Hitler non inventò nulla che non fosse stato fatto prima dai Savoia
Hitler non inventò nulla che non fosse stato fatto prima dai Savoia
(dal PeriodicoDueSicilie 11/1998)
Quando il comitato di redazione di Nazione Napoletana – Edizione Nord – decise di fare questo inserto, le indicazioni per RIN, l’autore di questo pezzo, furono quelle di fare una ricerca sulla Fortezza delle Fenestrelle, dove vennero rinchiusi i prigionieri Napolitani nel 1860. In realtà ne è venuto fuori qualcosa di diverso e, piú che delle Fenestrelle, l’inserto parla delle terribili sofferenze che sono state inferte ai nostri soldati dall’aggressore piemontese.
A questo punto avrei dovuto cambiare il titolo, poiché solo verso la fine, e solo con una breve descrizione, si parla delle Fenestrelle, che fu, come leggerete, la “soluzione finale” per tanti nostri sventurati soldati. Ho voluto, tuttavia, lasciare intatto questo titolo perché Fenestrelle è al di là della sua storia. Fenestrelle identifica, infatti, i Savoia e i Piemontesi. La fortezza è cioè una “costruzione simbolo di popolo”: come lo è il Colosseo per i Romani, il Maschio Angioino per i Napolitani, la statua della libertà per gli Americani, cosí come i tanti monumenti in ogni città del mondo. Fenestrelle è un simbolo vergognoso, e identifica in modo esemplare quali sono stati i valori dei Savoia e dei Piemontesi, ma la costruzione è citata in un depliant turistico dalla Regione Piemonte come luogo da visitare, perché incarna lo “spirito europeo” (sic).
Noi della redazione conosciamo benissimo le capacità dell’autore: paziente e instancabile ricercatore, puntiglioso nel trovare le prove delle vicende e, seppure appassionato patriota, equilibrato nei giudizi. Proprio per questo le notizie che sono venute fuori hanno suscitato in tutti noi un vero e proprio sgomento, indignazione e una profonda rabbia. Certo, dopo 138 anni da quegli avvenimenti, può far sembrare incredibile provare ancora questi sentimenti, ma vi accorgerete, leggendo, che queste sono le sensazioni che, frase dopo frase, montano dentro la mente di ogni lettore, anche non di parte.
Antonio Pagano
EUROPA : LA MADRE DI TUTTE LE STRAGI
Quando si accenna a sterminii di guerra, l’immaginario collettivo fa prontamente riferimento ai campi di concentramento nazisti di Auschwitz, Buchenwald, Mauthausen ed altri che la televisione e i film hanno reso tristemente familiari. Un po’ meno familiari sono gli sterminii compiuti dai sovietici contro le nazionalità dell’Europa orientale e dai Giapponesi contro il popolo cinese e i popoli del sud-est asiatico.
In Europa, alla fine della II Guerra Mondiale, che causò una mattanza infinita, dopo parecchi anni di silenzio, ma soprattutto perché il padre Stalin tolse l’incomodo della sua presenza da questo mondo, a poco a poco cominciarono ad emergere, dagli archivi dei servizi segreti, i fatti agghiaccianti delle fosse di Katyn in cui i sovietici fecero macello dell’ufficialità polacca deportata dopo la spartizione della Polonia con la Germania nazista. Le foto dell’orribile massacro, migliaia di scheletri, oltre diecimila, riportati alla luce, fecero in un baleno il giro del mondo, il mostro, esaltato per parecchi lustri, cioè da quelli che non avevano degustato il paradiso sovietico, il mostro, dicevo, divino modello di protettore dei popoli contro l’imperialismo americano ed occidentale, era stato finalmente smascherato. Accortamente gli oppositori ideologici del sistema sovietico se ne servirono polemicamente per lunghi anni, ma oggi purtroppo quasi nessuno dei giovani sa di quell’infame genocidio e, forse, neppure gli anziani lo ricordano piú, tempestati come sono, in questo secolo cosí breve, da notizie sempre piú atroci.
STRAGI NELLE DUE SICILIE
Eppure il massacro di Katyn, finalizzato all’eliminazione di qualunque opposizione all’imperialismo sovietico, non era, sul piano storico, una novità nel panorama dei crimini di guerra. Senza far mente a Napoleone, che in fatto di sterminii fu un campione ineguagliato per oltre un secolo, basti al riguardo citare solo le stragi perpetrate dai suoi generali nella invasione delle Due Sicilie nel 1799 che però non piegarono il nostro popolo, come con lealtà ammise uno di essi, il Thièbault (i Napoletani ci insegnarono a temerli come uomini… Sebbene siano stati battuti dappertutto e, senza contare le perdite che subirono durante i combattimenti, piú di sessantamila di essi siano stati passati a fil di spada, sulle macerie delle loro città o sulle ceneri delle loro capanne, NON LI ABBIAMO MAI LASCIATI VINTI) [altro che tremila morti di cui parla Colletta, N.d.R.] sappiamo delle terribili stragi etniche nel nostro Sud dal 1860 in poi, tipo quelle di Scurcola Marsicana, Pizzoli, Isernia, Pontelandolfo, Casalduni, Montefalcione e tante altre, documentate sia da storici delle Due Sicilie che da memorie militari di alcuni criminali generali invasori protagonisti degli eccidii, per i quali, anche se post mortem, prima o poi dovrà essere istruito un Tribunale di Norimberga: “Le SS del1860 e degli anni successivi si chiamarono, per gli abitanti dell’ex Reame, piemontesi, afferma con sacrosanta ragione Alianello in “La Conquista del Sud” (Rusconi, 1994, pag. 261) e inoltre (a pag. 257): “Morti a cataste. torme di schiavi ai lavori forzati, schiere di esuli, senza casa e senza pane, senza onore, si vanno aggirando per le strade d’Italia, d’un’altra Italia. ostile. beffarda, dovunque accolte dal sospetto che è anche terrore e ripugnanza persino. Il destino del Sud è ormai fissato per cento anni almeno” grazie anche a tutti gli scellerati collaborazionisti, tantissimi, di casa nostra.
