Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

I LUOGHI DEL CUORE E I LUOGHI DELLA MEMORIA. (quarta parte)

Posted by on Lug 18, 2017

I LUOGHI DEL CUORE E I LUOGHI DELLA MEMORIA. (quarta parte)

La zona di “ Sotto Coroglio “ comprende: Discesa Coroglio, Via Nisida, parte di Via P. L. Cattolica(già Via Neghelli) ed il brevissimo tratto di Via Coroglio compreso tra il fabbricato ove, da un lato,  vi erano un  esercizio di generi diversi ed uno di generi alimentari  e, dall’altro,  le proprietà Marino e Mandile . Sulla Discesa Coroglio, l’uno di fronte all’ altro, c’erano quattro palazzi, due al di là e due al di qua di Via P. L. Cattolica.

Il resto della strada,  lastricata in selce nera prima della realizzazione del manto d’asfalto,  arriva, come detto, al Capo Posillipo ove c’era il famoso ristorante “ Alle Lucciole “ ed il capolinea del filobus 240 (oggi autobus 140) che collega questo punto con Piazza del Gesù nel cuore di Napoli. Procedendo da Coroglio verso la sommità della collina,  poco dopo  il secondo tornante, conosciuto all’epoca col nome di Rotonda, nel fianco della montagna si apre una grotta lunga poco meno di ottocento metri : la grotta di Seiano.[1] A breve distanza da essa  ,  sempre sul lato destro della strada procedendo verso Capo Posillipo, in un’altra grotta  viveva con  la propria famiglia un uomo che tutti in paese  conoscevamo solo come “sceriffo”. La vita dell’  intera   famiglia si svolgeva completamente sui fianchi della montagna e nella caverna,  priva di acqua, energia elettrica ed altre simili comodità.

L’acqua veniva attinta in secchi di latta zincata (molto comuni all’epoca), alla fontana del paese, abbastanza lontana da raggiungere a piedi. La qual cosa aumentava il disagio,  considerando che, dopo di aver riempito i secchi,  bisognava ripercorrere lo stesso tratto di strada, ma stavolta rappresentato da un percorso in salita abbastanza ripido e gravati da un peso superiore ai 40 chilogrammi. Dire come questa famiglia vivesse o di cosa si cibasse non mi è possibile,  prima perché essa viveva molto fuori mano, in una zona del paese poco frequentata e che a noi ,  ragazzi di dieci – dodici anni,  incuteva una certa paura e poi perché i suoi componenti, forse per un senso di vergogna per la propria condizione, conducevano un tipo di vita da veri eremiti. Probabilmente era proprio per quel senso di vergogna che,  quando uno dei due figli doveva attingere l’acqua, si recava alla fontana nelle ore in cui riteneva di incontrare, se non proprio nessuno,  il minor numero di persone.

Non ricordo di aver avuto alcuna volta la possibilità di fissare abbastanza a lungo lo sguardo su uno dei due giovani (un  maschio ed una femmina) scorti talvolta per puro caso mentre lasciavano la fontana, né ricordo che frequentassero la scuola,  né di averli incontrati nel fare qualche acquisto di generi di prima necessità,  come il pane, la pasta o il sale. Per certo, so solo che  la famiglia non ha dato adito alle malelingue, che non mancano mai in un paese degno di questo nome, a fantasticare sul loro conto.

Via Nisida inizia, alla destra, con un fabbricato su cui all’ epoca, su una piastrella di marmo bianco affissa sulla facciata ,  spiccava la dicitura :  “ Proprietà Cinquegrana”. A pochi metri di distanza sulla sinistra la via prosegue con  un grappolo di case . Queste ultime sono poste alla base  della collina di Posillipo ed,  essendo rivolte ad occidente,  ricevono la luce diretta del sole soltanto nel pomeriggio. Ciò, però, non costituisce un problema, perché  l’arco di cielo da percorrere prima che il sole scompaia sotto la linea dell’orizzonte è abbastanza ampio, cosicché il periodo di insolazione pomeridiana é relativamente lungo e compensa abbondantemente la privazione del mattino. In un basso di queste case abitavano tre donne : una vecchia – la madre – conosciuta col nome di siciliana e due figlie: Pia e Clotilde. La siciliana fumava più di un turco (come pure le figlie) e aveva fatto una brevissima comparsa in un film interpretato da Tina Pica e girato sulla spiaggetta della Grotta Arena. (La  pellicola, se non ricordo male, si intitolava “ Vacanze col gangster”, ma l’ informazione è da prendere con tutte le cautele a motivo del tempo trascorso).

Un centinaio di metri più avanti, sulla destra,  procedendo in direzione di Nisida, c’è un pezzetto di spiaggia che ogni estate ( e per diversi anni) aveva ospitato la “Colonia Elioterapica Aeronautica Militare”, a beneficio degli avieri che erano di stanza nel comprensorio di Nisida, ove era situata  anche l’ Accademia per gli Allievi Ufficiali. (L’Accademia Aeronautica fino al 1945 era stata nel Palazzo Reale di Caserta. Dal mese di novembre del 1945 fino a dicembre del 1961 fu a Nisida. Da qui si trasferì a Pozzuoli, ove è tuttora). Dopo alcuni anni, probabilmente  per il fatto che ai vertici già si sapeva che l’ Accademia si sarebbe spostata a Pozzuoli,  l’area della Colonia Elioterapica fu abbandonata e rioccupata da uno stabilimento balneare: il “Lido Pola”, di proprietà della famiglia Caso, sfollata appunto da Pola durante l’ultimo conflitto. Il “ Lido” era costituito dalle cabine in legno, che venivano montate nel periodo estivo, e da una sala a pianta circolare in cemento adibita a salone di ricevimento per sposalizi, battesimi e feste varie. Di tale salone, gli ambienti prospicienti la Via Nisida erano i locali  ove la famiglia Caso viveva stabilmente per tutto l’anno.

Procedendo sempre in direzione di Nisida si incontra un frammento di roccia (l’ex scoglio del Chiuppino, adibito a luogo di quarantena e denominato, per questo motivo, il Lazzaretto) adibito all’ epoca delle presenti memorie  ad autorimessa del 4° Stormo Aerobrigata Caccia  “ F. Baracca”. Lo scoglio sotto cui, e per tutta la sua lunghezza, si allunga la Grotta degli Sposi, è stato inglobato nella strada costruita nel lontano  1933 per collegare Nisida alla terraferma. Questa strada termina in un piccolo slargo alla destra del quale si apre l’ingresso agli uffici, alle aule e ai vari servizi dell’ex Accademia Aeronautica, nonché al faro (la Lanterna) situato nella parte occidentale dell’isola. Lo scivolo, che dal mare permette di arrivare sulla banchina, o da questa scendere a mare,  è il ricordo di una squadriglia di idrovolanti della    “Regia Aeronautica “ di stanza qui fino ai tempi della seconda guerra mondiale ( vedi foto alla fine del libro). A sinistra della piazzola, posto noto ai residenti come Molo Cappellino,  si nota quello che fu un ufficio postale e telegrafico di cui era direttore tale Oreste Bianco,  conosciuto in loco unicamente come “  Signor Bianco” ,  e,  proprio a fianco dell’ex ufficio,  inizia il primo tratto della strada che conduce alla sommità dell’isola, che, già penitenziario borbonico, accoglie attualmente un istituto per la rieducazione dei minorenni e, a seguito dell’azione congiunta del terremoto e del bradisismo del 1980, ha ospitato temporaneamente anche il carcere femminile di Pozzuoli.

