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I diversi linguaggi del Risorgimento: come ideale e come realtà postunitaria

Posted by on Set 30, 2024

I diversi linguaggi del Risorgimento: come ideale e come realtà postunitaria

Il linguaggio è tutto nella narrazione storiografica e scientifica perché linguaggio e mondo coincidono. Così come chiamiamo le cose, così le cose sono per chi le dice o le scrive e per chi le ascolta o le legge, e se anche non erano vere prima, lo diventano dopo una narrazione che trova largo consenso.

Solo l’abbandono di un linguaggio di Guerra intestina può far finire il mondo di guerra civile che lo ha generato e arrivare a un linguaggio di pace, inclusione e fratellanza tra gli Italiani. La guerra civile a cui mi riferisco è quella del 1860-1870 e la tesi che vado a sviluppare nasce dalla constatazione che il linguaggio dei protagonisti del Risorgimento prima del 1859-1860, era un linguaggio di fratellanza tra Italiani, mentre quello successivo al 1860 non lo è stato più.

L’esempio più probante è la sparizione del linguaggio di Giuseppe Mazzini centrato su due assunti: che siamo tutti Italiani e apparteniamo alla stessa Patria, l’Italia; che nel 1798-1799, nel Napoletano, erano state realizzate due rivoluzioni: la rivoluzione giacobina per la libertà e la rivoluzione sanfedista per l’indipendenza dai Francesi. Per Mazzini, i combattenti per l’Italia dovevano imparare da entrambe le rivoluzioni perché, di fatto, si proponevano di unificare le due in una sola rivoluzione, quella che avrebbe dovuto produrre, insieme, la riconquista della liberà e dell’indipendenza.

Il linguaggio di Mazzini rimane solo nella retorica e non in corso di azione. Per esempio, sparisce nelle azioni di rastrellamento dei soldati duosiciliani prigionieri, di alcune delle operazioni militari contro i rivoltosi, in alcune discussioni parlamentari e persino nell’antropologia criminale. Il nuovo linguaggio emergente in queste azioni, rivela una profonda e insanabile frattura tra Italiani.

Azioni di rastrellamento di militari duosiciliani prigionieri: “sono imbevuti dello spirito borbonico … non sarebbero neanche mediocri soldati, non ammorbiamo il nostro esercito con quella peste, accozzaglia di gente piena di vizi fisici e morali” (Camillo Benso conte di Cavour); sono di “pessimo spirito… un branco di carogne, canaglia, feccia… i vecchi bisogna disfarsene al più presto” (Generale Alfonso La Marmora); è “gente idiota non scevra di pregiudizi e bigotta”; sono “arroganti, sporchi e di una morale non sana”, di una evidente “luridezza… macilenti” e non sono “predisposti alla lindezza” (Carlo Boyl comandante la piazza di Genova).

Azioni di repressione di alcune rivolte: all’arrivo della Legione Ungherese, che fa strage degli insorti di Montefalcione, uccidendo chiunque intercetta nelle vie e nelle case, Salvatore Benigno Tecce si rivolge al Governatore di Avellino, De Luca, per definire, ammirato, “veri patrioti” i sopraggiunti Ungheresi. Ma se Italiani sono coloro che si battono contro Briganti e insorgenti, questi ultimi non possono essere patrioti e nemmeno Italiani.

Discussioni in Parlamento durante il dibattito sulla Legge Pica: “uomini colpevoli di mille delitti … veri cannibali … che non uomini sono, ma sono fiere” (deputato Giuseppe Pica).

Il linguaggio dell’opinione pubblica, accreditato dalla “scienza”: i Settentrionali sono di razza ariana e i duosiciliani di razza africana, quindi atavici, tendenzialmente criminali e propensi al cannibalismo sociale o esibito (Cesare Lombroso).

Il siamo tutti Italiani di Mazzini, già alla fine del 1860, ha lasciato il posto ai primi giudizi razzisti (sporchi, luridi, viziosi, feccia, canaglia) e viene spinto fino a negare l’Italianità dei Meridionali resistenti e, peggio, finisce per anticipare il giudizio di Lombroso secondo cui i Meridionali sono atavici perché di razza africana e, in aggiunta, cannibali capaci delle più innominabili violenze. Inoltre, quello che nelle opinioni razziste dei primi mesi successivi alla fine delle ostilità, è ancora solo implicito, diventa esplicito nel fulcro della lotta al brigantaggio e finisce per essere accreditato dalla scienza immediatamente dopo la sconfitta del brigantaggio: “la colpa della furiosa guerra civile durata dieci anni è interamente dei Meridionali così violenti, immorali, incivili e inumani, fino a trasformarsi in cannibali”. Queste affermazioni ricevono il crisma della scienza attraverso una nuova disciplina che Cesare Lombroso battezza “antropologia criminale”.

Tracce, consce o inconsce, di questo linguaggio che nega l’italianità dei resistenti duosiciliani si trovano ancora oggi in Carmine Pinto.

Nella sua opera più importante, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti. 18601870, Pinto mostra, in almeno tre occasioni, di utilizzare un linguaggio di esclusione di parte dei Meridionali dal novero degli Italiani.

La prima: nel titolo del volume, egli adotta una classificazione (Italiani, Borbonici e Briganti) e la ripete nella Introduzione dove distingue tra Unitari Italiani, Borbonici e Briganti. Entrambe le classificazioni implicano che i Borbonici e i Briganti non siano Italiani. Infatti, il principio di mutua esclusività delle categorie, principio irrinunciabile di ogni classificazione scientifica, assume che chi rientra in una categoria non possa rientrare anche in una seconda. E in entrambe le classificazioni, Borbonici e Briganti continuano a non poter essere considerati Italiani.

La seconda: un giudizio che Pinto esprime sui Meridionali è molto vicino a quello lombrosiano. Sostiene, infatti, che, nel Mezzogiorno, si registrano “livelli di brutalità e di violenza che non erano stati toccati nelle campagne risorgimentali [condotte nel CentroNord], ma erano comuni nella storia del conflitto meridionale”. Si tratta di quel conflitto che Pinto sostiene essersi sviluppato, nelle Due Sicilie, dal 1792 in poi e che avrebbe raggiunto il massimo livello di brutalità nella guerra civile scoppiata nel Napoletano nel 1799 (quando si sarebbero verificati, in Napoli e nel Napoletano, atti di cannibalismo di parte Sanfedista).

La terza: Pinto denomina controrivoluzione, un termine politicamente dispregiativo, la rivoluzione sanfedista che Mazzini e molti cospiratori del Risorgimento consideravano essere stata una gloriosa rivoluzione per l’indipendenza dallo straniero invasore. In questo caso, i Francesi.

Giuseppe Gangemi

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