Antonio Ciano, nel suo libro “”I Savoia e il massacro del Sud”, parla di un milione di morti “acc’si”, cifra non inverosimile dal momento che il corpo di occupazione piemontese, “che disponeva ormai di tutta la forza d’Italia” (Francesco II), compresa la guardia nazionale di trista memoria, assommava nel 1865, anno del massimo sforzo contro la resistenza meridionale, a mezzo milione di uomini, cioè A TANTI QUANTI GLI AMERICANI NELLA GUERRA DEL VIETNAM. “Se si traesse il novero dei fucilati, dei morti nelle zuffe, dè carcerati dal Piemonte, per soggiogare il Regno di Napoli, senza fallo si troverebbe assai maggiore di quello dei voti del plebiscito, strappati con la punta del pugnale e colle minacce del moschetto…” riferisce La Civiltà Cattolica (Serie IV, Vol. XI, 1861, pag. 618). Come dire che i morti, nel 1861 mese di agosto, superavano già di gran lunga il milione trecentomila. Infatti i risultati del cosiddetto plebiscito, truccati ed estorti con i moschetti alla gola, risultarono essere: 1.302.064 Sí contro 10.312 No. La menzogna di tali numeri è scolpita, per chi avesse ancora qualche dubbio in proposito, nella lettera da Napoli a Ruggero Bonghi n. 3298 datata 20 marzo 1861 del Carteggio di Cavour, La Liberazione (!!!) del Mezzogiorno, vol. IV pag. 398, Zanichelli: ” … Ieri è stato il giorno piú solenne per dimostrare lo scontento di tutto il popolo. Il 14 fu la festa del Re ‘, non lumi, non feste, non un evviva :..il 18, proclamazione del Regno d’Italia, silenzio di morte…”
SOLUZIONE FINALE PER L’ARMATA DEL SUD
Poco o per nulla invece si è parlato dello STERMINIO DELL’ARMATA DELLE DUE SICILIE. Eppure, documenti che accennano a luoghi e cifre dei deportati “desaparesidos” nei campi di concentramento sabaudi (regolarmente dimenticati dagli “storici” prezzolati di regime) esistono e come! per esempio, la seguente lettera di Cavour a Farini, luogotenente a Napoli, datata 21 novembre 1860, n. 2551 del citato Carteggio, vol. III: “Carissimo amico. Io vi prego a nome pure dei miei colleghi a rifletterci ancora sopra prima di spedire qui tutte le truppe napoletane che il Papa e i Francesi ci restituiscono (si tratta di 12.000 soldati fatti prigionieri a Terracina, là inviati dal Re Francesco II perché tornassero nel Regno dalla parte degli Abruzzi, N.d.R.). è, a parer mio, atto impolitico sotto tutti gli aspetti. Il trattare tanta parte del popolo da prigionieri non è mezzo di conciliare al nuovo regime le popolazioni del Regno. Il pensare di trasformarli in soldati dell’esercito nazionale è impossibile e inopportuno. Pochissimi consentono ad entrare volontariamente nel nostro esercito, il costringerli a farlo sarà dannoso anziché utile almeno per ciò che riflette gran parte di essi. Ho pregato Lamarmora di visitare lui stesso i prigionieri che sono a Milano. Lo fece con quella cura che reca nell’adempimento di tutti i suoi doveri. Poscia mi scrisse dichiarandomi che il vecchio soldato napoletano era canaglia di cui era impossibile trarre partito; che corromperebbe i nostri soldati se si mettesse in mezzo a loro. Credo che bisogna fare una scelta, mandare a casa tutti quelli che hanno piú di due anni di servizio, dichiarando loro che al menomo disordine sarebbero richiamati sotto le armi e mandati a battaglioni di rigore. Tenere sotto le armi quelli che non hanno compiti due anni di servizio e quelli fonderli nei reggimenti, costringendoli a servire per amore o per forza. Vi prego di comunicare queste idee a Fanti, invitandolo a nome del Consiglio a soprassedere almeno per qualche tempo dallo spedire a Genova quegli ospiti incomodi… Vi mando la lettera di Lamarmora sui prigionieri Napoletani… “. Vediamo quale era la lettera che questo generalone aveva inviato al suo Hitler in sedicesimo il 18 novembre 1860 (non si meraviglino i lettori per tale accostamento: Hitler invase la Francia attraverso il Belgio e l’Olanda, il conte dracula il Regno attraverso lo Stato pontificio): “… Non ti devo lasciar ignorare che i prigionieri Napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsenton a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di vermina, moltissimi affetti da mal d’occhi… e quel che è piú dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andar a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco secondo, gli rinfacciai che per il loro Re erano scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavan a servire, che erano un branco di carogne che avressimo trovato modo di metterli alla ragione. Non so per verità che cosa si potrà fare di questa canaglia, e per carità non si pensi a levare da questi Reggimenti altre Compagnie surrogandole con questa feccia. I giovani forse potremo utilizzarli, ma i vecchi, e son molti, bisogna disfarsene al piú presto”.
Le condizioni igieniche erano spaventose, ma non per questo il soldato napolitano perdeva orgoglio e maestà. Da questa lettera emerge a tutto tondo il volto della vera canaglia, lui, il Lamarmora, il codardo che finché era al sicuro macellava a Gaeta il nostro esercito con i cannoni rigati francesi e i fucili inglesi, sostenuto dalle massime potenze mondiali di allora che erano venute a dichiararci una guerra altrettanto mondiale, ma che, nel 1866, a Custoza, nonostante che le sue forze fossero quattro volte superiori a quelle di Alberto d’Austria, fuggiva piú veloce di un coniglio in compagnia di tutti quegli altri scellerati come Cialdini, il boia numero uno, che si erano distinti nel crocifiggere prima i nostri fanti sul Volturno, a Gaeta, a Civitella e a Messina e poi il nostro popolo indifeso che gli si opponeva con le falci, coi forconi e con le pietre: tanti presi, tanti fucilati, questo era il motto di quegli assassini. Ma nonostante le fucilazioni a catena elargite con sadica disinvoltura dal barbaro aggressore, una fierissima resistenza antiunitaria dilagava in tutto il Sud. Resistenza che purtroppo solo sporadicamente era capeggiata da ufficiali fedeli alla Patria napolitana. La cosa fu messa in risalto dal Vice Ammiraglio Leopoldo Del Re, Incaricato del Portafoglio degli Affari Esteri del Governo Napolitano in esilio, in data 7 settembre 1861, cioè esattamente un anno dopo l’inizio della resistenza, in risposta al memorandum di Ricasoli: “… Ai numerosi soldati che si battono contro l’invasore non mancano, come invece pretende Ricasoli, capi volontari e non mancherebbero loro neanche i generali napoletani, se i proconsoli piemontesi, temendo ciò, non li avessero arrestati tutti, con pochissime eccezioni e inviati a Genova, ad Alessandria, a Fenestrelle… Questa misura ha colpito generali e ufficiali superiori nonostante gli accordi di Capua, Gaeta e Messina, e che non erano tra quelli che il Piemonte avrebbe potuto decorare con l’ordine di S. Maurizio… ”
I FEDELISSIMI
Eppure, agli sforzi assassini che il bandito Cialdini compiva contro Gaeta, la Guarnigione della Cittadella rispondeva impavidamente, sotto l’uragano delle bombe, con un ri-giuramento di fedeltà alla Patria duosiciliana e al Re Francesco Il. Leggiamolo assieme.