L’attuale via P. L. Cattolica, già Via Neghelli,  collegava il paese con una zona conosciuta come “ In mezzo al campo “,  altro minuscolo agglomerato di case composto da due masserie e da un fabbricato più civile ubicato a fronte strada, che,  dietro la facciata,  ospitava altre case rurali, pollai, stalle e rimesse.[2] Questa era l’ultima casa prima di arrivare all’attuale Rione Cavalleggeri  di Aosta :  frazione del Rione Flegreo di recente creazione, conosciuto come “La Caserma”, poiché durante la Prima Guerra Mondiale aveva ospitato nella caserma intitolata appunto al Duca d’Aosta squadroni di cavalleggeri.[3] La terra attraverso la quale passava questa strada era un’ enorme distesa di verde, che, dall’inizio della primavera e per tutta l’estate, la faceva assomigliare alla tavolozza di un pittore. Era una gara fra tutte le piante a chi fra esse riuscisse a colorare più bellamente quel Campo :  primule,  margherite, viole,  cespugli di camomilla,  rosolacci … Era un tripudio di colori, un cocktail di profumi.

Al punto del paese ove si incontrano le tre vie inizia propriamente Via Coroglio, che da qui e fino allo stabilimento della Montecatini comprendeva sui due lati e nell’ordine un grande edificio composto da un piano terra e due piani fuori terra che ospitava sei nuclei familiari. Il pianterreno di tale fabbricato faceva angolo con Via P. L. Cattolica ed era completamente celato alla vista da un fittissimo pergolato di glicini che nascondeva quasi del tutto lo ingresso dell’ abitazione della famiglia Porpora (Antonio, Olimpia, Rosaria e Anna Maria), che gestiva un esercizio di macelleria al civico 118 della strada. In prosecuzione, e sempre a livello stradale,  vi era un emporio di merceria e generi diversi (con retrostante abitazione) gestito da tale Concetta, detta la zarlara,[4] ossia merciaia. Subito dopo tale esercizio veniva il portone d’ingresso del fabbricato oltre il quale si affacciava sulla strada il negozio di generi alimentari condotto da tale Bias, al secolo Attardi  Biagio. Un piccolo spiazzo in pozzolana battuta, che proseguiva con un viottolo di campagna,  separava questo fabbricato da un altro più grande, che guardava sia su Via Coroglio che verso il Campo. A livello stradale si apriva un negozio di frutta e verdura curato da una vecchia conosciuta col nome di Barbarella [5]  che, ad unica difesa dai rigori dell’ inverno, aveva sulle spalle uno striminzito e bisunto scialle di lana intrecciato davanti al braciere nelle lunghe serate invernali. A seguire ,  una rivendita di sale e tabacchi, una panetteria, un salone ed un nuovo negozio di generi alimentari. Ai piani superiori di questo fabbricato viveva, tra le altre, la famiglia di Angelo Ciccone  :  una delle prime in paese ad avere il telefono in casa. Ciò, per la famiglia , e particolarmente per la padrona di casa – la signora Giorgina – dovette costituire con molta probabilità un motivo di grande fastidio, perché l’apparecchio telefonico e la casa divennero quasi un servizio pubblico ,   trasformandosi,  da occasionale,  in abituale  sistema di collegamento col mondo esterno per molte persone e dando origine ad un incessante andirivieni a tutte le ore del giorno. Attaccato a quest’edificio c’era un villino separato dalla strada e dal marciapiede da un basso muretto sormontato da una recinzione di ferro e da un cancello a due battenti che si apriva nella parte centrale. (TAV. 1 n. 44) Un muro comune divideva ,  anzi sarebbe il caso di dire congiungeva ,  questo villino con un altro grande fabbricato : la proprietà D’Alessio. Alle spalle della proprietà D’Alessio,  tra fittissimi pergolati di glicini e  cespugli di rose rampicanti, in una costruzione mista di mattoni e legno, abitava la famiglia di Giuseppe Capuano . Subito dopo tale costruzione, su una strada di campagna in terra battuta , si ergeva la chiesa dedicata alla patrona del luogo : Maria SS. di Campegna  e subito dopo la chiesa , in una baracca a breve distanza , molto simile alla costruzione precedente, viveva una coppia non originaria del luogo :  un tale “signor Dino e la moglie.

 

La festa della Madonna di Campegna

 

La festa della Patrona, per organizzare la quale un apposito comitato effettuava settimanalmente e per un intero anno la cerca,  ricorreva nella settimana di Pasqua. Era un evento eccezionale di poco inferiore alla più nota Piedigrotta. Artistiche luminarie multicolori si allungavano dappertutto. Una grande arcata ( la Porta), più grande e più elaborata delle altre, veniva posta poco dopo Piazza Bagnoli.  ( Volgendo le spalle alla piazza, come per dirigersi a Coroglio, alla sinistra c’era la numerazione dispari e alla destra la pari). Il flusso di visitatori che la festa richiamava era veramente impressionante. Veniva gente dai posti più impensati, tanta importanza aveva raggiunto l’evento,  divenuto un appuntamento fisso. Ogni più piccolo spazio, come per incanto, veniva occupato dai baracconi delle giostre,  da una miriade di bancarelle che offrivano i più disparati articoli: per e muss (piede e guanciale di maiale) annegato in spremute di limone e spruzzato di abbondante sale che veniva fuori da un corno di mucca adibito a saliera; cozzicari, maruzzari (venditori di piccantissime zuppe di  lumache ), tarallari, castagnari, venditori di frutta secca(nocciole, arachidi, semi di zucca e ceci tostati), che di quando in quando riempivano l’aria,  già satura di ogni sorta di rumori, di laceranti fischi provenienti dalla caldaia  in cui tostavano le arachidi o le nocciole, venditori di palloncini, di palle riempite di segatura,  di strummoli (trottole di legno), di torrone, di caramelle e dolciumi vari … Ovviamente, come ogni festa degna di questo nome, accanto al momento dedicato allo spirito, non poteva mancare quello dedicato alla soddisfazione delle richieste materiali, che, oltre alla degustazione di tutto quel ben di Dio di cui si è appena detto, comprendeva anche giornate dedicate  :

–  alla musica (sia operistica  che  napoletana classica), i cosiddetti concertini;

–  alla vendita, cioè un’asta, condotta da un eccezionale banditore (Reccù), al secolo Salvatore Assardo,  che  oggi sicuramente avrebbe avuto una grandissima fortuna nelle televendite ;

– ai fuochi pirotecnici.

