me sacra, perchè so che con 25 franchi si può comprare un fucile e costruire forse un palmo di strada ferrata; per modo che non troverete strano che io faccia all’onorevole ministro delle finanze qualche domanda.

Io non credo interamente al detto: vox populi, vox Dei; credo che il popolo spesso s’inganna; ma non credo pure che un intero popolo sia capace di calunniare. Ora la voce pubblica in Napoli, abbia torto, abbia ragione, crede che le finanze napoletane siano state assai bistrattate. Io credo che solamente un’inchiesta ordinata dall’onorevole ministro delle finanze possa chiarire i dubbi e purgare l’amministrazione di questa terribile accusa.

Intanto ecco quattro fra le domande che io potrei fare: ho scelto le cose che mi sono parate riunire il maggior carattere di verità. Del resto, ripeto che io desidero che il ministro delle finanze possa smentire interamente quello che vo a dire.

È egli vero che somme considerevoli siano state pagate alla luogotenenza, oltre i due milioni di lire assegnati al principe di Carignano, e le 100.000 al commendatore Nigra?

È egli vero che sei mesi di paga siano stati anticipati dalla cassa di sconto a parecchi impiegati, contro il volere della legge, la quale non permette alla cassa di sconto d’anticipare se non solo due mesi?

È egli vero che contratti d’affitto di beni demaniali considerevoli, svantaggiosissimi per lo Stato, siano stati fatti, quello in ispecie d’un fondo sito a Ghiaia?

È egli vero che sia stato segnato un contratto, rovinoso per lo Stato, di alcuni tagli di boschi?

Il solo mezzo, io credo, di conoscere la verità, sarebbe quello d’un’inchiesta. Debbo dire, ad onore del vero, che ho dati precisi per credere che la tesoreria generale non abbia nessuna colpa in questa faccenda, poiché i pagamenti sono stati fatti regolarmente, vale a dire sopra mandati regolari; di modo che bisognerebbe piuttosto indagare il male doman­dando schiarimenti a quelli che hanno ricevuto il danaro. Io credo che l’inchiesta farà conoscere forse dei fatti gravi, e, fra gli altri, questo, il quale ho sentito generalmente, vale a dire che tempo fa la tesoreria, avendo avuto bisogno di realizzare una certa quantità di rendita iscritta, si sia rivolta alla casa Rothschild, e che questa abbia dato il danaro a dei patti veramente scandalosi.

Sopra un’altra cosa vorrei chiamare l’attenzione dell’ono­revole ministro, vale a dire sulla penuria estrema dell’ex-reame di Napoli, che mi sembra tanto più incredibile, in quanto che le provincie napolitane soggiacciono a molte minori spese di quelle a cui soggiacevano sotto i Borboni.

Noi non abbiamo più, per esempio, 100 mila soldati da alimentare e pagare, surrogati appena da venticinque o trentamila soldati dell’esercito meridionale; non abbiamo più una lista ingente, incredibile, come quella che i Borboni prelevavano ogni anno.

Invece di quei molti milioni di ducati, figurano solo due milioni di lire assegnati al principe di Carignano e l’assegno al signor Nigra. Non abbiamo più ministri, ma soli quattro segretari generali, i quali non costano alla fin fine che la somma di 1600 ducati al mese. Non abbiamo più i fondi segreti, perchè credo che oggi più non si paghi quell’infame spionaggio che si pagava sotto i Borboni, ed era questa una spesa molto considerevole.

D’altra parte vediamo che non sono punto diminuite le imposte, le quali si pagano attualmente, siccome allora.

Abbiamo inoltre il prodotto dei beni dei gesuiti e dell’ordine costantiniano, e domanderò al signor ministro che cosa si fa di queste rendite. Abbiamo i beni di casa reale, e si ricorderà l’onorevole ministro che il generale Garibaldi de­cretò su questi beni la somma di sei milioni di ducati, il che vuol dire che sono molto considerevoli.

Ora il Governo che succedette a quello del generale Garibaldi non ha mai osato abrogare questo decreto, ma non ha neppure mai voluto farlo eseguire, ed anche su questo chiederò qualche schiarimento.

Fra gli altri introiti vi ha quello delle dogane, nel quale si è operata una diminuzione considerevole in parte del contrabbando; in secondo luogo per la parifica delle tariffe, ed in terzo luogo in virtù del decreto del signor Farini, il quale diminuì alcuni dazi. Ma anche qui bisogna riflettere che, quanto al contrabbando, quello che si fa adesso è ampiamente compensato da quello che sotto i Borboni aveva luogo per opera dei Principi reali, cosa notoria a tutti; di­modoché , contrabbando per contrabbando, non ci è né per­dita, né guadagno. (Si ride)

Dunque restano queste due cose che possono diminuire il reddito pubblico, vale a dire la diminuzione delle tariffe, più il decreto del Farini. Se non che io dimenticava ancora di dirvi che in questo momento si dazia a Genova invece di daziare a Napoli, cioè la dogana è pagata a Genova e non a Napoli. Quando vi sarà un solo tesoro, questo non vorrà dir niente , ma ora naturalmente il tesoro di Napoli ne scapita, perchè quello che riceve Genova non lo incassa Napoli.

Pur tuttavia io credo che, tutto computato, il supero do­vrebbe essere superiore al deficit.

Ora invece è il deficit. Solo un’inchiesta potrà schiarire il vero. La penuria del municipio di Napoli è anche maggiore di quella del tesoro. Bisogna sapere che, quando io son partito, nelle casse del municipio di Napoli non si trovavano che pochi ducati, e non si sapeva come andare avanti, talché era questione di contrarre il debito più rovinoso che si possa immaginare , cioè di sottoscrivere delle obbligazioni per tre milioni e mezzo di ducati e non riceverne che due e mezzo, pagando gl’interessi dell’intera somma! Anche su questo desidero degli schiarimenti, perchè vorrei evitare alla mia terra natale una vera rovina.

Non lascierò quest’ingratissimo tema delle finanze senza dire all’onorevole ministro che la sua ultima relazione ha fatto a Napoli un pessimo effetto, e già si prevede per l’anno venturo la tassa fondiaria (Movimenti diversi), la tassa mobiliare, la tassa delle patenti, dai cui finora fummo esenti, più un nuovo debito, il quale si aggiungerà a quello di cento tren­tanove milioni di ducati che abbiamo già. E dicono i miei con­terranei: noi soggiaceremo a questi nuovi carichi, ma vorremmo godere dei vantaggi di cui godono gli altri paesi, vale a dire delle strade ferrate…

Voci. E le avranno! (Rumori)

Ricciardi vorremmo godere di quella prosperità materiale, di cui gode il Piemonte, e dell’immenso commercio di Genova. Ma noi non abbiamo alcuno di questi vantaggi, e siamo minacciati da gravi danni.

Passerò ora al Ministero della giustizia. Ecco quello di cui si lagna il paese. Il paese dice che molti fra i vecchi magistrati borbonici sono ancora in uffizio, e che non tutti fra i nuovi sono ottimi. Relata refero, non do un giudizio; ma, in generale, è voce che, massime sui giudici di pace, ci sia molto da dire. L’onorevole ministro sa di quanta importanza siano i giudici di pace che riuniscono molte attribuzioni, quindi deve portarsi sulla scelta dei medesimi moltissima cura. Si grida anche un poco contro le nuove leggi, e a questo proposito mi sia permessa una digressione contro la decretomania. Siamo stati inondati di leggi e decreti i quali si potevano benissimo differire a miglior tempo; noi abbiamo due cose da fare. Per fare l’Italia ci vogliono armi, ed inoltre le strade ferrate, anche per dare da vivere alle moltitudini. Tutte le altre cose si potrebbero differire.

Noi dobbiamo unificare l’Italia, ed a questo riguardo dirò che nessuno è più unitario di me. Ma l’Italia non si deve unificare a vapore, bensì come un popolo che è stato diviso per secoli; dobbiamo rispettare le leggi e le abitudini locali, massime quando queste leggi non sono tristissime, che anzi in molte cose sono superiori a quelle degli altri Stati.

Contentiamoci per ora, o signori, di veder realizzato il so­gno più caro della nostra vita.