“Sire.
In mezzo al deplorevoli avvenimenti, di cui la tristezza dè tempi ci rese spettatori dolenti e indignati, noi sottoscritti ufficiali della guarnigione di Gaeta, uniti in una ferma volontà, veniamo a rinnovare l’omaggio della nostra fedeltà dinanzi al vostro trono, reso piú venerabile e piú splendido dall’infortunio. Cingendoci la spada, noi giurammo che la bandiera affidataci da V.M. sarebbe da noi difesa anche a prezzo di tutto il nostro sangue. Ed è a questo giuramento che noi vogliamo rimanere fedeli qualunque sieno le privazioni, le sofferenze e i pericoli ai quali ci chiama la voce dè nostri capi; noi sacrificheremo con gioia le nostre fortune, la nostra vita e qualunque altro bene per il trionfo e pei bisogni della causa comune. Gelosi custodi di quell’onor militare che solo distingue il soldato dal bandito, noi vogliamo mostrare a V.M. ed all’Europa intera che, se molti dè nostri, col tradimento e colla viltà, hanno bruttato il nome dell’Armata Napoletana, fu pur grande il numero di coloro che si sforzano di trasmetterlo puro e senza macchia alla posterità. Che il nostro destino sia presto deciso, o che un lungo periodo di sofferenze e di lotte ci attenda ancora, noi affronteremo la nostra sorte con docilità e senza paura, colla calma fiera e dignitosa che si conviene ai soldati, noi andremo incontro alla gioia del trionfo o alla morte dei prodi, innalzando l’antico nostro grido di “Viva il Re”.
Il generale Tito Battaglini, nel suo libro “Il crollo militare del Regno delle Due Sicilie”, vol. 2, pag. 63, riferisce circa i prigionieri: a Gaeta “la forza capitolata fu di 920 ufficiali con 25 generali, avendo altri tre seguito il Re a Roma, e di 10. 600 uomini di truppa, fra i quali 800 ammalati e feriti”. Durante l’assedio, sempre secondo il citato generale, “le perdite, borboniche furono di 1079 uomini… fra cui 17 ufficiali… per tifo decedettero 9 ufficiali e 307 soldati”. La costruzione dell’ITALIA UNA E INDIVISIBILE marciava su un oceano di cadaveri napolitani e di distruzioni infinite: i mali di oggi sono figli di quelli di ieri. Ma era solo l’inizio. Il popolo delle Due Sicilie avrebbe conosciuto ben altri orrori, ben altre distruzioni, per mano dei “fratelli liberatori” discesi dal nord, degni emuli dei loro barbari antenati del V e VI secolo.
Ecco come lo stesso criminale di guerra Cialdini scrisse al suo degno compare il Generale Fanti il 18 febbraio 1861: “I danni alla piazza eccedono le nostre previsioni. Alcune zone ricordano Sebastopoli. Due o tre giorni di fuoco intenso, come era nella mia intenzione di fare, avrebbe letteralmente distrutto Gaeta”. Ma Francesco II, che i parricidi unitaristi “o chiammavano scemo e Lasagnone” (ma annascunneva ‘o core e nu lione) (F. Russo, ‘0 surdato ‘e Gaeta, XII), aveva capito che la resistenza a Gaeta aveva i minuti contati e, quale Capo Supremo della fortezza e dell’esercito, essendosi raggiunto lo scopo politico della resistenza all’aggressione, prese la decisione suprema di trattare la resa per non far trucidare ormai inutilmente tutti i suoi soldati sotto le fraterne bombe del Camillone e compari (“Primma ‘e nce fa trattà peggio d’ ‘e cane, / pr’mma ‘e nce fa murí mm’ezo ‘e turmiente, / isso dicette: No! Basta! Fernimmo! Sarraggio Rre, ma ve so’ patre, appr’mmo!) (F. Russo: ‘0 surdato ‘e Gaeta, XXIX). Ma le forze che, con fedeltà ed eroico furore, si erano battute sul Volturno, questa Waterloo delle Due Sicilie, ascendevano ad oltre quarantamila uomini. Di questi circa dodicimila non potendo trovar rifugio nella fortezza erano stati inviati in territorio pontificio con la segreta speranza che i francesi che presidiavano “amichevolmente” quello Stato non impedissero il ritorno nel Regno dalla parte degli Abruzzi per dar inizio alla resistenza. Ma i transalpini erano alleati dei piemontesi per via della cessione del Nizzardo e della Savoia avvenuta tra la fine del 1859 e il 1860, per la quale cessione i piemontesi agognavano a un compenso. Perciò i francogalli erano nemici non tanto occulti delle Due Sicilie insieme agli inglesi nemici dichiarati (… L’Inghilterra apertamente, e la Francia sottomano, ci eccitano a finirla. Non si dia pensiero della diplomazia. Rimanga a Gaeta o se ne vada il Re [Francesco II], noi dobbiamo senz’esitare andare a Napoli) (lettera n. 1097 di Cavour a Fanti il 2 ottobre 1860, in Carteggio di Cavour, vol. III, pag. 11). Ma i Francesi li fecero prigionieri e senza tanti complimenti li spedirono in regalo ai piemontesi.
