I due compari Zi Vicienzo e Zi Pascale, il carnevale e la morte nel presepe napoletano
E’ una scena presepiale non diffusissima la seconda che vi raccontiamo nel nostro calendario dell’avvento dedicato ai pastori del presepe partenopeo. I due compari, zi’ Vicienzo e zi’ Pascale, sono la personificazione del Carnevale (Vicienzo) e della Morte (Pascale). Infatti al cimitero delle Fontanelle in Napoli si mostrava un cranio indicato come “A Capa ‘e zi’ Pascale” al quale si attribuivano poteri vaticinanti, al punto da chiedergli anche pronostici per il gioco del lotto.
Soprannominati comunemente «i San Giovanni» queste due figure si riferiscono anche ai due solstizi: 24 dicembre e 24 giugno.
«Carnevale si chiamava Vincenzo», libro dall’antropologa Annabella Rossi e dell’etnomusicologo Roberto De Simone, è illuminante nel ricordare quanti suoni, quante figure folkloriche e quante sopravvissute tradizioni, riempiono la memoria collettiva della Campania oltre a spiegare appunto il significato di Carnevale legato a Vicienzo.
I due studiosi osservano e documentano queste cerimonie, restituendoci sia il loro carattere pittoresco che i significati simbolici che custodiscono. Nel libro si mette in evidenza il legame tra i rituali del ciclo invernale – nonostantela perdita della funzione primitiva di propiziazione agricola – e gli antichi culti di morte e resurrezione.
Questo ciclo inizia pressappoco nel mese di settembre, con il primo periodo della semina, ed è cantraddistinto da numerose feste di madonne nere, e dalla festa dei morti.
Nella Grecia antica si teneva in questo periodo dell’ anno una triste e seria festa per il motivo che in autunno la divinità del grano, Persefone o “la fanciulla” così come era chiamata scendeva nelle viscere della terra assieme al grano seminato; e Demetra piangeva l’assenza di sua figlia. Il legame con il 25 dicembre è presto detto: la durata del giorno rispetto alla notte ricomincia a crescere e le popolazioni antiche vedevano tale evento astronomico come un rinnovamento della speranza, una possibilità di sopravvivenza, pertanto lo mitizzarono come nascita del Dio-Sole che nel mondo ellenistico e romano prende il nome di Mithra.
Per Rossi e De Simone “è come se si volesse allontanare qualsiasi dubbio sulla natura benefica degli esseri provenienti dall’ oltretomba e di quanti stanno sottoterra e quindi sull’ abbondanza del futuro raccolto”.
Anche nella Quaresima che segna la fine dell’ inverno e l’inizio della primavera i due studiosi trovano similitudini con i pianti per Persefone. Fanno presente, rifacendosi a Frazer, che l’apologista cristiano del IV secolo Firmico Materno in “De errore profanarum religionum” parla di un rituale consistente nel trasporto dalla campagna nelle città greche dell’ effige di Proserpina, scolpita in legno, per quaranta giorni; durante i quali le donne piangevano e alla fine l’ immagine veniva bruciata. Si susseguono in questa fase dell’ anno in Campania, feste in onore della Madonna, feste che sarebbero da accostare, secondo i miti, al ritorno di Proserpina dall’ inferno e al suo ricongiungersi alla madre Kore. Tali divinità romane corrispondono a quelle greche, Demetra e Persefone. In molti luoghi della regione, come a Somma Vesuviana in provincia di Napoli, la sera in cui viene festeggiata la Madonna, il terreno arde di fuochi in suo onore così come Sant’Antonio segna il periodo dell’inizio del Carnevale, appunto con i fuocarazzi).