Relativamente al momento religioso, la festa era di tale importanza che il Lunedì in Albis Coroglio meritava la visita dell’ Arcivescovo di Napoli che, nell’ occasione, somministrava la Prima Comunione , impartendo contemporaneamente anche  il sacramento della Cresima[6].

Per quanto riguarda il momento canoro, nessun artista delle vecchie glorie voleva perdersi una partecipazione alla Festa di Campegna e posso garantire che tutti gli interpreti del repertorio napoletano classico si sono esibiti sul palco innalzato per l’ occasione.

La festa culminava con lo spettacolo dei fuochi pirotecnici nei quali si confrontavano diversi maestri fuochisti e che, la notte del Lunedì in Albis metteva la parola fine alla kermesse.

Chiuso per tre lati dalla via di campagna, da Via Coroglio e da Via Campegna, si estendeva un campo coltivato prevalentemente ad ortaggi e graminacee alla cui cura attendevano Salvatore e Luisella, fratello e sorella. Sul campo torreggiava con non poca solennità una casa colonica di ragguardevoli dimensioni. Qui abitavano i due coloni (Salvatore e Luisella) e la famiglia Villani. I due nuclei familiari erano imparentati fra loro e con zia Elvira, la bidella della locale Scuola Elementare “ Vito Fornari “.[7] Al piano terra  una stalla ospitava tre mucche, che da sole riuscivano a soddisfare le esigenze di tutto il paese ! Le mucche erano di proprietà di due soci  :  Vitale e  Giacomino. Il primo abitava in una vera e propria favela ( il Bianchettaio) ubicata sul lato sinistro di  Via Coroglio, procedendo in direzione di Bagnoli, a circa 200 – 300 metri dal passaggio a livello dell’ILVA. Giacomino, invece, era residente a Coroglio ed abitava nella proprietà D’Alessio.

Ma perché ho riportato questa notizia ? Non certo per stilare un surrogato di certificato di residenza quanto per riferire una nota di costume. Giacomino, infatti (che al secolo si chiamava Giacomo Ferraro), era  identificabile solo se al nome fosse stato aggiunto il soprannome “ ‘o vaccaro,  “ossia “il mugnaio, il vaccaro”, cosa valida per quasi tutti in paese. Per individuare alcune persone bastava solo il soprannome che era divenuto prevalente sul nome di battesimo o su quello del casato. Così (per il caso citato) ,  dire semplicemente a qualcuno :   << Va’ da Caterina>>  (moglie di Giacomino il vaccaro) metteva quest’ultimo in serio imbarazzo, se a Caterina non fosse stato aggiunto “ ‘a Vaccara “,  il soprannome divenuto ormai distintivo per tutta la famiglia.

A proposito delle tre mucche, che riuscivano a fornire latte per tutto il paese, occorre fare alcune  precisazioni. Dalle poppe delle mucche, infatti, usciva una quantità di latte sufficiente a riempire due o tre recipienti  di zinco dalla forma molto particolare (i cosiddetti ziri), quantità che non avrebbe potuto, certo, soddisfare le richieste di tutti gli abitanti, se per la circostanza non fossero intervenuti contemporaneamente due fattori : lo stato di bisogno della maggior parte delle persone e un discreto annacquamento del prodotto da parte dei due soci, unico mezzo col quale, dopo di essere stati bene attenti a non scontentare le poche persone abbienti, i due mugnai  potevano soddisfare le richieste delle altre famiglie che   potevano   permettersi quella spesa supplementare.

In una depressione che si trovava a poco più di un metro sotto il livello della strada, tra Via Coroglio e la via di campagna che conduceva alla chiesa,  vi era un fabbricato a pianterreno abitato dalle famiglie di Pagliuca Umberto e di Camillo Eduardo, quest’ultimo conosciuto come ‘o chiazzier(e) ,  perché, lanciando il suo caratteristico grido di leopardiana memoria, esercitava l’attività di venditore ambulante di ortaggi, frutta e verdura da un posto all’altro del paese. In prosecuzione, ma fuori terra a livello della strada,  si ergeva una grandissima e signorile villa padronale, di proprietà del titolare del Lido delle Sirene : Villa Calabrese,  anch’essa sommersa da estesissimi pergolati di glicini,  buganvillee,  biancospini e cespugli di coloratissime ortensie. Una specie di corridoio, di pertinenza del complesso che ospitava l’asilo infantile,  lungo il quale correvano delle aiuole con diverse varietà di fiori,  divideva la Villa Calabrese dalla scuola dell’ infanzia o asilo.

L’asilo, già COLONIA MARINA MARIA CRISTINA DI SAVOIA ,  lettere di ferro, bianche, a caratteri cubitali, saldate su cancellate di colore verde scuro terminanti a forma di lancia, costituiva il gioiello del paese.

.

[ Le lettere cubitali in ferro furono successivamente sostituite da un’insegna al neon, che è quella che si nota nella foto. A destra è visibile il serbatoio per l’acqua della CEMENTIR, che fa datare la fotografia successivamente all’anno 1954 ]

Il complesso  era una specie di orto botanico con  le sue piante di magnolie,  palme,  filari di oleandri inframmezzati da cespugli di profumatissimi biancospini; gigli, rose, tulipani ed aiuole meticolosamente curate. Appena oltrepassato il cancello, sul lato sinistro era ubicata la guardiola in legno e vetro, regno del custode Pasquale Filaseta, sempre in uniforme ed in berretto d’ordinanza,  con l’alzata del quale salutava la direttrice (Sig. na D’Errico)  e le insegnanti.

Uno scalone in marmo bianco immetteva in un primo grande spiazzo  sottostante, al centro del quale si trovava una vasca di forma circolare circondata da un’aiuola sempre ben rasata da cui  diverse specie di fiori mandavano i loro messaggi colorati e profumati . Dal centro della vasca si alzava un vigoroso zampillo, che irrorava file di bianchi gigli che facevano capolino dal muretto che ne costituiva il bordo. Alla destra ed alla sinistra della vasca due grossi padiglioni in muratura e vetro, simili a due grandi serre,  accoglievano, quello di destra, la Direzione ed i servizi del corpo insegnante, quello di sinistra, lo spogliatoio e le aule dei bambini.

A fine anno, ed ogni anno immancabilmente, tra le mamme dei bambini e la direttrice del complesso si instauravano sempre delle lunghe ed animatissime discussioni  per stabilire se era o non era il tempo che i bambini lasciassero l’asilo per iscriversi alla scuola elementare. L’oggetto di tali discussioni era rappresentato dalla modestissima refezione che veniva distribuita all’asilo e che consisteva in un piccolo piatto di minestra calda, due formaggini, una rosetta ed una cotognata o un frutto. Per molti bambini,  quella pur modesta ma sicura refezione poteva rappresentare l’unica occasione d’incontro con una minestra calda per quel giorno. E questo era il motivo per cui tante mamme,  sempre invano però, tentavano veramente di fare carte false pur di permettere ad un loro figlio di godere ancora per un anno di quella condizione di favore.