DEPORTAZIONE DEI PRIGIONIERI
A Capua, da parte del Generale Enrico Morozzo Della Rocca, erano stati fatti altri 11.500 prigionieri, altri 2.600 dal Garibaldone in due tornate sul Volturno. Siamo perciò ai quarantamila di cui il generale Fanti parla al suo astuto padrone nel dispaccio n. 2545 datato Napoli 19 novembre 1860, riportato a pag. 347 del terzo volume della citata corrispondenza di Cavour: “Se V.E. non noleggia dei vapori all’estero e subito pel trasporto, è impossibile uscire da questo labirinto … ve ne vogliono … altri pei 40mila prigionieri di guerra”. Costui ritorna sull’argomento nella successiva lettera n. 2580 del 25 novembre: ” … Mi pare che nella grande urgenza di molti trasporti sarebbe necessario noleggiarne e contrattarne in Genova od altrove pel trasporto a Genova da Civitavecchia o Terracina dei prigionieri di guerra Napolitani che rendono i Francesi…”. Tali lettere affermano due cose: che i prigionieri devono essere deportati al nord e, implicitamente, che la flotta napolitana, regalata al nemico dai parricidi traditori e fusa con quella piemontese (Decret fusion marine Napolitaine et Sarde émané …) (dispaccio di Cavour n. 2583 del 25 novembre 1860 al Vittorione), non ha equipaggi, perché i marinai hanno disertato in blocco per raggiungere il loro legittimo Re a Gaeta. A tali prigionieri bisognerà poi aggiungere i capitolati delle fortezze della Sicilia ultime a cadere: Augusta, Milazzo, Siracusa e Messina (solo in quest’ultima 152 ufficiali e 4138 fra graduati e soldati; – v. C. Cesari L’assedio di Gaeta, pag. 172). Si arriva cosí alla cifra di cinquantaseimila prigionieri citati da quel degno figlio di Caronte, il generale Cialdini, nella polemica lettera del 21 aprile 1861 diretta al Garibaldone, pubblicata sulla Gazzetta di Torino: “… Generale, voi compiste una grande e meravigliosa impresa coi vostri volontari. Avete ragione di menarne vanto, ma avete torto di esagerarne i veri risultati. Voi eravate sul Volturno in pessime condizioni quando noi arrivammo. Capua, Gaeta, Messina e Civitella, non caddero per opera vostra, e CINQUANTASEIMILA borbonici furono battuti, dispersi e fatti prigionieri da noi, non da voi … Nel vostro legittimo orgoglio, non dimenticate, o generale. che l’armata e la flotta nostra vi ebbero qualche parte, distruggendo molto piú della metà dell’esercito napoletano, e prendendo le quattro fortezze dello stato …
Le Armate di Terra e di Mare delle Due Sicilie ammontavano infatti a oltre centomila uomini, che bisognava calzare, equipaggiare, dotare di armi leggere, pesanti, di navi, etc … La perdita di tali commesse, assegnate dal 1860 in poi solo ai nordisti, ha fatto precipitare nel nulla la nostra industria che da allora non conta nemmeno come il due di briscola. In qualunque Stato l’industria della armi, per quanto eticamente abominevole, rappresenta fin dall’epoca degli Ittiti il fulcro di qualunque ricerca industriale e di supremazia in tutti i campi. Nella nostra Patria, venuto a mancare tale volàno, era inevitabile che si cadesse nel sottosviluppo economico e culturale con conseguente oceanica emigrazione.
DEPORTAZIONE DEI GENERALI
Nella caduta di Gaeta erano stati fatti prigionieri 25 generali: Tenenti generali: Casella, Ritucci, Salzano, Sigrist, Milon; Marescialli: Schelembri, Afan de Rivera, Tabacchi; Brigadieri: Melendez, Marulli, Polizzy, Antonelli, Bertolini, Sanchez de Luna, Micci, D’Orgemont, Pelosi, Lovera, Muti, Albanese, Palumbo, De Dominicis, Paterna, Tedeschi e Vecchione. Già prima della resa di Gaeta si incomincia ad arrestare generali precedentemente capitolati. La notizia vien data dal generale piemontese Della Rocca in un telegramma del 2 gennaio 1861 al suo criminal superiore Cialdini: “Sono stati arrestati cinque generali borbonici” (colonnello Cesare Cesari: L’assedio di Gaeta, pag. 115). Il 18 febbraio 1861, cioè appena cinque giorni dopo la caduta di Gaeta, il generale piemontese Fanti, capo di Stato maggiore generale nonché ministro della guerra, scriveva a Cialdini: “Approvo che V.E. abbia mandato i prigionieri di Guerra nelle isole”. Era l’inizio delle deportazioni: isole, Livorno, Genova, Savona, poi a piedi per i campi di concentramento piemontesi di Alessandria, S. Maurizio Canavese, S. Benigno Canavese, Lombardore, S. Benigno di Genova, Fenestrelle e anche di Milano. Ma già prima della resa di Gaeta era pure cominciato il calvario dei nostri soldati prigionieri: ” … tra le parecchie migliaia di prigionieri, tramutati nell’Italia superiore, benché tentati colla fame, col freddo in clima per essi rigidissimo, e, con ogni genere, di privazioni, appena i tre o quattro sopra cento si piegarono ad arrolarsi nelle milizie di un altro Re, e quasi tutti, all’invito, non fecero altra risposta, che questa molto laconica: Il nostro Re sta a Gaeta” (La Civiltà Cattolica, serie IV., vol. IX pag. 304, 25 gennaio 1861) e a pag. 306 “i poveri fantaccini regnicoli che nella Cittadella di Milano [l’odierno Castello Sforzesco, trasformato da fortezza militare in monumento civile verso il 1898, N.d.R.], in questi rigori di verno, vestiti alla leggera come se fossero di state a Mergellina, vivono di due once di riso” e a pag. 367: “Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad uno spediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, e rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane e acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d’altri luoghi posti nei piú aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sí caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stento fra le ghiacciaie! E ciò perché fedeli al loro Giuramento militare ed al legittimo Re! Simili infamie gridano vendetta da Dio, e tosto o tardi l’otterranno”. Il corrispondente ritorna, con parole ancora piú drammatiche, sull’argomento prigionieri nel vol. XI, serie IV, 14 settembre 1861, pag. 752: … i Torinesi avevano corso un altro pericolo, di venire, cioè conquistati dai Napoletani e di vedere la bandiera di Francesco II sventolare sulla torre di palazzo Madama. In Italia … esiste proprio la tratta dei Napoletani. Si arrestano da Cialdini soldati napoletani in gran quantità, si stipano nè bastimenti peggio che non si farebbe degli animali, e poi si mandano in Genova. Trovandomi testé in quella città ho dovuto assistere ad uno di què spettacoli che lacerano l’anima. Ho visto giungere bastimenti carichi di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti; e sbarcati vennero distesi sulla pubblica strada come cosa da mercato. Spettacolo doloroso che si rinnova ogni giorno in Via Assarotti dove è un deposito di questi sventurati. Alcune centinaia ne furono mandati e chiusi nelle carceri di Fenestrelle, equi la malesuada fames et turpis egestas li indusse a cospirare; e se non si riusciva in tempo a sventare la congiura, essi ‘mpadronivansi del forte di Fenestrelle, e poi unendosi con migliaia di altri napoletani incorporati nell’esercito, piombavano su Torino. Un OTTOMILA di questi antichi soldati Napoletani vennero concentrati nel campo di S. Maurizio, ma il governo li considera come nemici, e, dice l’Opinione, che “a tutela della sicurezza pubblica sia dei dintorni, sia del campo, furono inviati a S. Maurizio due battaglioni di fanteria”. Ma si sa che inoltre vi stanno a Guardia qualche batteria di cannoni, alcuni squadroni di cavalleria, e, piú battaglioni di bersaglieri, tanto ne hanno paura! E cotestoro, cosí guardati e malmenati, pensate con che valore vorranno poi combattere pel Piemonte! Eccovi in che modo si fa l’Italia!”. Intanto si va a caccia, con forsennata tenacia, di ufficiali Napolitani: “la polizia … per mettersi al sicuro che, in caso di una sedizione popolare mancassero i capi militari atti a governarla … arrestò di botto sei Generali dell’esercito napolitano… spacciando di averli scoperti complici d’una tremenda congiura; ed inoltre intimò a moltissimi ufficiali … che dovessero costituirsi prigionieri in varie castella … ecco le centinaia d’innocenti oppressi e stretti in duro carcere”.