Avremmo mai potuto immagi­nare qualche anno fa di vedere un Parlamento italiano, di vedere un esercito nazionale, una sola marineria, una sola bandiera e di essere sulla via di Roma? Ebbene, non precipitiamo le cose. È curioso che vi debba io dare consigli di prudenza, io che passo per uomo superlativo e rivoluzionario! (Ilarità)

Chiamerò ora l’attenzione dell’onorevole guardasigilli so­pra un antico abuso, di cui fece anche parola il mio collega Massari, cioè sopra i così detti informi,abuso il quale perdura ancora, e sarebbe tanto facile il togliere. Io non so se gli onorevoli miei colleghi sappiano che cosa siano gl’informi.

Le parti vanno a visitare il magistrato, gli si raccomandano, gli espongono la causa, ecc. Lascio immaginare gli effetti di pratica cosiffatta.

Il perchè io conforto l’onorevole guardasigilli a mettere fine a questa vergogna.

Ora non posso fare a meno di far parola di molti arresti e di molte detenzioni abusive; arresti di garibaldini, arresti di reazionari.

Il giorno 27 aprile tutti sanno che vi fu uno scandaloso fatto; quello di cui fu quasi vittima il signor Silvio Spaventa.

Io fui il primo a dire al signor Nigra che bisognava punire i colpevoli. Arresti molti ebbero luogo, tanto fra i Garibaldini, quanto fra i reazionari.

Io trovo che, una volta arrestato un individuo, deve essere interrogato dal magistrato ordinario, e non già trattenuto per misure di polizia.

Ora settanta Garibaldini furono tradotti a’Granili, e rilasciati solo dopo venti giorni per mancanza di prove.

I reazionari si lagnano della stessa cosa, e noi non dobbiamo dar causa ai nostri nemici di dire che noi, uomini liberali, uomini amici della giustizia, siamo primi a violarla.

Il duca di Caianello fu arrestato il 6 aprile. Or consta a me che il 6 maggio non era stato ancora interrogato dal magistrato ordinario; egli sta sotto l’azione del potere giudiziario, ma non ha ancor subito alcun interrogatorio; e questo non è regolare; e me ne appello al ministro guardasigilli, affinchè faccia cessare questo abuso, e, se non fu interrogato, lo sia.

Fo un appello altresì alla cortesia ed all’umanità del signor ministro dell’interno, e credo che la mia preghiera non possa essere sospetta, perchè tutti sanno i miei sentimenti.

Il duca di Caianello soffre di asma, ed è nelle prigioni di Santa Maria Apparente, d’onde ha chiesto invano di essere traslocato in un forte. Ora il Governo di Vittorio Emanuele non vorrà negare al duca di Caianello, borbonico, ciò che il Del Carretto, ministro di Ferdinando II, concedeva a me, suo nemico, allorché nel 1834, sulla dimanda di mio padre, mi facea traslocar tosto dalla prefettura di polizia nel castello di Sant’Erasmo.

Finirò questa mia interpellanza al signor ministro della giustizia con un complimento, per mostrargli che non sono poi un uomo tanto terribile; e gli dirò che il paese si rallegra con lui della istituzione dei giurati. Ed il Ministero deve avere un gran motivo di rallegramento in questo fatto curiosissimo, che la prima dichiarazione del giurì napoletano è stata una condanna d’un giornale nemico al Ministero, vale a dire della Pietra Infernale.

Se questo gli può far piacere, glielo annunzio pur volentieri (Si ride), e tanto più volentieri, in quanto che ho inteso da molti i quali parlano e sparlano del mio povero paese, che Napoli è ingovernabile; ed ancorché si mandasse a Napoli il più grand’uomo, il più grande legislatore del mondo, esso non potrebbe giungere a governare Napoli. Ma Napoli non è ingovernabile, poiché vi si trova un giurì (e il giurì rappresenta la parte intelligente del paese) per condannare la Pietra Infernale a 400 ducati di multa ed a tre anni di prigionia.

Passiamo ora agli affari ecclesiastici.

Qui potrei ripetere molte delle cose dette ieri l’altro contro i decreti del 17 febbraio, ma mi limiterò a questo per procedere a tenore di logica, dopo aver rigettato la mia proposta, bisogna abrogare i decreti del 17 febbraio. Non si esce da questo dilemma, od abrogarli o convertire in legge la mia proposta. Quello che ha luogo in questo momento contro preti, frati e monache, è illegale, è incostituzionale, ed io domando giustizia anche a prò dei preti, delle monache e dei frati.

Aggiungerò che questi decreti hanno molto contribuito al malcontento di cui si parla. Naturalmente questi preti e questi frati hanno le loro famiglie, i loro devoti, i loro aderenti. Ebbene, questi decreti hanno messo un diavolìo, e voi dovete assolutamente far cessare questa nuova cagione di malcontento: ricordate, o signori, il detto di Machiavelli: «che i nemici bisogna accarezzarli o spegnerli;» il che non vuol dire che io vi conforti a impiccarli (Ilarità), che non voglio impiccare nessuno; ma vi dirò che gli avete disgustati, e non altro; li avete inaspriti senza profitto, cioè senza che lo Stato ne abbia ricavato alcun benefizio.

E qui mi cade in acconcio di fare una preghiera all’onorevole guardasigilli, ed è in nome di alcuni preti, vale a dire di quelli che sono sospesi a divinis: mi pare che, quando si trova un prete veramente liberale, se ne debba tener conto, la cosa essendo assai rara (Ilarità); ma, signori, sapete voi che cosa sia l’essere sospeso a divinis. È lo stesso che non mangiare! (Risa) Io troverei di pretta giustizia che ogni prete sospeso a divinis fosse indennizzato sui beni della mensa del vescovo che lo ha sospeso. (Nuova ilarità)

Passiamo all’agricoltura ed al commercio: io trovo nel Giornale ufficiale di Napoli del 17 marzo una relazione dell’onorevole nostro collega Nisco, allora direttore del dicastero, in cui si promettono grandi cose: un istituto dei comizi agrari e delle banche agrarie, tutte, ripeto, bellissime cose; or domando all’onorevole ministro Natoli, perchè tutte queste magnifiche promesse non furono punto realizzate.

Lo stesso signor Nisco propose un banco di circolazione, con succursali nelle provincie per ricevere i versamenti dei percettori, con risparmio annuo all’erario di ducati 77,750 (lire 530 mila).

Sarebbe pure stata utilissima cosa; io domando: perchè questa proposta non è stata adottata?

Lo stesso signor Nisco propose un’altra cosa eccellente, vale a dire lo stabilimento in Napoli di una scala franca, la quale sarebbe di un immenso beneficio. Perchè questa scala franca non è stata creata?

Nisco. Domando di parlare.

Ricciardi. Non parlo della Cassa di risparmio, decretata il giorno 19 novembre, ed il cui statuto fu pubblicato il 30 marzo, perchè confesso che lo stabilire una Cassa di risparmio in un paese dove il povero popolo ha appena da non cader morto di fame, è una burla!

Ora vengo ai lavori pubblici.

Mi duole dover dire all’onorevole ministro dei lavori pubblici che ci sono state molte belle promesse, ma nessun fatto. E qui ricorderò in brevi parole il colloquio avuto il giorno 28 aprile col commendatore Nigra.

Dopo il fatto di Spaventa, di cui accennava poc’anzi, due nostri onorevoli colleghi ed io ci credemmo in dovere di an­dare dal commendatore Nigra per esporgli la vera situazione del paese. Io presi la parola, e gli dissi tutto quello che credeva doverglisi dire. Egli fu gentilissimo; ci fece le più belle promesse, massime sulla questione dei lavori, perchè io insistetti principalmente in questo. Mi disse, fra le altre cose: la settimana entrante s’incominceranno i lavori della stazione della strada ferrata. Io risposi: ma perchè non fate pubblica questa notizia per calmare il paese? Sarà pubblicato il rapporto, egli disse, del dicastero dei lavori pubblici, nel quale si parla in generale di lutti i lavori da farsi. Signori, nè i lavori sono cominciati, nè questo rapporto è stato mai pubblicato.

