“I giganti della montagna” sono la “Terra Promessa” di Pirandello
“Est deus in Pirandello”. E il “complesso di superiorità” noi lo sentiamo a distanza, come il rabdomante sente l’acqua.
Strano a dire, questo stesso complesso di superiorità, il suo potere radiante, contribuì a creare intorno a Pirandello una zona di attesa, per non dire di sospetto. Tali e tante erano state le “fregature”, che la “superiorità in arte” fu messa in osservazione. Presso i “sapienti”, presso i “migliori” diventò regola e disciplina ridursi e macerarsi, diffidare della superiorità, dirne “male”. E i pittori si limitarono a “bozzettare”, i letterati a “frammentare”, i poeti a dar fuori, in occasioni rarissime, versi minuscoli e a coppiette come le ciliegie.
Il “ complesso di superiorità” non implica necessariamente “fare grande” Una “arte che rappresenta” non è mai “superiore”, per grande che sia il cuore dell’artista, per vasta che sia la sua anima. Arte “superiore” è “arte come passaggio ad un mondo superiore. E’ arte che risolve ol problema della vita, che immette in una soluzione felice e immutabile.
Luigi Pirandello fa parte di questi orgogliosi “traghettatori”. Sta in compagnia di Picasso, di Giorgio de Chirico, di Strawinski. Artisti che non si possono esaminare, che non si possono attaccare , tanto meno con gli strumenti comuni della critica : invulnerabili alla critica comune.
L’arte, questa “soluzione superiore”, obbedisce a leggi precise, ad una sua etica ; contiene una sua armonia, una sua architettura, un suo galateo. Non basta “scoprire” il passaggio, indirizzarsi per quella via.
Oltre che uomo del “passaggio”, è arrivato Pirandello alla “soluzione”, ha obbedito alle leggi, all’etica del mondo “superiore” ?
Anche Pirandello, come Mosè, è morto in vista della Terra Promessa.
“I giganti della montagna” sono la “Sua” Terra Promessa.
Le idee “filosofiche” di Luigi Pirandello, il suo “parmenidismo”, l’equivoco tra apparenze e realtà, a noi non interessano, non debbono interessare. Una maggiore scaltrezza avrebbe aiutato Pirandello ad evitare il “debole”, lo “scoperto” di esse idee ; gli avrebbe procurato più presto la simpatia dei “diffidenti”. Però perché i “diffidenti”, per parte loro, si ostinano a prendere alla lettera le idee “filosofiche” di Luigi Pirandello ?
Queste idee sono i temi, i pretesti, diciamo addirittura i “trucchi” che alimentavano il “dramma” di Luigi Pirandello : il “dramma del passaggio”: l’affannosa, allucinata ricerca di un’evasione da “questo mondo”, lo sbocco in un mondo “superiore”.
Che l’opera di Luigi Pirandello sia “chiusa” nel dramma del passaggio, che la soluzione sia appena intravvista, ce lo dice l’angoscia continua, la volontà di speranza, la nostalgia inestinguibile, la tristezza, il “nero” che come una gran sete la divora.
Comunque, nessun altro drammaturgo si è spinto così avanti verso il confine fra dramma e soluzione del dramma. Non certo il commediografo irlandese George Bernard Shaw, le cui qualità sono quelle, magnifiche e sviluppatissime, dell’uomo-scimmia.
Non per nulla il nome “agrigentino” di Luigi Pirandello significa “angelo di fuoco”.
Il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen esordì con “Peer Gynt” e continuò con quegli “esami clinici” dell’anima borghese, che dettero nascimento all’ibsenismo: passò da una forma di adolescenza dell’anima alla curiosità senile e alla “burocrazia dello spirito”. Confrontata a “Peer Gynt”, l’opera prettamente ibseniana di Ibsen costituisce una rinuncia.
In Pirandello avviene il contrario: dal secco pirandellismo, Egli sale, poco a poco, alle aspirazioni supreme, alla volontà di grandezza, a quel gaudio poetico, che, quando è pieno, si manifesta pure con una forma di adolescenza nella vecchiaia.
Segno di progresso e di ascesa.
Non diremo che “I giganti della montagna”, opera incompiuta, intessuta di simboli e di allegorie, in una società dominata dai cultori della violenza e della forza bruta,sono il “Peer Gynt” di Pirandello, non lo diremmo anche senza la posizione opposta che questi due “lavori” occupano nell’opera complessiva dei loro rispettivi autori. Diremo che “Il giganti della montagna” sono la “Tempesta” di Luigi Pirandello, senza ombra, beninteso, di un neppur lontano sospetto di derivazione, ma per questa sola analogia, che tale è in entrambe queste opere l’autorità della poesia, che il poeta dimentica leggi, cànoni, freni, “condizioni umane”, e vive di là dal mondo, nella vergine libertà di un nuovo mondo conquistato.
Gli effetti della poetica autorità si avvertono subito. La parola erbosa, terrosa, rugginosa di Luigi Pirandello si è fatta distanziare da un verbo più sottile e trasparente, un verbo nel quale traccia non rimane della rozzezza del sesso (l’insopportabile “sesso” delle parole di un Verga, di un Capuana) e prelude al divino ermsfroditismo del linguaggio dei poeti: “Il giorno è abbagliato; la notte è dei sogni e solo i crepuscoli sono chiaroveggenti per gli uomini. L’alba per l’avvenire, il tramonto per il passato”.
Avremmo preferito che Pirandello rinettasse la propria opera di qualche macchiolina estetistica: la “Dama rossa che appare come fiamma”, alcune fantasie troppo fantastiche e però estetizzanti, qualche “sicilianeria” nei nomi, queste pure estetizzanti, come Sgricia, Cuccurullo, Quaquèo…
Avremmo desiderato, del pari,la completa abolizione di delirio e dolorismo nel personaggio della contessa. Però in quanti siamo cui certo “pathos”femminile fa accapponare la pelle ?
Aurunci:la parola deriva dal latino “aurum”, oro, perché si viveva nell’ “età dell’oro”. La contrada era un lacerto di paradiso terrestre, una plaga magica, benedetta, felice e fertile, dall’eterna primavera. Era il giardino delle Esperidi, dagli orti prosperosi di aranci e di limoni, una vera e propria Arcadia, una terra fatata, un lembo di terra promessa, un dono divino per il Meyer.
Alfredo Saccoccio