IL GRANDE SATANA
Chi era il machiavellico e spietato Tigellino, il turpe proconsole che faceva arrestare ufficiali e generali delle Due Sicilie? Un piemontese forse? NO! Era lo scellerato rinnegato cerebroleso Silvio Spaventa di Bomba (Chieti), nominato, con decreto del 17 gennaio 1861 in piena resistenza di Gaeta, ministro di polizia dalla famelica cariatide Carignano, obeso da medaglioni e collaroni alla maresciallo sovietico Jakubovskji (dispaccio n. 2966 di Nigra nel citato carteggio: “La nouvelle administration sera composée probable-ment demain. Poerio s’est chargé de proposer au Pr’nce les noms des nouveaux Conseillers; il a proposé Romano à l’Interieur, Avossa, Justice, Spaventa, Pol’ce, Imbriani, Instruction publ’que…). Su questo maganzese kapò, condannato a morte da un tribunale del Regno, ma graziato da Ferdinando II, riferiamo un giudizio dell’eroico cappellano, reduce da Gaeta, don Giuseppe Buttà CHE LO CONOSCEVA PERSONALMENTE per averlo praticato per parecchio tempo (I Barboni di Napoli, 1877, vol. II, pag. 507): “Io lo conobbi questo superbo pezzente di Bomba … Si vendicò con perseguitare tanti onesti e valorosi uffiziali, capitolati di Capua e di Gaeta … Lo Spaventa salí a’ primi posti nel nuovo stato del regno d’Italia, sempre maledetto da’ suoi stessi amici, se pure mai ne avesse avuti. Oggi, mentre scrivo, trovasi tra i Cesars declassès ma egli, son sicuro, rivenderebbe la patria e l’anima sua a Satana per riavere per un giorno, un’ora, un minuto di quel potere birresco per cui sembra nato”.
Sentiamo quel che ne dice La Civiltà Cattolica a pag. 503: “A reggere la cosa pubblica e rifare il Regno fu posto, come si sa, il sig. Silvio Spaventa, del quale si può ben dire che regna e governa; poiché del Principe Luogotenente [cioè il Carignano, N.d.R.] e del Segretario Generale Nigra appena è mai che si senta proferire il nome. Lo Spaventa, che per molte parti è degno successore di Don Liborio Romano, procede con mezzi molto diversi. Don Liborio avea sciolti i galeotti a centinaia e commessa loro la custodia dell’ordine pubblico; e la sicurezza cittadina, guarentita dai Camorristi, trionfava a quel modo che tutti sanno. Lo Spaventa ebbe ribrezzo di tale infamia, diede la caccia ai galeotti liberati … Ma per farsi perdonare queste severità, procurò di offerire ogni quindicina di giorni, una bella ecatombe di realisti borbonici in sacrifizio della rivoluzione fremente. E gli caddero opportunamente sotto la mano certe denunzie di suoi cagnotti o di traditori, per dargli pretesto a carcerare, come cospiratori, il Duca di Caianiello, monsignor Trotta, e qualche centinaio di uomini dabbene, con riserva di trovare o fabbricare poi le ragioni giuridiche di condannarli.”. Vediamo che cosa profferisce del suo avo-zio la pronipote Elena Croce, che certamente doveva sapere qualcosa dei vizi di famiglia: “La caricatura del persecutore di camorristi che assume, sembianze di capo camorrista, elaborata a Napoli durante la Luogotenenza, acquistava automaticamente, coi fatti di settembre, nuovo corso. Si disse che Spaventa, chiamati i suoi sgherri napoletani, aveva dato dal suo ufficio, con un colpo di pistola, il segnale perché la truppa aprisse il fuoco sui dimostranti, ed era restato a guardare freddamente, dietro i vetri, fumando un sigaro”. Lo dice ma subito dopo lo nega (Elena Croce: Silvio Spaventa, Adelphi, 1969, a pag. 200). Il conte legittimista de Christen dice “Monsieur Spaventa, ancien chef des camorristi de Naples”. Eufemisticamente la pronipote lo dice impopolarissimo (pag. 160). Una caricatura di Camillo Marietti, del 24 gennaio 1865, rappresenta questo “augel notturno, sepolcrale e tristo” con corpo e zampe di rapace e testa con occhi di gufo. Ancora, nel 1863, all’epoca della Legge Pica di famigerata memoria (legge terribile, dai procedimenti sbrigativi e sommari … strumento di dispotismo arbitrario e furibondo, secondo la Enciclopedia Italiana, voce Brigantaggio) formava al Ministero degli Interni, con Pica e Peruzzi che tale legge avevano ideato e firmato, una trimurti di scellerati delinquenti di Stato (Mmiezo a nui na rètena ‘e farabbutte / ca tradevano ‘a Patria) (F. Russo: ‘0 surdato ‘e Gaeta). Orbene, costui, chiamato dal padrone piemontese C. Nigra a rapporto epistolare, cosí scriveva da Napoli il 19 febbraio 1861 (in allegato alla lettera del Nigra a Cavour n. 3161 del 22 febbraio 1861):
“Eccellenza, Rispondo al suo pregevole foglio del 13 corrente. Sin dal mese scorso ho mandato al Generale Della Rocca un ufizio, esponendogli le ragioni, per le quali io aveva ordinato l’arresto di alcuni Generali del disciolto Esercito Borbonico. Glielo accludo trascritto, e la prego di trasmetterlo a S.E. il Presidente dei Ministri ed al Ministro della Guerra, perché potrà convincerli che l’arresto di quegli officiali non è stato sotto alcun rispetto illegale, ed era reso indispensabile dalle condizioni eccezionali, in cui versava il paese. Non avrei a dirle altro, se non sentissi il debito di sottoporle che gli officiali arrestati non hanno il diritto d’invocare la speciale protezione del ministro della guerra, e quelle garanzie, onde sono rivestiti i soli militari riconosciuti dal Governo. Ed invero gli ufficiali, quando furono arrestati, erano in questa condizione. Alcuni, ed erano pochissimi, avevano già fatto adesione al governo del Re. Altri o ritornavano dagli Stati Pontificii ovvero forniti di congedo illimitato di Francesco 2i venivan da Gaeta. Né gli uni, né gli altri possono essere considerati come militari, e sotto la dipendenza immediata del Ministro della Guerra. Il grado d’ufficiale e i diritti che ne derivano, non possono esser conferiti che da un brevetto firmato dal Re. L’adesione che alcuni uffiziali avean fatto al nuovo ordine di cose, non dava loro se non la facoltà di chiedere d’essere ammessi nell’Esercito Italiano. Il che si ricava da’ Decreti del 28 Novembre e del 9 dicembre 1860 per determinare la posizione dei Signori Uffiziali, impiegati amministrativi, etc. procedenti dallo Esercito regolare dello scaduto governo delle Due Sicilie, i quali giustificassero d’aver fatto regolare, adesione, al nuovo ordine di Cose.