So che varie offerte sono state fatte dalle compagnie, ma sono, secondo me, onerose. E qui io vorrei che l’onorevole ministro aprisse tanto d’occhi. Per esempio, la compagnia Talabot, di cui siamo chiamati ora ad approvare la convenzione, osò chiedere 135 mila ducati per ogni miglio! Questa offerta è scandalosa. Calcoli esatti dimostrano come quattro e quattro fanno otto, che le compagnie fanno un guadagno bellissimo anche facendo le strade ferrate per 85 mila ducati al miglio, e come la rete delle strade ferrate di Napoli e Sicilia ha duemila miglia, si tratterebbe nientemeno che di una bagattella di 100 milioni, i quali entrerebbero nelle tasche di quei signori. Il perchè, ripeto, io prego l’onorevole ministro di aprir tanto d’occhi.

La grande obbiezione che ci si fa, quando noi diciamo: ma dovete assolutamente crear lavoro, è quella della mancanza di denari; ma io potrei dirvi che vi sono compagnie le quali sono pronte ad anticipare i denari per ogni spesa di opere pubbliche, solo contentandosi di un minimo d’interesse, sia del 5, sia del 6 per 100, minimo che lo Stato può benissimo assicurare, trattandosi d’imprese d’esito sicurissimo. Per la intrapresa delle bonifiche, lavoro di grandissima utilità, c’è stata una compagnia inglese la quale ha fatto delle bellissime offerte; ebbene, non si son volute accettare.

Di Cavour C., presidente del Consiglio. La nomini, la prego, quella compagnia.

Ricciardi. Io non ne conosco il nome, ma persone de­gne di fede me lo hanno assicurato.

Di Cavour C., presidente del Consiglio. Io posso assicu­rare il contrario.

Presidente. Prego il signor ministro di non interrom­pere.

Ricciardi. Ma io parlo di un fatto di Napoli, che il signor ministro può benissimo ignorare. Vi sono, per esempio, in Napoli degli immensi fabbricati, i quali devono tosto o tardi sparire; se i decreti del 17 febbraio devono avere esecuzione, molti conventi dovranno essere abbattuti, e sul suolo di essi si potranno fabbricar delle case per i poveri; e su questa materia importantissima prego il signor ministro di portare tutta la sua attenzione.

Ora debbo passare alle cose della guerra, e qui ho bisogno di tutta la pazienza dell’onorevole generale Fanti. Per altro, nel fare la guerra al ministro della guerra, non iscorderò ch’ei visse meco in esilio, e servì sul campo di battaglia quella medesima causa che ho servito e servo io colla penna e colla parola.

Il già esercito borbonico annoverava un effettivo di 93.091 soldati e sotto-ufficiali, e di 2.869 ufficiali. Lasciamo stare il materiale, il quale era immenso. Basti questo, che nelle sole fortezze di Capua e Gaeta s’annoveravano circa 1000 cannoni, de’ quali la più parte di bronzo.

Lasciamo stare l’immenso materiale accumulato nelle piazze così del Napoletano, che della Sicilia.

Vediamo ora che cosa è divenuto quest’immenso esercito.

Cominciamo dagli ufficiali. Vi sono due categorie d’ufficiali. Quelli che dal campo borbonico passarono nel nostro, anche prima dell’entrata del generale Garibaldi in Napoli, e quelli, cosiddetti fedeli, quelli, cioè, i quali rimasero sotto la bandiera borbonica fino all’ultimo. Vediamo in che modo avete trattati gli uni e gli altri.

Circa 1300 degli ufficiali borbonici, dopo la caduta di Capua e dopo la caduta di Gaela, capitarono a Napoli. Or questi disgraziati furono crudelmente umiliati. In principio ricevevano un franco al giorno; in seguito hanno ricevuto un soldo maggiore, credo anzi metà della paga. Ma come non c’è che un solo pagatore all’uffizio di piazza, sono costretti qualche volta ad andare dieci o dodici volte prima di essere pagati. Più in là, in virtù di decreti emanati nell’aprile e nel maggio, 1.000 circa sono stati messi a riposo, ma senza alcuna norma, vale a dire, dei giovani come degli uomini d’età, degli scapoli come degli ammogliati, quasi ciecamente, quasi a capriccio.

157 sono stati messi in posti sedentanei, nello stato maggiore delle piazze.

229 sono stati chiamati all’attività, ma lasciati in aspettativa.

Ora, io domando: tutti questi ufficiali borbonici umiliati, disgustati, non sono materia ottima per una cospirazione reazionaria?

Credete mo’ voi che, se degli agenti borbonici capitassero a Napoli con oro borbonico, non guadagnerebbero molti di questi uffiziali? Aggiungete i soldati sbandati, che sono in grandissimo numero nel regno. Ebbene, questi soldati avrebbero gli uffiziali belli e pronti: ecco dunque delle compagnie, dei battaglioni, dei reggimenti, che si formerebbero colla massima facilità. Mentre, secondo me, sarebbevi stato un mezzo semplicissimo di utilizzare a prò d’Italia questi elementi preziosi: questi uffiziali, questi sott’uffiziali, questi soldati sarebbero diventati ottimi soldati italiani, se voi, invece di disgustarli e umiliarli, li aveste fatti venire nell’alta Italia, e li aveste incorporati nel nostro esercito; se il giorno della caduta di Messina, il generale Fanti avesse pubblicato un decreto così concepito:

«II già esercito delle Due Sicilie è incorporato nell’esercito nazionale, salvo le eccezioni che saranno fatte da una Commissione ad hoc. »

Invece, che cosa si è fatto? Si accordarono ad alcuni delle pensioni, altri si posero in servizi sedentanei. Avete ammesso nelle file dell’esercito italiano il generale Nunziante (bisogna pur che lo nomini) e poi avete trattato, vedemmo in che modo, non solo quegli uffiziali che fino all’ultimo sono stati fedeli alla bandiera borbonica, ma quelli che col rischio della vita si sono gettati nel nostro campo prima che Garibaldi entrasse a Napoli. Io potrei nominarne gran numero, iquali sono venuti da me.       

Fanti, ministro della guerra. Li nomini, li nomini.

Sandonato. Firrao…

Voci. È un solo nome.

Presidente. Prego di non interrompere l’oratore.

Ricciardi. Appena giunsi a Napoli, i miei amici politici ed io sentimmo che il nostro precipuo dovere era quello di fare ogni sforzo, affinchè l’esercito napoletano rimanesse intatto. Secondo me è stata una sventura immensa la distruzione di quel bellissimo esercito, il quale si sarebbe assai bene battuto per la causa italiana, se si fossero usati con esso altri modi. Io feci la propaganda nelle caserme, a rischio di farmi fucilare; e a quanti uffiziali vedeva io diceva: il vostro onor militare è salvo, perchè in Sicilia vi siete battuti contro il generale Garibaldi; ora siete in casa vostra, e dovete imitare l’esempio dell’esercito toscano, il quale il dì 27 aprile fece sì, colla sua bella attitudine, che il granduca se n’andasse volontariamente. Gli uffiziali, in generale, rispondevano: noi saremmo pronti, ma i nostri soldati sono talmente fanatizzati, che ci fucilerebbero; e questa è stata una delle principali ragioni per cui è stato impossibile operare una sollevazione militare, o, per meglio dire, di procacciare un pronunziamento militare, anche prima dell’ingresso del generale Garibaldi, il quale avrebbe trovato in Napoli una rivoluzione in piedi ed un esercito intero. Ora questi uffiziali li vedo reietti; questa è ingratitudine marcia; questa è una cosa che non si deve tollerare. Ma vi pare, o signori, che senza il lavoro segreto di questi uffiziali, senza il nostro lavoro, il generale Garibaldi avrebbe mai potuto entrare in Napoli, in una città di 500.000 abitanti, con quattro castelli gremiti di truppe, e un presidio di 8.000 soldati? (Segni di adesione)

Egli entrò solo in Napoli, perchè noi gliene aprimmo le porte, noi liberali, con gran numero d’uffiziali, iquali la divisa borbonica calpestarono, e vennero con noi. Ebbene, questi uffiziali voi dovete premiarli, e non chiamarli disertori, come ho sentito da qualche uffiziale superiore; questa parola non deve pronunziarsi, perchè non si tratta di disertori quando da un campo infame si passa al campo della libertà e dell’onore. (Bravo! dalla sinistra)

Quanto ai soldati, sottufficiali ed ufficiali garibaldini, nonparlerò del modo con cui furono trattati, poiché di ciò s’è già molto parlato inquest’aula.

