I LAGER DEI SAVOIA di Fulvio Izzo

Prefazione – stralcio
Comunque la scoperta più amara per l’ignaro lettore è forse quella dell’esistenza proprio nel nostro civile paese di una prima edizione, addirittura del modello di base di quell’universo concentrazionario di campi di deportazione e prigioni destinate ad attingere nel nostro secolo i supremi fastigi dei lager e dei gulag e dei campi di rieducazione di Pol Pot e delle guardie rosse di Mao, ma già presente, assai più che in nuce, a Ponza, al Giglio, alla Gorgona e in tutte le altre isole e scogli di domicilio coatto, nella cittadella di
Alessandria, nei “depositi” di Genova, di Rimini, di Casaralta (Bologna) e specialmente nel campo di concentramento e rieducazione di San Maurizio Canavese nei pressi di Torino e, infine, nell’ultimo cerchio di quell’inferno carcerario, al quale purtroppo è mancato un Solgenitsyn, la fortezza di Fenestrelle, dove verranno mandati i più riottosi “per esservi tenuti sotto più rigida disciplina, finché si correggano e diventino idonei al servizio”.
Per l’esattezza, a questo trattamento di “correzione e idoneità al servizio”, che evidentemente si considerava raggiunta quando il militare incarcerato in condizioni disumane si dichiarava disposto ad abiurare la fede giurata e ad unirsi ai vincitori, non furono sottoposti soltanto i soldati borbonici, ma anche le guardie e gli zuavi pontifici, i cui patimenti trovano, difatti, posto e menzione nelle pagine che seguono, i soldati modenesi, i cosiddetti “duchisti” della stampa liberale, che dopo l’annessione al Regno Sardo scelsero di seguire nell’esilio il loro Duca, e in genere quanti in un momento di rottura rivoluzionaria della continuità storica (la “rottura del tempo” di cui parla Fulvio Izzo nella sua introduzione) scelsero di restare non già, come solitamente si dice, dalla parte del passato o della reazione, ma da quella dello sviluppo e del progresso nella Tradizione: soprattutto nel Meridione la nobiltà latifondista – quella del “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa – e la borghesia realmente reazionaria erano in larghissima parte filo–unitarie o, quanto meno, doppiogiochiste, come, del resto, lo erano state al tempo dell’invasione francese e della Repubblica Partenopea.
Difatti i primi visitatori della prigione di Fenestrelle, quando ancora si combatteva sul campo e si stavano formalizzando le annessioni al Regno Sardo dei ducati e delle province centro–settentrionali dello Stato della Chiesa, vi trovarono soprattutto romagnoli e marchigiani mantenutisi fedeli al Papa–Re.
Tuttavia la tragedia più grande, per il numero delle persone che coinvolse, per la durata dello scontro, la durezza della repressione, le conseguenze che ancora oggi perdurano nella nostra vita pubblica, anche se di rado o mai individuate nelle loro vere cause, fu senza dubbio quella dei soldati e delle popolazioni del Regno delle Due Sicilie: i cosiddetti “borbonici” e “sanfedisti” della sprezzante terminologia liberale, oggi volentieri rispolverata dagli intellettuali neo-giacobini alla Galasso e alla Flores d’Arcais.
Storia infame del Risorgimento nei campi di concentramento per meridionali
1998
F. M. Agnoli
fonte
Buongiorno
Ho appena finito di leggere, fra quelli del 20 maggio 2022, l’articolo dedicato al bel libro di Fulvio Izzo, “I lager dei Savoia”, che mi ha ricordato sia la prefazione che, su richiesta dell’Autore, molto volentieri gli dedicai, sia la polemica di qualche anno dopo con lo storico Alessandro Barbero, che, sulla scia delle celebrazioni per il centocinquantenario dell’unificazione della Penisola, nel suo libro “I prigionieri dei Savoia” (Laterza 2012) aveva attaccato con notevole vis polemica (per non dir peggio) tanto il libro di Izzo, usando ripetutamente espressioni come “falsificazioni” e “ignobili invenzioni storiografiche e mediatiche”, sia la mia prefazione. A quella polemica risposi con un libriccino di 75 pagine “La vera storia dei prigionieri borbonici dei Savoia”, edito nel 2013 dall’editrice riminese “Il Cerchio”, che tentò anche, senza successo, di organizzare sul tema un dibattito fra me e il Barbero (un dibattito televisivo più o meno sul tema comunque in seguito vi fu fra lo stesso Barbero e alcuni studiosi meridionali). Sono certo di non averLe detto niente che già non sapesse, ma mi ha fatto piacere ricordare anzitutto a me stesso l’impegno che dedicai sia alla prefazione sia alla replica al Barbero, in quella circostanza tutt’altro che all’altezza della sua fama di storico obiettivo.
Con la più viva cordialità
Francesco Mario Agnoli