L’adesione, adunque non conferiva loro alcuna qualità. Era necessario che la Commissione istituita disaminasse la loro condotta ed i loro requisito, e desse il suo avviso, il quale quante volte fosse stato favorevole, sarebbe stato sottoposto all’approvazione del Ministro della Guerra ed alla sanzione del Re. Gli altri officiali, che tornavano da Gaeta o da Roma, non possono sotto alcun rispetto essere riguardati neanco essi come militari riconosciuti dal Governo. A prima vista parrebbe che si dovessero considerare come prigionieri di guerra. Questo Dicastero non crede dover fare una minuta discussione su questo proposito. è certo però che il Ministero della Guerra non ha preso verso di loro alcuno di quei provvedimenti che soglionsi verso i prigionieri di guerra adoperare, e quindi ha dimostrato col fatto che egli non riconosceva questo carattere negli officiali reduci da Gaeta e da Roma. Quanto a me, credo che costoro, anziché prigionieri di guerra, possano essere ravvisati come ribelli al Re ed alla Nazione; perocché persistettero a battersi dopo il plebiscito; dopo che il Re alla testa dell’esercito era venuto a prender possesso di questa parte d’Italia, dopo che il governo nazionale era costituito di fatto e di dritto su tutto il territorio di queste Provincie.
Lo stesso Comando della Piazza di questa città non ha ravvisato sotto altro aspetto la condizione di cotesti officiali. Ed in vero, quando questo Dicastero lo richiedeva che provvedesse a’ mezzi di sostenerli in carcere, si rifiutava con uficio del 7 Gennaio di questo anno, dichiarando di non poter riconoscere il carattere di ufficiali negli arrestati.
Né dissimile è stato l’avviso del Direttore della Guerra, come appare, da un suo ufficio del 14 detto mese.
Non tralascierò di scrivere al Generale della Rocca, perché avvalori presso il Ministro della Guerra della sua autorità le ragioni che giustificano il provvedimento di rigore contro i generali del disciolto esercito, e che egli medesimo aveva approvato”.
Vi sono infamie che non bisogna dimenticare e non stancarsi mai di ricordare come pure non bisogna mai dimenticare l’eroismo di quelli che tentarono l’estrema difesa della Patria con sacrificio della vita contro le carogne piemontesi e garibaldine. Questo furfante matricolato, datosi al nemico con tutta l’anima, vero clone del famigerato Manhès di trucida memoria, con le sue disquisizioni apparentemente logiche e dotte non solo si metteva sotto i piedi il trattato della resa di Gaeta, con cui Francesco II aveva tentato di garantire un minimo di sopravvivenza ai suoi soldati ed ufficiali, ma ne diventava pure l’aguzzino. è questo il motivo per cui pubblichiamo per intero la lettera summenzionata, perché il lettore possa rendersi conto di che briganti (verissimi) si impadronirono del nostro Stato. Ma già in un altro precedente rapporto dei 10 gennaio 1861 al Nigra (lettera n. 2961 del citato carteggio) costui afferma: “… ho deliberato di prendere energici provvedimenti verso alcuni ufficiali del disciolto esercito Borbonico… Era urgente ricorrere a mezzi energici specialmente contro gli Uffiziali Superiori, perché piú pericolosi per la loro influenza sovra l’esercito sciolto che era il nerbo delle reazioni. Ho creduto ordinare di arrestarli ed inviarli in Alta Italia … Elenco dei Generali e Colonnelli del disciolto Esercito Borbonico arrestati per ordine di questo dicastero, e dei quali alcuni sono già partiti: Sig. Antonio Polizzy, Brigadiere; Sig. Girolamo De Liguori, idem; Sig. Giuseppe Ruggiero, idem, Sig. Gaetano D’Ambrosio, Colonnello; Sig. Nicola Gherardo Piazzini, Colonnello al ritiro; Sig. Generale Bartolo Marra; Sig. Generale Andrea Marra; Sig. Generale Giuseppe Palmieri; Sig. Generale Barbalonga”.
GLI ALTRI COMPARI
Allo Spaventa davan man forte il Carignano, il Della Rocca e Farini (dispaccio n. 2967 del 16 gennaio 1861 del citato carteggio): “L’arrestation des Generaux et Officiers a été faite par Farini de concert avec le General Della Rocca; ils sont plus ou moins compromis par correspondances et discours, aujourd’hui je les expédé à Génes. Je désire que de Turin on nous laisse liberté d’action…” nonostante che il ministro della guerra gen. Fanti (n. 3046 ibidem), per evidenti motivi politici, scrivesse a Cavour “… questo Ministero non riconosce a quella Autorità alcuna facoltà per comandare siano arrestati generali e Ufficiali…”. Superflua la traduzione, tanto è lampante. Possiamo osservare che gli invasori si esprimono quasi sempre e solo in francese. Che fratelli d’Italia!! Che comunanza di linguaggio! Non aveva torto il nostro popolo a ritenerli stranieri e a chiamarli francesi e a riversare contro di loro tutto l’odio che dal 1799 veniva nutrito per tutto ciò che sapeva di transalpino.