Io prego quindiil ministro della guerra di amalgamare tutti questi elementi, e dicomporne un magnifico esercito; n’è ancor in tempo; i soldati sbandati già cominciano a ritornare; quando sono partito da Napoli, arrivavano a frotte, ed ufficiali dei bersaglieri li facevano partire per Genova. Si compia quest’opera, e si faccia cessare questa peste dei soldati sbandati. Una volta che questi soldati saranno incorporati nell’esercito, diventeranno altri uomini, poiché io so che i soldati napolitani, i quali trovansi già nel nostro esercito, meno qualche piccola eccezione (e costoro sarebbe meglio che se ne andassero in Austria), fanno buonissima prova. Io sono certo che isoldati napolitani si trasfigureranno intieramente, cambiando d’aria e divisa.

Ora chiamerò l’attenzione dell’onorevole generale Fanti sopra un fatto che mi è stato riferito da persone autorevoli venute espressamente a Napoli qualche giorno prima della mia partenza.

Pare che nella provincia diTerra di Lavoro si vendano a vilissimo prezzo fucili bellissimi trovati in Gaeta. Come va questa cosa? Vuolsi che siano stati trovati 40.000 fucili in Gaeta. Or dove sono questi fucili?

Mi è stato assicurato inoltre che, tanto a Napoli, quanto a Palermo, siano state accettate delle forniture molto svantaggiose per lo Stato, mentre altre ce n’erano molto più vantaggiose; e come ogni minima economia può essere preziosa in questo momento, io insisto su questo fatto, e prego il signor ministro di verificarlo.

Più, gli raccomanderò caldissimamente i magnifici stabilimenti di Pietrarsa e Torre dell’Annunziata, massime quello di Pietrarsa, che è un vero modello e una delle poche bellissime cose fatte da Ferdinando II.

Questi due stabilimenti basterebbero ad esimerci dal pagare un tributo per armi all’estero, siccome facciamo in questo momento.

Perchè far venire dei fucili dal Belgio, dall’Inghilterra, da Saint-Etienne, mentre noi possiamo fabbricarne?

Ora mi rivolgerò al signor ministro della marina militare.

Domanderò all’onorevole presidente del Consiglio se è vero che gli operai del cantiere di Castellamare, in numero di circa 500, siano stati licenziati.

Domando altresì se sono stati interamente parificati i diritti, gli onori e gli averi fra gli ufficiali della marineria napoletana e quelli dei vecchi Stati…

Di Cavour C. ministro. Interamente.

Ricciardi. Poi attirerò la sua attenzione sui bagni…

Di Cavour C. ministro. Non ancora; al 1° luglio.

Ricciardi. Allora esprimerò un voto, pregandolo di fare sparire questa vergogna dal nostro suolo, come l’ha fatto la Francia. In Francia non vi sono più bagni…

Di Cavour C. ministro. E Caienna?

Ricciardi. Io non voglio una Caienna. (Rumori; movimenti diversi) Ci è Lambessa. Voi avete la Sardegna. (Ohi oh! Segni di disapprovazione su vari banchi; vivi rumori)

Ferracciu. Oh! oh! È forse luogo d’ergastolo la Sardegna? Io protesto contro la proposizione dell’onorevole Ricciardi. È veramente sconfortante che un Italiano venga qui a parlare della Sardegna, come di terra che non fosse d’Italia.

Ricciardi. Mi perdonino, questa è un’idea come un’altra. (Nuovi rumori e nuove proteste).

Salaris, ed altri deputati sardi. Questo non si può tollerare; si chiami all’ordine l’oratore!

Presidente. Prego i signori deputati di avere tolleranza; faranno dopo le risposte che crederanno.

Ricciardi. Alcuni dei miei onorevoli colleghi non mi hanno capito; io parlava di una colonia penale.

Foci. No! No! Parlava della Sardegna!

Ricciardi. Ma come? non si può stabilire una colonia penale?

Musolino. Ce ne sono vicino a Parigi.

Presidente. Prego il deputato Musolino a non voler interrompere.

Io credo che ogni deputato debba rispettare sè stesso rispettando gli altri e quindi lasciare che ognuno manifesti in forma parlamentare le proprie idee, salvo a combatterle se si crede che queste siano contrarie alla giustizia ed alla verità.

Il deputato Ricciardi parli.

Ricciardi. Da Napoli poi debbono i bagni tanto più presto sparire, in quanto sono vere bolge di Dante, tanto orribili che non si può immaginare.

Passiamo ora ai rimedi, e nello stesso tempo verremo a toccare della questione morale, che è pure gravissima.

Come vi ho già detto, il primo bisogno del paese è la pubblica sicurezza. Mi diranno i signori ministri di avere mandato il generale Cosenz per riordinare la guardia nazionale. Sta benissimo; ma questo non basta. Oltre la guardia nazio­nale, oltre le colonne mobili, che credo siano state mandate nelle provincie, bisogna curare il male nella sua fonte. Tutti sanno che la fonte sta in Roma; finché duri quella fucina, avremo reazione nel regno. Capisco bene che non dipende da noi l’andare a Roma, quantunque tutti desideriamo l’andarci il più presto possibile; e intanto, se le baionette francesi proteggono il papa e il re di Napoli, noi dobbiamo protegger noi stessi. E però Roma cingiamo di un cerchio di ferro, e impediscasi che da Roma vengano armi e briganti nel nostro regno. Quella, secondo me, è la prima misura; poi si cerchi di migliorare la polizia, la quale è proprio fanciulla fra noi.

La polizia fra noi è fatta dalla guardia nazionale, cui dobbiamo immense obbligazioni, perchè gli stessi carabinieri, ottimi come sono, non possono far la polizia in un paese, di cui non capiscono il dialetto, e dove non sono capiti.

Il secondo provvedimento necessario, secondo me, è quello che chiamerò spurgo, quanto agl’impiegati d’ogni genere. Io non domando destituzioni in massa, come credo abbia interpretato l’onorevole ministro dell’interno nel rispondere all’onorevole Massari; ma vorrei si nominassero delle Giunte composte di probi viri, del fiore dei cittadini, le quali, dopo severa disamina, eliminassero gli uomini notoriamente tristi, notoriamente nemici dell’ordine di cose che noi propugniamo, e surrogassero a questi degli uomini onesti ed amanti di libertà, e fosse altresì interamente tolta ogni idea di consor­teria , una delle cose di cui si lagna il paese, poiché si dice che gli uomini i quali appartengono al Governo appartengono tutti ad una consorteria; quanto a me credo che non ci debba essere che una sola consorteria al mondo, quella degli uomini onesti.

Il terzo rimedio, a mio avviso, è quello di porre un argine all’impiegomania, aprendo nuove carriere, promovendo l’agricoltura, la quale è fanciulla fra noi, e che potrebbe dare immensi tesori, promovendo l’industria ed il commercio, e sopratutto le strade ferrate, le quali in Francia danno pane e lavoro ad ottantamila persone!

In quarto luogo è cosa indispensabile l’estinguere la mendicità che è una delle piaghe speciali del mio paese e specialissima della capitale, ed è tanto più vergognosa questa piaga in quanto che esistono tutti i mezzi possibili per estinguerla facilmente.

È noto a tutti che il generale Garibaldi con un suo decreto restituì ai comuni il prodotto del dazio di consumo, che dà una somma considerevole. Per conseguenza i comuni, quando sarà estinto interamente il contrabbando, si troveranno più ricchi di prima. Ebbene queste nuove ricchezze dovrebbero essere rivolte ad estinguere la mendicità. Io non intendo con ciò di obbligare il Governo a dar lavoro agli uomini validi; ciò il Governo non ha obbligo di fare: ma esso deve vitto, ricovero e vesti a chi non può procacciarsi da vivere colle proprie braccia. Questo è un obbligo sacro, ed io ripeto quel che già dissi altra volta, che un paese in cui v’ha una sola famiglia priva del necessario non merita l’epiteto di civile.

In quinto luogo ci vogliono buoni governatori, ed aggiungerò che per ora non debbono essere nè piemontesi, nè lombardi, nè toscani, ma del paese. Nessuno più di me riconosce i vantaggi della promiscuità degl’impiegati per fare l’Italia, ma nell’amministrazione questo provvedimento sarebbe fatale. Nell’amministrazione ci vogliono uomini che conoscano e gli uomini e le cose.

Infatti, vedete che cosa accade a Foggia; vedete quello che scrivono di là, ed io vi posso garantire la verità di quelle relazioni.