Quando, all’ora di uscita, si chiedeva ad un bambino cosa avesse mangiato quel giorno, bisognava vedere la luce di gioia che gli dilatava le pupille nell’ elencare le portate! Qualcuno di essi, su cui l’amore fraterno aveva potuto più dell’ indigenza, talvolta riusciva a privarsi anche di qualche formaggino o della minuscola razione di cotognata per portarla a casa a qualche fratello meno fortunato che non frequentava l’asilo, o perché non ancora in età o perché questa era stata superata.

Oltre i due padiglioni citati, due larghe scale lungo le quali erano situati altri quattro padiglioni ,  poste di fronte a quella dell’ ingresso, immettevano in un’altra serie di giardini, parzialmente coltivati anche a ortaggi ed erbe commestibili.

Ai lati del complesso, dalle cui cancellate frontali fuoriuscivano rami di biancospini, oleandri e glicini vi erano due lunghi viali. Di quello a destra, che divideva la colonia dalla Villa Calabrese, s’è già detto. Quello a sinistra,  del tutto identico al primo, separava l’asilo dai confini dello stabilimento Montecatini.

Quest’ ultimo (già Vetreria Lefevre dal 1853) produceva solfato di rame, acido fosforico e fertilizzanti fosfatici partendo dalla trasformazione del bisolfuro di ferro o pirite, che arrivava qui dall’Isola d’Elba a bordo di velieri (paranzielli).

La comparsa all’orizzonte di questi velieri (adibiti, per quello che riguarda la mia esperienza personale, al trasporto della pozzolana e a quello della pirite) ed il loro successivo attracco ai pontili o alle banchine per le operazioni di scarico richiamava subito alla memoria scene da romanzi salgariani. I  velieri , infatti,  differivano da quelli dei pirati solo perché privi della  bandiera nera col teschio sull’albero maestro e perché la ciurma (proveniente per buona parte da Torre del Greco,  Torre Annunziata, Procida o Bacoli) non incuteva terrore solo perché dalle cintole dei suoi componenti non si vedevano  pendere né armi da fuoco né da taglio.

Sul lato dello stabilimento “Montecatini” che confinava con l’asilo non v’erano reparti destinati alla produzione,  ma  capannoni con grossi stanzoni, alcuni dei quali adibiti a locali per la ricreazione  delle maestranze.[8] Questi locali però, anche se destinati a scopi ricreativi, erano scarsamente utilizzati dai dipendenti  per diversi motivi. Il primo era rappresentato dalla stanchezza dovuta alla  estenuante giornata di lavoro non coperta da alcuna garanzia sindacale, per cui  non era possibile né individuare con esattezza cosa competesse a ciascuno né, pure se ciò fosse stato possibile, gli interessati avrebbero rischiato il posto di lavoro opponendo un rifiuto ad una disposizione impartita da un superiore. Avendo avuto modo di prendere visione di un libretto di lavoro dell’epoca,  mi è venuto spontaneo chiedermi su quali margini di trattativa potesse sperare  un individuo inquadrato con la qualifica di uomo di fatica. Se poi a questo aggiungiamo che l’epoca di cui stiamo parlando è quella immediatamente successiva alla fine del secondo conflitto mondiale, quando le condizioni economiche erano abbastanza precarie per la maggior parte delle persone, si chiarirà l’altro motivo  per cui il dopolavoro andava deserto.

Chi aveva responsabilità familiari, infatti, nonostante la stanchezza conseguente al normale orario di lavoro in fabbrica,   non disdegnava qualunque occasione  che consentisse di arrotondare il salario, che non è mai stato tale da  permettere alla classe operaia di sentirsi pienamente soddisfatta della propria condizione.

La principale attività che teneva impegnata la maggior parte dei capifamiglia era rappresentata dall’andare a dissotterrare resti di lavorazione o scorie miste di schiuma silicea e ferro, o scarti di rame e piombo in due punti del paese adibiti a discarica di rifiuti solidi industriali dall’ILVA e dalla MONTECATINI.

La prima, per liberarsi delle migliaia di tonnellate di scorie prodotte giornalmente, era costretta a ricorrere ai servizi di ditte di autotrasporti private (ma ricorreva anche allo smaltimento via mare su natanti di proprietà) che andavano a riversare scoria  e loppa d’altoforno (ricche di ghisa e ferro, a seguito  di colate mal riuscite) ai piedi della collina di Posillipo sull’ arenile compreso tra la via che portava a Nisida ed il faraglione oltre il quale si apre la Baia di Trentaremi  : zona divenuta, per antonomasia – e così rimasta – ‘o scarr(i)catur(o),  ossia, lo sversatoio,  la discarica . La quantità di queste scorie era di tale portata che finì per modificare la fisionomia di quella parte del litorale costringendo il mare ad un notevole arretramento,  nonostante  l’azione erosiva di quest’ultimo,  congiunta a quella degli improvvisati minatori.

I rifiuti della MONTECATINI, sebbene quantitativamente più modesti, erano, però, molto più ambiti sia perché ricchi di metalli più pregiati : piombo e rame, sia perché richiedevano molto meno tempo per l’operazione di scavo. Il loro trasporto avveniva su carretti a trazione animale muniti di alte sponde mobili, chiamati in dialetto  tummarrelle  (“tombarelli”) per la caratteristica forma a tumulo dei rifiuti trasportati, che aveva una vaga forma trapezoidale, con la base minore rivolta verso il basso.[9] Su entrambe le discariche lo scenario e l’atmosfera erano in tutto simili a quelli  delle zone aurifere del Far West, solo che, per fortuna, i minatori non avevano le colt. Ognuno aveva la propria area di scavo e i propri ferri del mestiere (martelline,  picconi, zappe, vanghe, pali e mazze di ferro, carriole, coffe) . Nei punti in cui  il materiale riversato si era ben sedimentato  raggiungendo una compattezza che permetteva di scavare con maggiore tranquillità, si notava una camera centrale da cui si diramavano piccole gallerie in ogni direzione, come i tentacoli di una piovra. Durante le operazioni di scavo poteva capitare che una rusca, ossia una scoria somigliante ad una grossa pepita, dal peso – a volte – anche di diversi quintali,  venisse a trovarsi a cavallo di due diverse tane, o proprietà. L’evenienza dava origine a situazioni degne della penna di un grande commediografo!

Immediatamente nasceva un’animata discussione tra i due contendenti ed era cosa ardua volerla dirimere,  perché la febbre ,  unita alla condizione di bisogno degli interessati, ne ottenebrava le menti al punto da rendere impossibile l’ accettazione anche delle verità più  ovvie. La logica avrebbe voluto, infatti, che i contendenti raggiungessero un accordo che prevedesse un’equa divisione del materiale portato alla luce . Ma non era così facile, perché colui che lo aveva portato alla luce per primo ne vantava il totale diritto di possesso, mentre l’altro non riusciva a convincere l’ occasionale  comproprietario che, magari, la maggior parte di quell’ amorfo pezzo di materiale si estendeva nella sua tana e , quindi, la spartizione sarebbe dovuta avvenire secondo criteri diversi. Dopo lunghissime ed estenuanti discussioni, durante le quali a volte si passava anche a vie di fatto,  la questione riusciva a trovare una soluzione.