Il 6 giugno 1861 improvvisamente muore il tessitore dell’invasione, il conte dracula Cavour. Qualcuno mormora che sia stato avvelenato da quel brigante di Napoleone III. I banditi si sa si sbranano tra loro per la divisione del bottino. Il sospetto è legittimo perché quel volpone era intenzionato a mettere sul trono di Napoli suo nipote, il figlio di Murat. Al Cavour succede Ricasoli. Le cose non cambiano, il lupo cambia il pelo ma non il vizio, anzi si va sempre piú duri. Sentiamo che cosa riferisce ancora in proposito La Civiltà Cattolica del 21/9/1861 (Serie IV, Vol. XI, pag. 684) in riferimento al mese di agosto: “… Del resto, se Ricasoli non teme dei Generali ed Uffiziali superiori, perché ne fece, per soli sospetti, arrestare in Napoli oltre a TRENTA i quali furono condotti a Genova sopra un vapore e colà impediti dal ritornare nel Regno?” La notte dell’8 agosto 1861 ci fu una retata ancora piú nutrita: ” … furono arrestati un centinaio di personaggi, contro i quali il dispotismo piemontese sarebbe assai impacciato se fosse costretto a produrre un tenuissimo indizio di prova che macchinassero qualche cosa colpevole; ma che, per la legge dei sospetti, furono trattati come rei d’alto tradimento. Quattro Marescialli, due Generali, sette Brigadieri, due Colonnelli, due Luogotenenti generali, un Maggiore, tre Capitani, un Luogotenente, ed altri uffiziali in numero di 35, di recente assaliti nelle loro case, suggetti ad una perquisizione effettuata nei modi piú brutali, poi condotti al forte del Carmine, e il giorno appresso, in mezzo a file di soldati, come si userebbe con ribaldaglia da galera, scortati al porto, cacciati sopra un bastimento con qualche centinaio di soldati sbandati caduti in mano a’ piemontesi, e spediti a Genova… tra i quali son da notare il Fergola, i due Afan de Rivera, il Sigrist, il cui delitto evidentemente consiste nella fedeltà e nel valore con cui difesero i diritti del loro Re Francesco … In questo frattempo cinque altre grosse terre del Regno venivano barbaramente messe a fuoco e sangue, poi diroccate e distrutte dal furore piemontese … Montefalcione, San Marco e Rignano sono anch’essi un mucchio di rovine fumanti e sanguinose, che gridano vendetta” (La Civiltà Cattolica, vol. XI, serie IV, 1861, pag. 617). Qualche pagina dopo (pag. 690) il periodico precisa ulteriormente i fatti: i piemontesi carcerarono nella città di Napoli piú di QUINDICIMILA persone; condussero per forza a Genova, in una sola volta, piú di TRENTA Uffiziali superiori dell’esercito napoletano; esiliarono o costrinsero colle vessazioni poliziesche ad esulare presso che l’intera aristocrazia; il popolo è dato in balía ai fuoriusciti di mezza Europa, che sotto il nome di garibaldini, armati di pugnali e di stili, convennero colà, sotto la protezione dei Don Liborii e dei Cialdini, come gli sparvieri alla preda. L’Europa sa ancora che nella fedelissima città di Napoli vi sono certi cannoni sui forti, certi cannoni sulla piazza Reale, certi cannoni che infilano Toledo, certi cannoni in tutti i siti, certi battaglioni sempre armati, certe pattuglie sempre in giro, certi stili sempre affilati, certa sbirraglia sempre in moto, certi argomenti in somma di unità italiana e di concordia fraterna che, se li avesse usati il Re Francesco II, mai non sarebbero entrati in Napoli né Garibaldi né Vittorio Emanuele…… E a pag. 726: “… i due carnefici dell’Italia Settaria, il Cialdini e il Pinelli, stanno mostrando nel Regno di Napoli l’effetto della Massoneria ai popoli conquistati. LE MIGLIAIA DI TRUCIDATI col grido sulle labbra di “Viva Dio e Francesco Il nostro Re”, e le CENERI di MONTEFALCIONE, di CASALDUNI, di AULETTA e di PONTELANDOLFO, attestano quali s’eno le dolcezze che questi cavalieri della libertà ritengono in serbo…”
Gli hitleriani non giunsero a tanti eccidii nella Polonia conquistata.
Che calvario infinito, che campo di concentramento, che cimitero sconfinato per la nostra gente il periodo dal 1860 al 1868. Se i sindaci del Sud conoscessero almeno la centesima parte dei fatti che stiamo narrando, se serbassero in cuore un minimo di dignità e di orgoglio napolitano, se mente e sentimento fossero per la propria gente, provvederebbero patriotticamente a purgare le loro città dai nomi di quelle carogne assassine. Essi, i piemontesi, rifiutarono per ben due volte, perché avevano in mente la preda, di dar luogo ad una confederazione tra Napoli e Torino nel comune interesse dell’Italia, confederazione che sia Ferdinando Il che il figlio patrocinarono nel 1848 e nel 1860. Ecco le parole di Ferdinando II: “Noi consideriamo com’esistente di fatto la Lega Italiana, dacché l’universale consenso dè Principi e dè popoli della Penisola ce la fa riguardare come già conchiusa, essendo prossimo a riunirsi in Roma il Congresso che Noi fummo i primi a proporre; e siamo per essere i primi a mandarvi i Rappresentanti di questa parte della gran famiglia italiana”. Ma Carlo Alberto rispose che non era tempo di trattare o di conchiudere Leghe, allo stesso modo che successivamente farà il Camillone.
Come fu diversa l’unità a cui pervennero i Tedeschi! Nel 1870, dopo la sconfitta di Napoleone III a Sédan ad opera del Bismarck, tutta la miriade di staterelli compresi tra il Reno e l’Elba si uní spontaneamente intorno alla Prussia, dando luogo al federale Il Reich. Da allora la Germania ebbe un’ascesa culturale ed economica tale che le disfatte di due guerre mondiali non hanno minimamente intaccato. Che cosa è avvenuto da noi quando il magnifico verbo dell’unità e del liberal progresso si disvelò? ” … nun nce sta manco cchiú nu mandarino! / Nun nce sta manco cch’ú na schiocca ‘e rosa, / manco ‘e ffronne nce stanno, int’ ‘o ciardino! … Tutto è distrutto! E tuttuquante ‘o ssanno…” (F. Russo: ‘0 ciardino abbandonato).
Abbiamo cioè subíto stragi e rapine infinite, perso l’indipendenza, la moneta, le buone leggi filtrate da ben ottocento anni di ininterrotta unità statale, la nostra bandiera, ma soprattutto l’orgoglio napolitano che ci faceva decidere del nostro destíno: a tutto ciò fa da buon peso una emigrazione oceanica: le conseguenze nefaste sono sotto gli occhi di tutti.