“Carnavale se chiammava Vicienzo, teneva ‘e ppalle d’oro e ‘o pesce ‘argiento ih! Gioia soja! E chi s’o chiagne s’o pozza chiagnere ‘a ccà a cient’anne; ih! Gioia soja ! Chillo mò mor’ ‘e collera, mò s’ ‘o portano ‘e prievete, è muorto” era infatti la nenia funebre del fuocarazzo di Sant’Antonio. Per tutta la serata, in passato, durante i falò continuavano, senza soluzione di continuità, le grida, i finti lamenti, gli sghignazzamenti ed i canti. Ognuno rivolgeva improperi e lazzi all’indirizzo di Carnevale, mentre saltava e ballava con gli altri. In questo “tourbillon” tutti bevevano tanto vino e mangiavano le patate cotte sott’ ’a cinìsa (sotto la cenere ardente). La festa finiva a tarda sera, quando le fiamme si spegnevano. Del maestoso falò restava, infine, solo un mucchio di brace incandescente. A questo punto, ad uno ad uno, tutti si ritiravano nelle loro case. Dopo un po’ ritornavano “sul luogo del delitto” le madri di famiglia portando un braciere nel quale raccogliere un po’ di cenere ed una parte di carboni ardenti. Il senso di quest’operazione era dettato non solo dal fatto pratico di riscaldare la casa, ma perché questi resti del falò erano considerati degli amuleti. Le ceneri erano infatti ritenute sacre, e perciò, purificatrici. Per quanto riguarda, poi il bruciamento del fantoccio su una pira, esso rappresentava un rito a metà fra il sacro ed il profano: moriva il male per mano del “coro”, che ballava e cantava. Dalla morte rinasceva la vita. Il fuoco purificatore distruggeva il peccato e faceva trionfare il bene. Cicli della vita, dunque, rappresentano queste due figure presepiali..
Spiega Luca Zollo nel suo trattato sul presepe napoletano: “E’ evidente che a questo punto del percorso nel presepe, la Taverna appare nel suo duplice aspetto di distruzione e rovina (l’oste come sinistro guardiano della soglia …) per coloro i quali non hanno la benedizione e l’aiuto del Cielo per superare i tranelli della Morte. Ma appare anche, per l’asceta che possiede la luce della fiaccola che ha acceso, passando attraverso gli “spaventi notturni” e caricandosi di benedizioni celesti, la porta verso la Grotta della Natività. Zi’ Vicienz’ e Zi’ Pascale sono anche collegati, molto giustamente, ai due San Giovanni, a San Giovanni che ride e a San Giovanni che piange, ai due solstizi e alle benedizioni che donano in modo complementare l’uno rispetto all’altro e lungo la Via che conduce al Cristo, Vera Luce e Salvatore delle nostre anime”.
I due San Giovanni sono il Battista e l’Evangelista, coloro che per Dio custodiscono le due porte di Giano, dio degli inizi, materiali e immateriali, una delle divinità più antiche e più importanti della religione romana, latina e italica. Solitamente è raffigurato con due volti, poiché il dio può guardare il futuro e il passato ma anche perché, essendo il dio della porta, può guardare sia all’interno sia all’esterno. Per il cristianesimo rappreentano due momenti che aprono e chiudono la Quaresima, il periodo di penitenza precedente alla Pasqua, alla morte e quindi alla Resurrezione del Cristo.
Ultima curiosità è quella legata all’etimologia di Zi Vicienzo in lingua partenopea. Infatti deriva il suo nome dalla storpiatura che il popolino ha fatto dell’espressione latina “caput sine censu”, riferita alla classificazione di tutti coloro che non avendo beni di sorta erano censiti sulla base della sola persona fisica divenendo solo un numero.
Da qui il detto: ” Nun tengo manco ‘a capa ‘e si’ Vicienzo”, cioè “non posseggo un beneamato nulla, nemmeno una cosa che non merita catalogazione”. Viene citato anche in un altro detto: “Tre so’ ‘e putente, ‘o rre, ‘o Papa e ‘a capa ‘e zi’ Vicienzo”. Potenza dell’essere nessuno. Da notare il ‘si e non ‘zi: infatti il si’ è l’apocope di signor Vincenzo e non l’appellativo di zio, che non significherebbe nulla.
Lucilla Parlato
(Zì Vicienzo e Zi Pascale visti da Marco e Giuseppe Ferrigno, Via S. Gregorio Armeno, 8 Napoli – Foto Francesco Paolo Busco)