Data l’austerità dei tempi, non mancavano altre occupazioni a tenere impegnate le persone e che facevano assomigliare il paese ad un formicaio con creature in perenne attività. Così era spettacolo abituale vedere  il bagnasciuga battuto nei due sensi da più di una persona ;  notare che  di quando in quando qualcuna di esse si abbassasse a raccogliere qualcosa che riponeva in sacche o ceste,  con gesti furtivi,  per non suscitare le invidie o le gelosie delle altre persone impegnate nella stessa occupazione.

Il rigore dei tempi e lo stato di bisogno della gente esercitavano, sicuramente in maniera del tutto involontaria, una radicale funzione protettiva per l’ambiente circostante. E così la battigia e tutto il litorale erano sempre puliti, non tanto – ribadisco – per un innato  senso di rispetto per l’ambiente quanto per mera necessità, che rendeva o immediatamente utilizzabile o successivamente riciclabile tutto quello che oggi  sarebbe sbrigativamente classificato come “ rifiuti”.

Tra i materiali che il mare portava a riva (legno, rami, alberi interi, noccioli di pesca, carbon fossile, metalli vari, bottiglie di vetro ) erano davvero pochi  quelli che non riuscivano ad essere riciclati. I noccioli di pesca, infatti, insieme al legno, ai rami, ai tronchi di albero, erano un ottimo combustibile da usare nei bracieri, altrettanto il carbon fossile usato nei focolari.

Occorre precisare che la plastica, in tutte le sue varianti,  era completamente sconosciuta. Sicché i rifiuti che ingombravano il litorale erano rappresentati prevalentemente  da materiali metallici o vetrosi : bottiglie e frammenti di vetro, tubi di piombo (ex contenitori di pasta dentifricia); cilindretti di alluminio di varie grandezze (ex contenitori di medicinali); scatole contenenti creme, pastiglie o mentine, sempre in alluminio.

Tutte queste cose venivano in parte utilizzate immediatamente, come avveniva per il materiale combustibile, in parte riciclate. Con una pazienza veramente certosina tutti questi contenitori venivano ridotti nelle dimensioni e messi da parte, anche per periodi di tempo abbastanza lunghi, fino a che non avessero raggiunto un peso ragguardevole che facesse ritenere giunto il momento di contattare uno dei tanti rigattieri (alias saponari), che passavano con frequenza periodica per trattare l’acquisto. Se le varie bevande prodotte e consumate oggi, nelle loro policrome lattine di alluminio, che vengono abbandonate dappertutto, fossero state immesse sul mercato all’epoca di tali memorie, non poche persone si sarebbero addirittura arricchite.

Per il vetro ci si regolava diversamente, poiché esso, non potendo essere ammaccato, ossia ridotto come dimensione, veniva venduto quasi subito ma non prima  che dalle bottiglie fossero stati ricavati una sorta di bicchieri che venivano impiegati come vasetti per mettervi gli odori freschi (basilico, prezzemolo, sedano, menta, ecc.) o  adibiti a portafiori e contenitori vari.

Con la legna raccolta, invece, in bracieri solitamente costituiti da coffe di ferro sia perché più capienti, sia perché fornite di due grossi e comodi manici, accendevamo interminabili teorie di falò. L’operazione ci affumicava come aringhe,  perché, considerando che quasi tutta la legna proveniva dal mare,  era pressoché impossibile sperare di  accendere un fuoco senza trovarsi immersi in una densa cortina di fumo reso più acre dal sale che impregnava il materiale combustibile.

Si penserà a questo punto che i ragazzi che accendevano quei fuochi fossero alquanto ritardati visto che non erano capaci di cambiare posizione ed evitare così di farsi investire dalle dense ed acri zaffate di fumo che provenivano dalla legna intrisa di salsedine. Un pensiero del genere, però,  può maturare solo nella mente di chi non ha vissuto quei momenti, perché quei ragazzi, per scansarsi, non avevano bisogno di alcun suggerimento. Solo che il vento,  difficile da credere,  sembrava essere animato e cosciente, mettendosi, ogni volta che si cambiava direzione, a soffiare dispettosamente proprio dalla direzione in cui ci poteva investire frontalmente!

Cessato il fumo della combustione iniziale, nel braciere rimaneva una buona quantità di tizzoni rossi e scoppiettanti. Era tempo di portare il tutto in casa, affinché il vento non si mangiasse quella brace costata tanta fatica e tanto impegno.

(Tra i combustibili, i noccioli di pesca erano tra i  più tenaci, durevoli e calorici, come il carbon coke, il quale – però –  non veniva usato per i bracieri perché liberava delle esalazioni alquanto pericolose;  esalazioni che, invece,  nel focolare provvisto di tiraggio venivano risucchiate verso l’esterno e non costituivano pericolo per le persone che si trovavano in casa ) .

Una volta in casa, intorno all’invitante braciere si formava subito un cerchio di sedie e sgabelli, ed il momento diventava come per magia la più importante occasione di incontro della giornata.

Il televisore, all’epoca, era ancora da venire, per cui,  attorno a quel fuoco, si creava un dialogo il cui romanticismo,  purtroppo, oggi vive solo nei nostri nostalgici ricordi.  Il papà, o altra persona a cui fosse stato riconosciuto il ruolo di dicitore, cominciava a scegliere dal libro della sua memoria favole e favole … e via a raccontare!

Orchi, fate, gnomi, draghi,  giganti si materializzavano e trovavano posto in quel piccolo cerchio, secondo l’aspetto,   l’animo e i costumi che l’immaginazione di ciascuno gli conferiva e che ogni sera, immutabili, ma pur sempre attesi, si presentavano all’attenzione dell’uditorio per essere  collocati sull’immaginario “set” e qui interpretare le  nuove vicende secondo la sensazione e la visione che di essi aveva avuto ciascun ascoltatore.

La parte occupata dallo stabilimento MONTECATINI rappresentava come il confine del paese. Oltre questo limite, infatti, bisognava percorrere un tratto disabitato della via principale di circa duecento – trecento metri prima di incontrare un altro agglomerato di case: la Villa Ferri, in cui erano allocati il Dopolavoro dell’ILVA e il CIRCOLO CANOTTIERI ILVA. Il Dopolavoro era abbellito da una moltitudine di fiori e aiuole ben curate. A sera, lunghe file di lampadine multicolori illuminavano festosamente i molti tavoli, le poltrone e gli ombrelloni attraverso cui era un incessante andirivieni di camerieri in pantaloni neri e giacca bianca pronti a soddisfare le richieste che provenivano dai vari soci/clienti.

