GLI OSCI E LA LINGUA PERDUTA DELL’ITALIA ANTICA
Nell’Italia pre-romana, il respiro arcaico delle civiltà italiche si diffondeva nelle valli del Sannio, tra i pendii della Campania e fino ai confini della Calabria. Tra quei popoli, gli Osci occupavano un posto peculiare, una presenza tanto viva quanto misteriosa, come un’eco che ancora oggi si avverte nei nomi dei luoghi e nelle pieghe del dialetto napoletano.
Erano di stirpe indoeuropea e appartenevano al ramo osco-umbro, un vasto insieme di genti che popolavano l’Italia centro-meridionale prima ancora che Roma imponesse il suo dominio. La loro terra d’origine era l’Opicia, una regione che si estendeva nell’entroterra del Golfo di Napoli, con centri come Alife, Atella, Pompei ed Ercolano, fondate da genti osche nei secoli precedenti alla conquista romana.
Col tempo, la loro identità cominciò a confondersi con quella dei Sanniti, popolo affine che li inglobò nel V secolo avanti Cristo. Da allora, furono compartecipi della grande epopea delle Guerre sannitiche che opposero la resistenza italica all’avanzata di Roma. Gli Osci, pur vinti, non scomparvero all’improvviso: la loro cultura sopravvisse a lungo, intrecciandosi a quella romana e fondendo tradizioni che si sarebbero propagate nei secoli. La loro lingua, l’osco, rimase in uso fino al I secolo avanti Cristo e in alcuni casi anche oltre, come attestano graffiti ritrovati a Pompei, testimonianza preziosa di un idioma che si estinse solo dopo essere penetrato nelle strade e nei mercati della Campania romana.
L’osco era una lingua indoeuropea, della stessa famiglia dell’umbro e del latino, ma distinta da entrambi per caratteristiche fonetiche e grammaticali proprie. Diffusa in un territorio vastissimo — dal Sannio alla Lucania, dall’Apulia fino al Bruzio — era un idioma che si esprimeva in iscrizioni solenni, in testi pubblici e religiosi, ma anche nelle legende delle monete locali. Le più note testimonianze scritte sono la Tavola Osca, il Cippus Abellanus e la Tabula Bantina, che ancora oggi rappresentano un tesoro inestimabile per i linguisti. Sulle tavole di bronzo e nelle iscrizioni di pietra si stagliano caratteri nitidi, appartenenti a un alfabeto affine a quello etrusco, adottato per esprimere con rigore formule rituali, leggi e decisioni civiche di un popolo ormai scomparso ma non dimenticato.
Da Messina all’Abruzzo, l’eco della lingua osca segnò per secoli la fisionomia linguistica dell’Italia meridionale. Era una lingua di popoli guerrieri ma anche di artigiani e contadini, che trasse forza da una dimensione collettiva di identità etnica. In essa si stratificarono dialetti differenti, uniti in una sorta di koiné nata dall’incontro di varie tradizioni locali. Il processo di romanizzazione, iniziato con la conquista del territorio sannitico e concluso nel I secolo avanti Cristo, portò alla progressiva scomparsa dell’osco, sostituito dal latino, che ne assorbì comunque tracce e sfumature. Alcuni studiosi ipotizzano che termini e intonazioni di quell’antico idioma abbiano influenzato, secoli più tardi, le evoluzioni dei volgari e poi delle lingue regionali dell’Italia meridionale.
Non va dimenticato che l’osco ebbe anche una funzione artistica importante. Dalla città di Atella nacquero le celebri Fabulae Atellanae, brevi commedie farsesche che utilizzavano la lingua osca come strumento di comicità popolare. Quelle rappresentazioni, nate nei villaggi campani, conquistarono Roma nel IV secolo avanti Cristo e influenzarono profondamente il teatro latino. È suggestivo pensare che dietro alcune maschere della commedia dell’arte si possa intravedere l’ombra lunga di una tradizione osca, trasfigurata ma non del tutto spenta.
Gli Osci quindi furono più di una popolazione dimenticata: furono interpreti di una stagione linguistica e culturale che gettò le basi della futura civiltà latina. La loro lingua perduta non è soltanto un frammento archeologico, ma una voce antica che ancora parla nei silenzi della terra campana, nei resti di Pompei e nei suoni delle parole che continuano a tessere, oggi come allora, la trama viva della storia d’Italia.


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