Si mandarono Guicciardi e De Rolland a Cosenza e a Potenza; ma non faranno eglino miglior prova del conte di Bardesono.

La promiscuità è ottima cosa nella magistratura, ed io invito l’onorevole guardasigilli a mandare a Napoli quanti più magistrati potrà dal Piemonte, dal Parmigiano, dal Modenese e dalla Lombardia.

La legge si può applicare, benissimo ad Ivrea e a Brescia, come a Cosenza e a Catanzaro; ma per l’amministrazione non è lo stesso; il perchè io non vedo volentieri i cittadini dell’alta Italia andare a Napoli come governatori; oltre di che dovete sapere che a Napoli si sono messi in capo che voi volete piemontizzare il paese, epperò il mandar quivi Piemontesi non fa che aggravare questo pregiudizio, questa torta opinione, e voi dovete fare il possibile per combatterla; e, finché non andiamo a Roma, rispettate questa povera autonomia napoletana.

Molte voci. No! no! Vogliamo l’unità!

Ricciardi. Io dico la mia opinione.

Veniamo ora all’invio del conte Ponza di San Martino.

Credete voi che, se il signor Ponza di San Martino non entra in una via affatto diversa di quella battuta finora, farà miglior prova dell’onorevole Farini…

Sandonato. Non ha avuto il tempo.

Ricciardi. …e del signor Nigra? Per quanto buona opinione si possa avere dell’abilità del signor Ponza di San Martino, io non credo ch’ei sia più abile del nostro collega Farini.

Io vi diceva essere necessario che il signor Ponza di San Martino batta una nuova strada; ma questo non basta; bisogna che si circondi di uomini nuovi, e del paese; bisogna che sia accessibile e visibile; poi bisogna che vada a Napoli con un programma preciso, e non con delle idee indeterminate o preconcette, che sarebbe anche peggio, (Interruzioni)

Io credo di essere buon Italiano quanto tutti voi; ma, per Dio! Io sono anche Napoletano, e quando sento a dire che noi siamo il meno civile popolo della terra, vi giuro che mi si rimescola il sangue…

Voci. No ! no ! Ciò non si dice.

Presidente. Nel Parlamento non furono mai fatti questi rimproveri al popolo napoletano; non so perchè ella voglia rispondere a censure che non hanno avuto luogo.

Ricciardi. Finché non si vada a Roma, io credo si debbano rispettare certi pregiudizi, certe suscettibilità. Mi si accerta che in questo momento viene abolito il Consiglio amministrativo, non che la Corte dei conti, e che la Corte di cassazione sarà ridotta a nove membri; se queste cose sono vere, non potranno che fare un pessimo effetto.

Non proporrò alcun ordine del giorno dopo quest’esposizione generale, per la ragione semplicissima che l’ordine del giorno, ch’io proporrei, voi non lo accettereste; di più mi ricordo che l’ordine del giorno, il quale fu votato l’ultima volta, non ha avuto alcuna esecuzione; credo quindi che in una proposta d’ordine del giorno ci andrebbe della dignità della Camera. Proporrò invece di nuovo quello che l’onorevole mio amico Ferrari presentò invano il 3 aprile, vale a dire un’inchiesta.

Quest’inchiesta avrebbe un duplice scopo.

Avrebbe in primo luogo lo scopo di persuadere le popolazioni napolitane che la Camera si occupa di loro, e questo produrrebbe un immenso effetto morale, solleverebbe gli spiriti, metterebbe cuore in quelle povere popolazioni.

In secondo luogo cinque di noi, eletti a maggioranza di voti, percorrerebbero quelle provincie; poi, circondando il nuovo luogotenente, gli darebbero un’autorità morale, la quale aver non potrebbe altrimenti. Finché non si circondi d’uomini autorevoli del paese, egli farà un solenne fiasco.

Propongo adunque che la Camera nomini cinque fra noi. Dico cinque, anziché nove o dodici, perchè siamo già così pochi, che non bisogna assottigliar troppo le nostre file.

Se voi avete decretato un’inchiesta nel 1857 pei brogli elettorali, credo che in questa circostanza, le mille volte più grave, potreste benissimo nominare una Commissione d’inchiesta, e contentare quelle provincie. Ma vi par piccola cosa un paese di 7 milioni? Volete voi mettere in pencolo l’amore di questi 7 milioni per la causa italiana?

Quando io vi ho detto che questo amore trovasi compro­messo, voi avete gridato contro di me, eppur non ho fatto che il mio dovere di dirvi la verità; voi farete quello che io dico se non volete che un popolo di sette milioni rimpianga quasi i Borboni e maledica la libertà! (Rumori, richiami, e proteste da tutte le parti della Camera)

Massari. Oh mai! mai!

Presidente. Il ministro per l’interno ha facoltà di parlare.

Minghetti, ministro dell’interno. Quando l’onorevole deputato Ricciardi annunziò di voler chiedere schiarimenti al Ministero, io mi affrettava a dichiarare che non avrei alcuna difficoltà a darglieli, ma che non intendeva di accettare interpellanze susseguite da una discussione, giacché, primieramente, queste occuperebbero molte sedute alia Camera; in secondo luogo, è così breve la distanza da quelle che già vennero fatte, che non saprei a qual fine utile potrebbero riuscire.

Premesse queste osservazioni, risponderò brevemente all’onorevole Ricciardi. Egli ha creduto di farci una sorpresa; ma io posso assicurarlo che le cose ch’egli ha detto non mi giungono niente affatto nuove; vero è, io non ho ricevuto queste notizie dagli agenti governativi, ma le vado leggendo nelle corrispondenze dei giornali e sopratutto in quelle della Gazette de France e del Monde, i quali due giornali precisamente rappresentano lo stato delle cose quale egli l’ha delineato.

Mi duole che, tra gl’infiniti appunti da lui accennati, ve ne siano pochissimi precisati e determinati in modo da potersi in merito ai medesimi rispondere; e mi troverei fortemente imbarazzato se dovessi pigliarli ad uno ad uno in esame, perchè, per lo più, si riducono a notizie di persone ch’egli stima autorevoli, o al consueto si dice, sono di quelle accuse generiche, alle quali non si può fare una risposta positiva.

Anzitutto dirò che, quando nella Camera vennero fatte le interpellanze sulle provincie napoletane, il Governo prese alcuni impegni che esso è venuto ponendo ad esecuzione, e poco per volta va applicando quei principi che la Camera sancì col suo voto; non sono ancora compiuti i provvedimenti desiderati; ma ad ogni cosa è necessario il tempo; che se l’onorevole deputato Ricciardi prende a rileggere il discorso che io ebbi l’onore di fare in quella circostanza, vedrà che il Governo ha cominciato ad adempiere francamente alle sue promesse con quella prudenza e con quella moderazione che sono necessarie. Soggiungerò due cose che mi sembrano assai concludenti: la prima riguarda la reazione ed il brigantaggio. Si è parlato infinitamente di questo brigantaggio; ed i giornali, a cui alludeva, continuano a parlarne come di un fatto terribile e comune a tutte le provincie; si è detto che dal 6 aprile in poi vi sono state delle reazioni e repressioni violentissime. In questi racconti vi è qualche cosa di vero, vi è moltissimo di esagerato. Io ho fatto lo spoglio di lutti i rapporti venuti dal 6 aprile in poi, e da essi risulta che vi furono qua e là dei fatti deplorabili, che hanno avuto luogo degli scontri parziali; ma, se guardiamo ai morti e feriti dal 6 aprile fino ad oggi, computando i cittadini che sono sfati soggetti a violenze, le guardie nazionali che si sono battute, i soldati del­l’esercito e i carabinieri, non risulta che il numero dei morti e feriti tutto insieme raggiunga il numero di trenta.

Mi pare che questa cifra sia abbastanza eloquente e serva a dimostrare che il brigantaggio, del quale in tutta Europa si mena tanto rumore, mentre è cosa dolorosa e da reprimersi con vigore, non ha tale gravità da poter mettere in pericolo per nessun modo l’esistenza politica e la consolidazione di quel paese.

La seconda osservazione mi viene ispirata da un dispaccio che ho ricevuto stamane; è scritto in questi termini: «che le elezioni per la nomina dei Consigli provinciali e comunali ebbero luogo oggi in questa città di Napoli con lodevole concorso di elettori, col massimo ordine e dignità. Si procede tuttora allo spoglio dei voti nelle trentadue sezioni.