Un  rettangolo di terra rossa, che  risaltava nettamente tra i tavoli e le sedie verniciati di bianco, accoglieva un campo da tennis su cui persone giovani e meno giovani ostentavano la diversità del loro status in eleganti tenute sportive,  mentre altri  giovin signori   erano a smaltire le calorie superflue in esercizi di voga in una vasca coperta o nella yole sul mare : gli uni e gli altri irraggiungibili ed invidiati dai meno fortunati. Costoro ,  nella considerazione comune ,  erano i   “signori”,  ossia  persone di estrazione sociale anche  non elevata, ma che all’ interno dello stabilimento occupavano posti diversi da quello di uomo di fatica o di semplice manovale  :  cassieri,  contabili,  capisquadra, ecc. Tanto poteva allora la certezza di una occupazione sicura e la mancanza di paura per il proprio domani! Già un modesto operaio era circondato di rispetto e fiducia. La certezza della sua condizione sociale, infatti, era un dato su cui il commerciante poteva fare affidamento per la propria attività. Figurarsi, quindi, la considerazione in cui era tenuto un “colletto bianco” con mansioni di capufficio, di contabile, di cassiere! Costui rappresentava una preda ambita, andava coccolato e riverito,  e, quindi,  il “don” era la minima forma di rispetto che gli si potesse tributare.

Andiamo adesso a ritroso lungo la via fin qui percorsa e riportiamoci all’altro lato di Via Coroglio. Quasi di fronte al fabbricato che iniziava con la casa della famiglia Porpora e terminava con l’ esercizio di generi alimentari di Biagio Attardi, si ergevano  altre due costruzioni, divise da un muro in comune : la Proprietà Vincenzo Marino e la Villa Mandile.[10]  La proprietà Marino, per superficie e volumetria, è l’edificio  più grande del paese, ed anch’esso – come tutte le abitazioni di Sotto Coroglio – presenta la caratteristica comune a tutte le case costruite su terreni in pendenza : alcune parti che si trovano a pochi metri da terra, osservate dal lato basso, danno l’ impressione di essere più alte di quanto non lo siano in realtà;  mentre i piani sottostanti, dall’alto, si presentano come degli ipogei, pur se trattasi di vani a piano terra. Definire però “abitazioni” i vani del complesso è quasi una forzatura, perché essi altro non erano che modestissimi terranei, che, per insufficienza di spazi vitali, allungavano dovunque fosse possibile propaggini di legno, lamiere e carta catramata, al fine di ricavare nuovi spazi, a mano a mano che aumentava il numero dei componenti della famiglia.

Sono entrato ogni anno e per molti anni in queste case allorché, per la festa di Pasqua,  accompagnavo il parroco della locale chiesa,  don Michele Di Palma,  per la cerimonia della benedizione pasquale. Ciononostante non riesco a ricordare con esattezza né il numero né il nome  delle persone che vivevano in questo affollatissimo agglomerato,  perché non tutti gli usci (e questi in particolare) avevano affissa sulla porta d’ingresso la targhetta col cognome della famiglia, e così non mi è stato possibile memorizzarli. [11]

I locali occupati da queste famiglie, nonostante il poco spazio disponibile, erano tenuti abbastanza puliti e in ordine, a dispetto della ristrettezza degli spazi e la conseguente limitatezza dei movimenti. Venivano, infatti, adottati tutti gli accorgimenti per tentare di occultare in maniera decorosa la povertà della condizione . Non trapelavano né sciatteria né trasandatezza da quei poveri arredi. Il che lasciava arguire che, se fossero state destinatarie di un fato diverso,  quelle donne avrebbero saputo far rilucere di ben altri splendori le proprie case!

Le sedie attorno ai tavoli non erano “viennesi”; i centrotavola non erano ricami a mano fiorentini o tomboli di Burano, ma erano magari i resti di una coperta che forse aveva visto tempi migliori e che nel baule che custodiva il corredo aveva forse sperato di rivestire altri talami.

Il vaso al centro della tavola, con dentro un mazzo di profumatissime ginestre generosamente offerte dalla vicina collina, non era opera di alcun maestro vetraio di Murano, ma un  fiasco o una bottiglia che, essendosi rotti,  non potevano più essere  utilizzati per gli usi per cui erano stati costruiti.

Per quanto modesti ed estemporanei, però, tutti questi oggetti si sforzavano, e forse ci riuscivano pure, di lanciare un messaggio preciso, la cui decrittazione e corretta interpretazione facevano affidamento sulla sensibilità dell’osservatore.

Nello spazio compreso tra la parte del fabbricato ove erano situati la biglietteria e l’ingresso del Lido Coroglio e un’alta recinzione di mattoni rossi forati c’era uno spiazzo molto polveroso in terra battuta, adibito a parcheggio per le autovetture, i motocicli o le biciclette dei bagnanti diretti per la maggior parte al Lido Coroglio. A fianco delle cabine del Lido Coroglio, procedendo verso la battigia, si allungavano le cabine di un altro stabilimento balneare:il Lido Flora.  Una striscia di sabbia compresa tra queste ultime cabine e quelle del Lido delle Sirene accoglieva i bambini della Colonia Marina del Comune di Napoli, già “Maria Cristina di Savoia”.

Un parcheggio veramente degno di questo nome era quello del LIDO DELLE SIRENE (Foto n.10).  Tanto per iniziare, esso esponeva un’ insegna su cui campeggiava il prestigioso contrassegno   dall’ Automobile Club d’Italia ;  poi l’ area era veramente custodita. Vi era, infatti, un guardiano in uniforme che non abbandonava mai il proprio posto fino a che non se ne fosse andata l’ultima autovettura parcheggiata. Poi, oltre ad essere chiuso dai muri di mattoni rossi traforati di cui s’è detto, oltre ad essere costantemente innaffiato e spazzato e quindi per niente polveroso, questo parcheggio, sulla Via Coroglio di fronte al grosso fabbricato che ospitava gli esercizi  commerciali di Barbarella, di Vittorio Scotti, di Salvatore Trito e di Salvatore Scotti, era provvisto di un robusto cancello  di legno massello di pregevole fattura, la cui vernice bianca veniva rinnovata ogni anno … fino a che, per quanto si dirà, non ce ne fu più bisogno ! L’area, inoltre, proteggeva con stuoie di canne o di fibre vegetali poste su lunghi fili di ferro zincato le non poche automobili dei  bagnanti che avevano scelto di immergersi nelle acque del nostro mare. E’ il caso di precisare che esse  (probabilmente perché la raccomandazione aveva un fondamento scientifico) erano   prescritte da alcuni medici a scopo terapeutico, come pure la finissima sabbia dell’ arenile,  ricca di  ferro. Racconti dei nostri genitori e nonni ci riferivano che molte persone,  dopo alcuni cicli di stufi, sotto la nostra sabbia, avevano riacquistato in tutto o in parte l’uso di arti dati irrimediabilmente per spacciati. E’ probabile che questa specie di miracolo sia da attribuire alla notevole presenza di polvere di ferro frammista ai granelli di sabbia. Non posso precisare, però, se tale polvere facesse parte della composizione originaria della roccia o non fosse legata in qualche modo all’attività siderurgica dell’ ILVA. Ricordo solo che era sufficiente disporre di una calamita anche di modeste dimensioni per far raccogliere intorno ad essa una lunga barba di polvere ferrosa. La finezza di questa polvere era assimilabile quasi a quella del talco o di una polvere di grafite abbastanza fine. Giocando con la calamita, infatti, ricordo di non aver mai notato tra le barbe attaccate ai suoi poli alcuna scaglietta, nemmeno di piccolissime dimensioni, ma solo granelli microscopici Ciò,  considerando che tutta la zona è di origine vulcanica, potrebbe indurre ad escludere una connessione con l’attività dell’ILVA.