CAMPI DI CONCENTRAMENTO
Abbiamo deciso di visitare uno dei Gulag in cui furono relegati i nostri fanti. Abbiamo optato per la fortezza di Fenestrelle, questa Grande Muraglia della Val Chisone, abbarbicata ad un costone del monte Orsiera (m 2893). Essa è composta da un imponente sistema difensivo costituito dal forte S. Carlo, forte Tre Denti, forte Elmo e forte delle Valli, collegati fra loro da una scala coperta di 3996 gradini. Per la sua costruzione occorsero quasi due secoli. Fu iniziata nel 1727 dopo la pace di Utrecht (1713), quando i piemontesi vennero in possesso di quel territorio, precedentemente appartenuto alla Francia. Avremmo potuto fare una visitina anche a S. Maurizio Canavese, San Benigno Canavese, a Lombardore (Quando nel settembre del 1861 il ministro Ricasoli e Bastogi lo visitarono vi erano rinchiusi oltre 3.000 soldati borbonici, tenuti come PRIGIONIERI) (Rivista STORIA RIBELLE, n. 1, 1995), al forte S. Benigno di Genova, dove i prigionieri venivano “Gittati come branchi di bestie”, ad Alessandria dove “una parte dei prigionieri fu … chiusa nella cittadella e cacciata in un quartiere sotto strettissima guardia, che non li lasciava uscire neanco per le necessità. Entro quattro gironi di mura, con passi e contrafossi d’acqua corrente e rivell’ni e mezze lune tutto intorno, vedeansi le sentinelle su per le scale e nè corridoi il dí e la notte…” (La Civiltà Cattolica, Serie IV, Vol. XI, pag. 589), tutte immagini da seconda Guerra Mondiale. Ma, dopo centotrenta e passa anni, avremmo ritrovato ben poco.
FENESTRELLE, FENESTRELLE
Siamo dunque arrivati alla fortezza del deserto dei tartari, in partibus infidelium, in una giornata di pioggia torrenziale che peggio non poteva essere. Le cime dei monti, tutt’intorno, mese di giugno, sono ancora imbiancate di neve. Il mesto pellegrinaggio conduce alla ricerca dell’anima dei nostri padri. Gli scalini che portano in vetta alla fortezza ti mozzano il fiato per la fatica, sono veramente tanti, occorre un allenamento da scalatori. Ci fermiamo ad un terzo della scalata vicino alla Garitta del Diavolo, da cui si può ammirare tutto il panorama della Val Chisone verso Pinerolo da un lato e fino al Sestriere dall’altro. Silenziosi e cupi ascoltiamo la Guida che, con voce monotona, ma chiara, sotto il fragore della pioggia e l’urlo del vento umido comincia a snocciolare notizie su questa Lubianka sabaudo-siberiana all’ennesima potenza, dove l’inverno dura quasi dieci mesi e il vento, la pioggia, la neve e il ghiaccio la fanno da padrone. I nostri occhi frugano le pietre, i muri alla ricerca di antiche tracce, tracce napolitane. Nella fioca luce del giorno tutto è spettrale. Una scritta quasi sull’ingresso “Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce” ci folgora, ci lascia di sasso. Ci ricorda che qui c’era un inferno: novelli Dante nella dolente città infernale, a testa alta come lui entriamo nel luogo degli strazi e del grido di dolore (quello vero, non quello metaforico, falso e propagandistico messo in bocca al Vittorione stragista dal suo primo ministro). Dicono che la scritta fu apposta durante la Il guerra mondiale, ma forse è lí da sempre, fin da quando la fortezza dei tartari assunse il sinistro ruolo di luogo di relegazione e di sterminio. Il brigante corso, Napoleone, esperto oppressore, vi relegò finanche un principe di Santa Romana Chiesa, il cardinale Bartolomeo Pacca, segretario del papa Pio VI, fatto morire in cattività a Valenza nel Delfinato il 29/8/1799.
CALCE VIVA
Ci rendiamo conto, e ce ne danno conferma le parole della Guida, che da qui nessun Conte di Montecristo poté mai evadere: la vita nella fortezza, anche per i piú robusti, non superava i tre mesi. Inoltre, palle di ferro di 16 kg ai piedi tenevano prigionieri i prigionieri; si usciva dalla fortezza, libertà nella morte, solo per essere dissolti in una grande vasca di calce viva. I tedeschi successivamente affinarono la tecnologia: forni crematorii invece dell’ossido di calcio.
Ecco quale fu, orrore!, la tragica sorte, decretata dai mostri savoiardi, di quasi tutti gli ufficiali del Regno delle Due Sicilie deportati (a cui collaborò indefessamente il signor Silvio Spaventa) e di gran parte della nostra Armata, a parte quelli che furono immediatamente fucilati dopo la resa, come accadde a Civitella del Tronto, per mano del rinnegato generale napolitano Mezzacapo, uscito dai ranghi della Nunziatella. L’ascesa delle anime dei nostri poveri soldati verso l’aldilà veniva facilitata dalla “scala verso il cielo ” coperta, che dal fortino Carlo Alberto (a 1154 m) come un gigantesco rettile dormiente s’arrampica verso l’alto fino a 1754 metri. Intorno, muraglioni spessi parecchi metri che dovevano resistere ad eventuali assedii. Lí e negli altri campi di concentramento “Le vittime dovettero essere migliaia anche se non vennero registrate da nessuna parte. Morti senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo. Morti di nessuno. Terroni” (Lorenzo del Boca, Maledetti Savoia, ed. PIEMME, 1998, pag. 146). L’orrendo genocidio ci porta a gridare insieme al poeta
“O VENDETTA DI DIO PERCHÉ PUR GIACI ?”
Pochi sono stati, eccetto gli storici borbonici, quelli che hanno parlato dei crimini savoiardi, come ad esempio il giornalista piemontese Del Boca. Il tanto decantato libro del De Cesare, La Fine di un Regno, tace assolutamente. Solo questo fatto deve metterci in guardia circa la sua presunta obiettività. Perciò leviamo riverenti la mente a Del Boca che dedica ben 4 pagine del suo libro ai campi di concentramento sabaudi.
Il maledetto 1860 fu non solo il dramma di una dinastia, ma la tragedia di tutta una nazione.
Il castello di lurido retoricume e becere menzogne sotto cui quel cadavere sanguinolento fu sepolto comincia a sfaldarsi.
fonte http://www.adsic.it/2000/10/03/la-fortezza-di-fenestrelle/#more-263