Notizie delle varie provincie recano che colà pure le elezioni municipali ebbero luogo col maggior ordine e con molto concorso di elettori. Però, non essendo ancora ultimati gli scrutini, se ne ignora ancora il risultato.»

Ora questa notizia, che mi giunge oggi, mi pare una prova che la situazione del paese non è quale l’onorevole deputato Ricciardi si è fatto a rappresentare.

Non voglio entrare più addentro in questa questione, poiché spero che la presente interpellanza abbia qui fine; mi corre solo l’obbligo di dire che l’onorevole deputato Ricciardi è stato male informato sopra una persona, che io mi compiaccio di chiamare mio amico, il conte Bardesono, governatore di Foggia; egli, a quanto io conosco, si è moltissimo distinto, e ha trovato molto favore nella sua provincia.

Massari. È verissimo.

Minghetti, ministro dell’interno. Le relazioni che ne ricevo sono tali che mi danno una grande soddisfazione, e mi provano che, al difetto di età, può supplire l’ingegno, l’attività e il buon volere. A questo proposito piacemi ricordare all’onorevole Ricciardi, come il giorno che egli partì per Napoli (con quella buona fede della quale mi è grato di rendergli omaggio, e ben so che quanto dice lo dice per amor di bene) egli mi scrisse una lettera, nella prima pagina della quale mi raccontava di aver saputo da persone bene informate, che il conte Bardesono era stato cacciato dalla sua sede a furia di popolo. Confesso che, ricevuta la lettera, corsi al Ministero alquanto agitato sulla sorte del mio amico: chiesi subito al segretario, se vi era qualche dispaccio di Bardesono; c’èra, e allora temetti ancora più vivamente che il fatto fosse vero. Fortunatamente, il dispaccio diceva che ogni cosa procedeva assai bene, ch’egli era soddisfattissimo del paese, e contava sulla cooperazione di tutti i buoni. Ora, dubito assai che molte delle informazioni, le quali sono state date dall’o­norevole Ricciardi, possano essere della stessa natura.

Io non potrei che ripetere quel che dissi in occasione delle prime interpellanze, ed assicuro la Camera che noi continueremo nella via intrapresa…

Di Sandonato. Ma quale?

Minghetti, ministro dell’interno. II signor di Sandonato chiede quale via intendiamo seguire; glielo spiegherò immediatamente.

Quando ebbero luogo le interpellanze sulle provincie meridionali, la Camera mostrò il desiderio che i poteri della luogotenenza fossero scemati, e che la responsabilità del Governo più effettivamente si assumesse dal Ministero: questo fu il risultamento della discussione generale: ebbene, in questa via il Governo si è messo; ha diminuito gradatamente le attribuzioni della luogotenenza, dei segretari generali, ed è venuto avocando a sè la maggiore autorità per preparare quella unificazione, alla quale vogliamo ferma­mente e decisamente arrivare. Ma ciò ha fatto con prudenza e non avventatamente. Questo è il concetto della nostra politica.

Venendo ai particolari, la Camera ha domandato che si affrettasse l’organizzazione della guardia nazionale, e io ho mandato non solo il generale Cosenz, ma undici altri abili uffiziali che lo coadiuvassero a riorganizzare. Anzi, due altri stanno per nominarsi.

La Camera espresse il desiderio che si procedesse alla promiscuità degl’impiegati, ed anche in questa parte si è già cominciato l’opera, e posso assicurare che si sta lavorando a fare di più. Non tema l’onorevole Ricciardi che vogliamo fare una confusione generale degl’impiegati: la promiscuità sarà solo dei capi. Verranno da Napoli intendenti e governatori a queste provincie, come dei governatori ed intendenti da queste vanno a quelle.

Parimenti la Camera espresse il desiderio che l’ordinamento comunale e provinciale s’affrettasse, ed io non mancava di dare tutte le disposizioni opportune, affinchè i termini fossero ristretti al possibile dentro il limite prescritto dalla legge. Ed il risultato che ho ottenuto l’ho oggi comunicato alla Camera.

La Camera espresse anche il voto che fossero ripartite truppe in ogni provincia, ed io posso assicurare l’onorevole preopinante che la cosa fu fatta. Non so se in questo momento in ciascuna provincia vi sia precisamente almeno un battaglione di truppe, ma truppe ci sono in tutte le provincie.

La Camera domandò l’aumento dei carabinieri. A questo risposi che non poteva farlo che lentamente; ma posso assicurare che da quell’epoca in poi vi andarono nuovi carabinieri.

La Camera domandò infine che si distribuissero delle armi alla guardia nazionale, ed anche a tal rispetto posso dire che dopo quell’epoca si sono fatte nuove distribuzioni, e che non rallento le ricerche per avere altre armi, e poterle colà inviare.

A questo proposito mi viene ora in mente una delle accuse dell’onorevole Ricciardi. Stia sicuro, i 40.000 fucili che erano nella fortezza di Gaeta non sono stati venduti, nè dispersi in nessun modo, e che, se vi sono per le campagne in vendita dei fucili, saranno fucili che furono in altro tempo distribuiti.

Questo è quello che con indefesso desiderio, col massimo amore del bene, colla speranza di riuscire, abbiamo fatto finora. La mia opinione sopra Napoli è precisamente questa: che vi sono delle difficoltà grandissime…     

Di Sandonato. Non tanto !

Minghetti, ministro dell’interno. …delle difficoltà grandissime di amministrazione; bisogna studiarle, bisogna superarle. Ma credo che dei veri e gravi pericoli non ve ne siano. Questa è la mia franca opinione.

Io non ho ombra di dubbio che Napoli resterà sempre fedele al plebiscito, sempre perfettamente unita al regno d’Italia (Bravo!), e sono sicuro che quel paese farà rapida­mente grandi progressi; che ciò che l’Italia settentrionale ha compito in molti anni, forse lo potremo vedere verificato in Napoli in tempo anche più breve. (Segni generali di appro­vazione)

Gallozzi. Domando la parola…    

Massari. Domando l’ordine del giorno puro e semplice.

Gallozzi. Domando la parola per un fatto personale.

L’onorevole Ricciardi diceva che il municipio di Napoli stava contraendo un debito rovinoso; siccome prima di ve­nir qui io sedeva tra gli amministratori di quel municipio, posso assicurare l’onorevole Ricciardi che la finanza di quel municipio è deplorabile, perchè tale la lasciarono i Borboni; essi ci lasciarono 600.000 ducati di debito, e quel municipio, se contrattava un debito necessario per riparare le sue finanze e dar lavoro al popolo, alla ragione del 73 per %, era perchè ragione migliore non si ebbe da alcuna casa d’Europa, nè il Governo per nulla vi entrava in tali trattative.

Presidente. Osservo che questo non è un fatto personale a lei…

Gallozzi. Io era in debito di dire queste poche parole…

Presidente. Ella non ha la parola che per un fatto personale e non per entrare nel merito della discussione, perchè vi sarebbero molti altri deputati inscritti prima di lei; quindi non posso lasciarla continuare.

Voci. Ai voti! ai voti! La chiusura!

Sandonato. Mi scusi la Camera, ma io reclamo ancora una risposta dal signor ministro dell’interno, il quale mi promise che avrebbe dato le necessarie spiegazioni sul mu­tamento del luogotenente generale a Napoli, tostochè fosse un fatto compiuto.

Minghetti, ministro dell’interno. Questa è una que­stione a parte.

Sandonato. Io credeva che mi avrebbe oggi spiegato la cagione del richiamo; il conte di San Martino è già partito per Napoli; vuolsi aspettare che egli sia giunto in Napoli a dirne il motivo? Ciò non toglie che io, pel bene del mio paese, mi aspetti soddisfacente risultamento dalle buone intenzioni con che il signor San Martino partì da Torino.