Ancora ai nostri tempi non era insolito notare tra la selva degli ombrelloni dei mucchietti di sabbia che altro non erano che degli stufi ai cui salutari effetti  sarebbero stati di lì a poco affidate le speranze di persone con problemi di staticità o di deambulazione. Molti di questi stufi sono stati approntati anche da noi, ex ragazzi del ’40, occupati ogni estate nel non leggero lavoro di bagnini. Il lavoro del bagnino è stato definito “non leggero” a ragion veduta. Esso, infatti, iniziava poco prima delle cinque del mattino e comprendeva una lunga serie di operazioni che andavano ultimate prima che cominciassero ad arrivare i primi clienti, fossero essi clienti occasionali o abbonati.

La prima operazione consisteva nel ripulire la spiaggia da tutti i rifiuti che potevano essere raccolti a mano, come fogli, buste o sacchetti di carta in cui erano state  precedentemente avvolte enormi frittate di maccheroni oppure avanzi di cibo che, con sprezzante maleducazione, la maggior parte dei bagnanti lasciava in giro. Successivamente, per alleggerire l’operazione seguente, venivano sistemati dei crivelli muniti di una rete metallica a maglie abbastanza larghe, che tratteneva solo i rifiuti di una  certa grandezza. Questi venivano raccolti in coffe di legno e sversati nelle buche della vicina scogliera. La sabbia passata attraverso i vagli grandi veniva successivamente cernita in crivelli a maglie molto strette, e, con un estenuante lavoro di braccia, doveva essere setacciata e ripulita di tutti i corpi estranei (che venivano trattati come i precedenti). La durata di quest’operazione dipendeva sia dall’estensione dell’arenile che dalla qualità e dal numero della forza – lavoro impiegata. Ripulita in tal modo la sabbia, si procedeva alla sistemazione degli ombrelloni, delle sedie a sdraio, delle bagnarole (che bisognava riempire di acqua di mare, affinché il sole la riscaldasse per il bagnetto dei più piccoli). Alla fine, per quelli che avevano lasciato la disposizione, vicino agli ombrelloni, si preparavano i mucchietti di sabbia per gli stufi. Dopo quest’ultima operazione, con dei rastrelli a maglie molto strette che conferivano alla spiaggia l’aspetto di un levigatissimo pavimento di linoleum, si spianava l’intero arenile, pronto così ad accogliere le dissacranti orme dei  primi clienti. A mattinata inoltrata, quando erano già arrivati parecchi bagnanti,cominciava un incessante andirivieni per aprire e chiudere le cabine ogni volta che se ne veniva richiesti;aprire,chiudere, spostare ombrelloni, sdraio, bagnarole, rifare qualche stufo e, a sera, appena liberate le cabine, provvedere alla loro pulizia. Dopo di che, dalle cinque del mattino fino a circa le nove di sera, se non sopraggiungeva qualche imprevisto, si riusciva ad andare a casa.

… Ma ritorniamo alla descrizione del Lido delle Sirene, interrotta per illustrare la figura e il lavoro quotidiano del bagnino.

Un muro interno divideva il parcheggio dello stabilimento balneare da un altro accogliente angolo del Lido delle Sirene: quello che verso i primi degli anni Cinquanta sarebbe diventato il boschetto ,  che,  negli afosi ed assolati pomeriggi d’estate, rappresentava una vera oasi con le sue panchine sistemate tra un gruppetto di  ippocastani ed eucalipti i quali, con la loro ombra, offrivano  frescura ai corpi bruciati dal sole, o un posticino non molto affollato e rumoroso a chi desiderava trascorrere un po’ di tempo lontano dalla folla e dai rumori. Questa zona dello stabilimento, prima della modifica, offriva comunque riparo e frescura, mediante l’utilizzo di lunghe stuoie di fibra vegetale stese sui soliti fili di ferro.

Stando di fronte, alla destra del  boschetto si elevava il corpo centrale del Lido, la cui  facciata (prima della modifica) era formata da una grande vetrata centrale terminante ad arco ai cui lati stavano sdraiate due sirene (Foto n. 10). La sala, smisurata, ospitava due biglietterie (poste ai due lati), la Direzione, la Segreteria, un grande bar ristorante con sovrastante terrazzo ristorante,  un solarium,  due logge laterali, una loggia interna e tre tavoli regolamentari di tennis da tavolo. Dal lato rivolto verso la spiaggia, il Lido occupava uno spazio proporzionale alla sua mole, con un numero enorme di camerini in muratura, di spogliatoi e di cabine di legno: singole, doppie o familiari. La sala continuava – e terminava – con una pista di pattinaggio, simmetrica al “boschetto”. Qui, per l’amore che alla propria attività portava il titolare: Cav.Vincenzo Calabrese (alias‘o Signurin ) si svolsero per parecchi anni i campionati nazionali di pattinaggio artistico, così come la sala aveva ospitato varie edizioni, sempre nazionali,  di tennis da tavolo, di ONDINA DI SPORT SUD e del TRITONE D’ARGENTO. ( Da alcune di queste manifestazioni ha avuto inizio la  carriera artistica di molti “ sconosciuti “,  diventati successivamente star di fama internazionale ). Attaccata alla pista di pattinaggio v’era la casa del guardiano che vigilava sull’area dello stabilimento anche durante l’inverno, cioè – per quella che era la nostra percezione delle stagioni – da un giorno indefinibile del mese di ottobre a tutto il mese di febbraio.

In considerazione della mitezza del clima, infatti,  era nostra abitudine dividere l’anno in due parti:  l’estate, la stagione per eccellenza, che andava dal mese di marzo fino  ad ottobre (dipendendo dal comportamento del tempo se fosse l’ inizio, la metà o la fine del mese ) e l’inverno per i restanti mesi. Le stagioni intermedie quasi non esistevano per noi, pur conoscendole, ovviamente.

Per non generare dubbi sulla nostra integrità intellettiva si rende necessaria una spiegazione sul nostro modo di dividere l’anno. Da noi, subito dopo Pasqua, si cominciava a respirare già aria d’estate. Di questi tempi, infatti, i vari capimastri dei sei stabilimenti balneari dislocati sull’arenile cominciavano a conficcare enormi pali di legno appuntiti nella sabbia, a concatenarli fra loro, e a stendere su di essi, una serie infinita di assi di legno con cui, dando libero sfogo alla loro capacità creativa, realizzavano una specie di rete stradale con vie principali, traverse e slarghi, attorno ai quali avrebbero trovato armonica sistemazione le numerose cabine.[12]

Mentre sulla parte più alta dell’arenile prendevano forma queste città in miniatura, più in riva al mare, Mastro Dena, maestro d’ascia e vero mago del legno, dalle cui labbra pendeva perennemente  un mezzo sigaro, cominciava il suo peregrinare da uno scafo all’altro,  per consentire a tutti i natanti cui l’inverno aveva nuociuto, di fare il proprio dovere anche per la nuova stagione.