Minghetti, ministro dell’interno. Sono prontissimo a dirglielo. In seguito al voto della Camera, come ho dianzi accennato, noi abbiamo ristretto i poteri della luogotenenza di Napoli. Quindi abbiamo deciso che la nomina dei governatori, intendenti, consiglieri di governo e di molli altri impiegati, sia fatta dal ministro, e che molte attribuzioni, che aveva la luogotenenza, siano portate al Governo centrale: mi è grato dichiarare che S.A.R. si prestò colla maggiore condiscen­denza alla formazione del nuovo regolamento di competenza, e diede prove di non porre alcun amor proprio nella conservazione delle sue antiche attribuzioni. Nondimeno era evidente che, quando si veniva man mano diminuendo le prerogative e in certo modo la dignità di quel potere locale, non sarebbe stato dicevole di lasciarvi un principe della Casa Reale; era, dico, meno conveniente che un principe della Casa Reale vedesse poco per volta venirgli meno nelle mani l’autorità. Questa fu la ragione, per cui il Governo ha creduto di consigliare a Sua Maestà, che volesse aderire al desiderio già espresso dal principe da molto tempo, di riposare delle fatiche sostenute.

Quanto poi alla nomina del conte Ponza di San Martino, io non posso dir altro se non che egli è conosciuto nel paese come uno dei più energici ed abili amministratori ed uomini di Stato.

Voci. Sì! sì! non c’è dubbio !

Minghetti, ministro dell’interno. Ma la ragione del richiamo del principe sta precisamente nel progressivo an­damento verso l’unificazione.

Sandonato. Dirò poche parole: io non posso la­sciar rimanere la Camera sotto l’impressione di quanto ha detto l’onorevole mio amico Ricciardi. Egli ha dipinto lo stato di Napoli con troppo vivi colori, ed io vi prego dì credere che Napoli è governabilissima. La maggior disgrazia di Napoli è l’essere calunniata da Napolitani stessi. Solamente Napoli vi domanda d’essere governata con giustizia.

Voci, Sì! si!

Sandonato. E non lo è; scusate che io vi dica la verità. San Martino è il terzo luogotenente che voi avete mandato a Napoli. Ora non è questione più dei luogotenenti; la grande questione è quella degli impiegati.

Io ho preso degli appunti per rispondere al ministro Minghetti, ma non voglio fare un discorso, non voglio abusare dell’indulgenza della Camera, non sono oratore. Vi dirò francamente che il paese va rassicurato.

Voi avete una classe d’impiegati che ha paura di voi; ogni giorno voi nominate dei segretari di luogotenenza; questi mettono in disponibilità parecchi, e così sospendono la spada di Damocle sul capo di tutti, e così anche degli onesti. A certuni si parla dell’abolizione del dicastero cui sono addetti, ad altri che devono andare a Torino col terzo di soldo di meno, e così via via.

(Il ministro per l’interno fa cenno di no.)

Scusi, vi sono dei fatti, e sono terribili; io, se vuole, li posso citare; in quanto agli impiegati in generale non siete stati molto larghi.

L’onorevole mio amico Ricciardi diceva una grandissima verità; il fatto di che più si parla a Napoli è l’abolizione della Corte dei conti. Io non sono per l’autonomia napoletana; se volete distruggerla, distruggetela pure; desidero però che la Corte dei conti sia rassicurata se debba rimanere ancora in Napoli. In nome di Dio tranquillizzate tutti i poveri impiegati: ve ne sono degli onesti, dei buoni e degli intelligenti.

Io non so perchè l’onorevole Chiavarina rida di tutto que­sto; pare che non incontri le sue simpatie; ciò non impedisce che io dica la verità tutta tutta.

Chiavarina. Domando di parlare.

Sandonato. In quanto poi a quello che fu operato dai Consigli di luogotenenza non sono d’accordo coll’onorevole Ricciardi. Io sono stato molto tempo a Napoli, ed ho potuto vedere, per esempio, che l’onorevole Bardesono ha fatto una cosa buonissima, ch’io ho proposto al commendatore Nigra, e che forse egli non ha voluto fare in altre provincie; armare cioè gli uomini onesti e volenterosi contro i ladri, e questa non è piccola cosa. La Capitanata ne è grata. II signor Minghetti diceva che vi sarà esatta ripartizione nella promiscuità degli impieghi. Così sia. Io temo molto che avvenga l’opposto.

Di Cavour C. presidente del Consiglio. No ! no!

Sandonato. Il signor Bardesono da consigliere è passato governatore, e sta bene: ora pare che siano minac­ciati i governatori di prima classe a passare semplici inten­denti. (Voci di denegazione al banco dei ministri)

In questo me ne appello al signor Plutino, che saprà dire qualche cosa all’oggetto. Del resto, non voglio entrare in maggiori dettagli di per­sone. Mi rispetto troppo, e rispetto ugualmente la Camera per intrattenerla su tanti particolari: dico solo che mi felicito di quanto dite di avere fatto; l’avete però fatto molto tardi.

Fino dal mese di dicembre vi ho scongiurati di organizzare la guardia nazionale. Dite di mandare ancora organizzatori; non ce n’era bisogno. Bastava il prode generale Cosenz e gli altri mandati. Essi faranno di certo bene con l’aiuto del bravo Tupputi. Se lo aveste fatto avanti, non si sarebbero veduti fatti che hanno afflitto tutta Napoli, come quello contro Spaventa.

Io convengo che il brigantaggio è molto esagerato, ma esso esiste ed è forte. Esso minaccia di pigliare un colore politico. Oramai nelle provincie la così delta reazione trova calorose simpatie in un buon numero di ladri!

Io lo dico francamente, questo stato di cose non può durare, perchè la guardia nazionale giustamente comincia a stancarsi e con essa il paese. Sono nove mesi che vive di questa vita, facendo sola le fucilate continuamente.

Io aveva proposto di organizzare delle colonne mobili e mi pareva che il signor Nigra avesse accettata questa idea. Tali colonne mobili sarebbero state di grande aiuto alle guar­die nazionali, ma non so come non si sia ciò fatto.

Ora, il signor ministro mi dice che si faranno, ed io lo lodo. Se si fossero fatte un mese fa, le condizioni dell’ex-regno si sarebbero di certo migliorate molto.

(Il ministro dell’interno accenna di sì.)

Finalmente, se il signor ministro mi assicura che il suo programma testé sviluppato sarà un fatto, e non una parola, può essere sicuro che, ad onta che io segga su questi scanni per predilezione e per principio, non mancherò di fargli le mie felicitazioni.

Facciamo l’Italia davvero e saremo tutti d’accordo.

Minghetti. ministro per l’interno. Non solo accetto quello ch’ella dice, ma mi piace rassicurarla che il Governo non ha nessuna intenzione di far discendere i Governatori napolitani semplici intendenti, e che rispetterà tutti quelli…

Massari. Purché siano meritevoli.

Sandonato. Quanto io diceva degl’impiegati, non si poteva mettere in dubbio che io parlassi dei disonesti!

Presidente. Prego i signori deputati a non interrompere. Il signor ministro continui.

Minghetti. ministro per l’interno. Il Governo poi non può preoccuparsi di tutto quello che l’immaginazione privata può inventare, che un giorno si venga ad abolire la Corte di cassazione, un altro giorno la Corte dei conti.

Sandonato. Li rassicuri adunque.

Voci. Sì! sì ! Ai voti ! ai voti!

Presidente. Allora metterò ai voti l’ordine del giorno.

Massari. Mi perdonino. Se la Camera vuol ricominciare una discussione sulle cose di Napoli, allora deve rimandare la discussione a domani (No! No! Rumori); ma se, com’io credo, non lo vuole e non lo deve, allora la prego a pro­nunziare, senz’altro indugio, l’ordine del giorno puro e semplice. (Sì! Sì!)

Voci. Ai voti! ai voti!

Presidente. Allora domando se la chiusura sia appoggiata.

(È appoggiata.)

Ferrari. Chiedo la parola contro la chiusura. Voci. La chiusura fu già votata! (Segni vivissimi d’im­pazienza)

Presidente. Scusino, la chiusura fu solo appoggiata. Il deputato Ferrari ha facoltà di parlare.

Ferrari. Io parlerò contro la chiusura, perchè il signor Ricciardi ha riprodotta una mozione da me stata presentata alla Camera un mese fa: la mozione dell’inchiesta. Avendo io avuto l’onore di farla, così domando che o la discussione sia rimandata a domani (No! No!), od almeno che mi sia permesso di parlare oggi sulla necessità di quest’inchiesta (No! No! Ai voti! ai voti! Rumori, movimenti diversi)

Di Cavour C. presidente del Consiglio. Chiedo di parlare per l’ordine della discussione.

Presidente. Io ritengo che questa discussione non si possa più riproporre.

Di Cavour C. presidente del Consiglio. Non solo non si può ora proporre, ma non si può mai proporre in modo incidentale la questione d’un’inchiesta.

Essa è una vera proposta la quale deve essere presentata agli uffici, affinchè questi ne autorizzino la lettura, onde poi si discuta alla Camera per la presa in considerazione. Il regolamento vieta assolutamente che un deputato venga im­provvisamente a fare una proposta alla Camera di un fatto determinato, di una cosa da eseguirsi.

Quindi, se il signor Ferrari vuole che si faccia un’inchiesta, deponga la sua proposta al banco della Presidenza, la quale la trasmetterà agli uffici; e se questi ne autorizzeranno la lettura, si discuterà. Ma l’onorevole Ferrari non ha il diritto di proporre ora un’inchiesta.

Ferrari. Accetto la spiegazione statami data dall’ono­revole presidente del Consiglio. Voci. Ai voti! ai voti! Basta!

Ferrari. Ma io continuo a parlare contro la chiusura. (No! no!)

Presidente. E necessario che io osservi… Voci. Ai voti ! ai voti ! (Rumori, vivissimi segni d’impa­zienza)

Presidente. Mi perdonino, si è fatta una questione relativa al prescritto dal regolamento; sono perciò d’avviso es­sere ufficio del presidente di fare un’osservazione in proposito.

L’onorevole presidente del Consiglio, a mio avviso, non è dal lato della ragione, nell’asserire che la proposta d’inchiesta diretta a verificare dei fatti debba essere presentata alla Presidenza, e venire trasmessa agli uffici. Le consuetudini sono contrarie a questo sistema; ciò è tanto vero che, anche allorché venne ultimamente fatta dal deputato Ferrari la pro­posta per una inchiesta, si è deliberato senza che questa domanda fosse stata trasmessa agli uffici.

Debbo però avvertire che questa domanda, a mio giudizio, non si può più riproporre alla Camera, perchè essa ha già deliberato, poche settimane sono, che sopra quest’argomento non può aver luogo un’inchiesta.

Altro sarebbe se l’onorevole deputato Ricciardi avesse esposti dei fatti nuovi; in tal caso si sarebbe potuto discutere se su questi nuovi fatti si dovesse o no ordinare un’inchie­sta; ma l’onorevole Ricciardi viene a proporre un’inchiesta sulla stessa materia, sopra i fatti medesimi che già formarono argomento di discussione un mese fa, e rispetto ai quali la Camera ha già deliberato che l’inchiesta non poteva aver luogo. Parmi quindi inopportuno mettere in campo la stessa questione già stata decisa, e credo non possa nemmeno porsi ai voti questa proposta dell’inchiesta, perchè cade sulla stessa materia, sulla quale la Camera ha già pronunziato.

Ferrari. Allora persisto nel chiedere la parola contro la chiusura.

Presidente. Ha facoltà di parlare.

Ferrari. I motivi addotti dal signor ministro dell’in terno per troncare la discussione sono sventuratamente falsi. Se si trattasse di discutere il signor Nigra, il signor Ponza di San Martino, il principe di Carignano, se si trattasse di entrare nei particolari accennati dall’onorevole Ricciardi o di
parlare della Corte dei conti di Napoli o dei bagni di quella capitale o di non so qual altra circostanza subalterna, la questione non sarebbe finita; ma qui emerge oramai una questione di principi, la quale, lungi dall’essere esaurita, non è neppure aperta. In altri termini: noi non conosciamo ufficialmente lo stato di Napoli, non sappiamo se l’onorevole deputato Ricciardi ha ragione o se l’ha invece il signor ministro, e sempre, salvo il più profondo rispetto per l’onorabilità dei preopinanti, siamo immersi nelle tenebre e afflitti dalla più dura perplessità, attesoché nei giornali ufficiali non vi siete mai spiegati una volta e cercaste di fuorviarvi, dirò così, quasi sempre. Nella gazzetta del regno, dove ho sempre avidamente cercato dei dati per illuminarmi sulla situazione del mezzodì, non potei mai nulla rinvenire, né solo mancano i dettagli, ma fu dal Governo adottato un sistema di reticenza sistematico, il cui risultato sarebbe di farci vivere in un perpetuo inganno. Volete che vi dica in che modo voi avete nel vostro giornale ufficiale reso conto
dell’amministrazione del regno di Napoli durante parecchi mesi? Prendiamo dal novembre (che da quel tempo voi siete responsabili dell’amministrazione di quel paese)    

Presidente. Prego l’onorevole Ferrari a restringersi a parlare contro la chiusura, e di non rientrare nel merito della discussione.

Ferrari. Ma io voleva solamente affermare lo stato in cui ci troviamo rispetto a quel regno, intorno al quale io ora non so niente, se non per le cose asserite dal signor ministro in questo recinto, e siccome qui ora non si tratta d’individui, ma di un principio, io ora in verità non potrei dire se desi­deri o che continui il signor Nigra, o che ritorni il signor Farini, o che ci vada il signor conte di San Martino. Queste sarebbero questioni assolutamente personali; datemi dei prin­cipi, mostratemi un giornale che mi dica…

Presidente. Osservo ancora al deputato Ferrari che questo non entra nella questione contro la chiusura.

Ferrari. Io voglio dire questo solamente, che non fu sinora discusso il modo con cui il Governo si mette in comu­nicazione col pubblico circa il regno di Napoli per mezzo dei giornali pagati dal bilancio.

Io leggo la gazzetta ufficiale, i suoi telegrammi, e non ci trovo nulla che possa rischiararmi. Se interrogo i giornali francesi e quelli di altri paesi, il Governo mi opporrà che con­tengono esagerazioni e può fors’anche benissimo aver ra­gione. Ma sopra dei fatti i più essenziali si sono fatte circolare qui in tutti i giornali di Torino delle lettere false, delle smentite immaginarie, delle narrazioni stolide, con dettagli i più circostanziati, senza che alcuna esposizione seria mi faccia conoscere gli scontri, il brigantaggio, le sommosse, le dimostrazioni, i reclami che sarebbero emersi patentemente da una inchiesta. Ma essendo l’inchiesta stata rigettata, io prego la Camera a voler almeno continuare su questa materia la discussione domani, o, se vuole, anche in questo momento io sono a sua disposizione. Il mettere il pubblico al fatto della situazione del regno di Napoli è cosa che interessa non solo la politica, ma gli stessi negozianti, chi ha bottega, chi ha commercio, chi ha fab­briche. Un negoziante che volesse intraprendere qualche cosa, un’operazione qualsiasi relativa alle Due Sicilie, e ignorando affatto lo stato del paese, nè potendolo indovinare, se non dalle asserzioni del signor Ricciardi, o dalle denegazioni del signor ministro, dovrebbe rimanersi nell’incertezza. Ne nasce che tutti ne soffriamo, che il commercio e l’industria sono paralizzati, e l’interesse non solo della bassa Italia, ma ben anche dell’alta Italia, l’interesse, dico, di tutta Italia, che ho desiderato sempre unita, e desidero di veder prosperare, co­munque si trovi ordinata, richiede la continuazione di questa discussione.

Voci. Ai voti! ai voti!

Ricciardi. Io domando pure la parola contro la chiusura, perchè bisogna che risponda all’onorevole presidente, il quale disse che la Camera avendo già rigettata una volta l’inchiesta, deve rigettarla anche adesso.

Io credo di avere dimostralo che la situazione è al tutto diversa da quella dell’altra volta, e che quello che era inop­portuno un mese e mezzo fa, è adesso opportuno; ecco perchè domando si continui la discussione.

Presidente. Metto ai voti la chiusura della discussione.

(La discussione è chiusa.)

Metterò dunque ai voti l’ordine del giorno pure e semplice proposto dal deputato Massari.

Sandonato. Proporrei un ordine del giorno che credo possa essere accettato dal Ministero dopo quanto ha proclamato. Esso sarebbe così concepito:

« La Camera, prendendo atto delle dichiarazioni del Ministero, passa all’ordine del giorno.»

Presidente. Il deputato Massari aderisce a questo or­dine del giorno?

Massari. Aderisco.

Presidente. Lo pongo ai Voti.

(La Camera approva.)

La seduta è sciolta alle ore 6 e mezzo.

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