Il vento primaverile era diventato una leggera e tiepida brezza, il sole era già abbastanza caldo, così, al concorrere  di tutti questi fattori, ci sentivamo autorizzati a provare la sensazione del primo bagno della stagione, al quale, poi,  seguivano regolarmente tanti altri sì che,  a metà maggio, eravamo già neri come tizzoni ed invidiati dai bagnanti pendolari o dai villeggianti che a luglio o ad agosto erano ancora bianchi come mozzarelle.

Ai lati della casa di Giacomo Donato ( il vecchio guardiano del Lido delle Sirene ) sorgeva un grande capannone di proprietà di Luigi Rigillo , che ospitava un deposito di rottami metallici  ed un’ autorimessa. (Oggi,  al suo posto esiste un fabbricato per civili abitazioni). Seguiva una bassa costruzione in cui – al civico 132 – si trovava un esercizio di merceria con annesso retrobottega e giardino ,  più un altro terraneo di due vani al civico 130. La merceria era gestita da una anziana signora di nome Carmela, che ,  per essere moglie di Peppe (al secolo Toscano Giuseppe) che,  al civico 126, gestiva un salone di barbiere, era conosciuta unicamente come Carmela ‘o barbiere (ossia Carmela, moglie del barbiere).[13]

Il terraneo attiguo, invece, ospitava, di giorno, quattro persone, e la sera anche un carretto pieno di ceste di ortaggi , frutta e verdura: parte integrante della famiglia. Questa era composta da Palmiro,  il capofamiglia, dalla moglie Nunziata e da due figli: Luigi e Peppeniello. Palmiro, uomo buono e caratterialmente accomodante, era completamente soggiogato dalla moglie, la quale – per il carattere violento e autoritario – era stata soprannominata ‘a ciuccia ‘e fuoco (la ciuccia di fuoco). Nella parte posteriore del fabbricato, tra l’esercizio di merceria (di cui era pertinenza) ed il terraneo occupato dalla famiglia di Palmiro, si stendeva un pezzetto di terra molto ferace in cui venivano coltivati fiori, ortaggi ed erbe officinali. L’orto era arricchito da un generoso pozzo di acqua ferro-sulfurea ,  di cui la zona  – in considerazione della sua natura vulcanica – era ricca, nonché da grossi alberi di datteri e da estesissimi pergolati di immancabili ed onnipresenti glicini.

Un pilastro di mattoni , intonacato,  a sezione quadrata,  segnava,  al civico 126 di Via Coroglio, l’inizio della Villa De Angelis : un complesso abitativo che si estendeva fino al civico 118. La parte anteriore del complesso, che si affacciava sulla strada, comprendeva dei locali  commerciali a piano terra e delle abitazioni al primo piano.[14]               La parte posteriore, invece,  aveva solo tre terranei ad appena una quarantina di centimetri da terra. Il primo di tali locali era occupato da Generosa, una vecchia dall’aspetto burbero che vendeva in situ tutto quello che potesse solleticare le voglie di noi ragazzi : caramelle, lecca-lecca, bomboloni,  liquerizia di tutte le forme (a  bastoncini, a rotoli, a granuli, a barchetta, ecc.) e figurine,  i cosiddetti ritrattielli (ossia piccoli ritratti) su cui erano effigiati gli eroi, come Tarzan con tutta la famiglia, i calciatori e tutti i divi dell’epoca.

Il secondo terraneo era abitato da un’altra vecchia più accattivante: zia Erminia. Anche costei esercitava il commercio nel vano in cui abitava, attendendo alla vendita di castagne (secche, lesse, ballotte, caldarroste) e lupini durante il periodo invernale. In estate, invece, trainando su un carroccio un enorme ed annerito pentolone di rame stagnato, andava in giro a vendere pannocchie di granoturco bollite. La mercanzia minuta, tranne le pannocchie, veniva servita in coni di carta avvolti a mano, i cosiddetti coppetielli, che poi altro non erano che le pagine dei nostri quaderni, che, una volta terminati, portavamo a zia Erminia, per barattarli con un misurino di ceci o semi di zucca abbrustoliti, un pugno di castagne o un coppetiello di lupini. A seguire, un altro terraneo occupato da quattro persone  (il capomastro del Lido Pola, Sciasciò, la moglie e due figlie : Rosalia e Barbara). Dopo quest’altro terraneo c’era un fabbricato che ospitava a pianterreno tutta una serie di modeste dimore e al primo piano la Scuola Elementare “Vito Fornari”.

Tra i terranei e l’edificio che ospitava la scuola vi era uno spiazzo in pozzolana battuta, che veniva normalmente usato dalle massaie che vi abitavano per stendere i panni e farli asciugare su lunghe corde tese di traverso e mantenute in tensione da lunghe forcine. Non era inconsueto, però, vedere questo spiazzo trasformarsi in improvvisata palestra all’aperto anche d’inverno. Era, infatti, abitudine del nostro insegnante di quinta elementare (Oddone Usai), il professore per antonomasia,  farci fare ginnastica a corpo libero, esercizi paramilitari e gare di staffetta in questo spazio di cui  inopinatamente si era trovato a disporre. In merito all’ esecuzione degli esercizi il professore era molto esigente e ci portava ad esempio la sua stessa persona, che, ormai prossima alla pensione, copriva a piedi  il lungo tratto di strada da  Villanova[15] a Coroglio e viceversa.   La comparsa, sul piazzale, delle scolaresche militarmente allineate e sul più rigido “attenti” faceva storcere immediatamente il naso alle massaie. Sapevano, infatti, che di lì a poco  il professore avrebbe mandato la bidella a chiedere loro di voler liberare l’area da quei panni sciorinati, costati faticosi sdrenamenti (ossia, forti dolori di schiena) e spaccature di mani,  visto che, all’epoca dei fatti, il comunissimo elettrodomestico “lavabiancheria” si trovava ancora all’altro capo dell’Atlantico. Sicché il bucato veniva fatto a mano, in tini di legno (cupielli) pieni di acqua dove in precedenza la biancheria era stata messa in ammollo in una soluzione di acqua e potassa caustica, o ranno.  Nelle giornate invernali particolarmente rigide, prima di poter procedere all’ operazione di lavaggio dei panni contenuti in questi tini, bisognava rompere la lastra di ghiaccio che a volte si formava sullo strato superficiale dell’ acqua, poi strofinare energicamente e a lungo la biancheria, con le nocche delle mani chiuse a pugno, con molle sapone alcalino : il sapone di Piazza , profumatissimo e dall’aspetto di una grossa cotognata, che si vendeva a peso e si acquistava esclusivamente in merceria. Sia l’immersione delle mani in una soluzione contenente potassa caustica, sia il dover rompere e rimuovere il ghiaccio formatosi, sia, infine, l’uso di un sapone alcalino congiunto all’azione meccanica dello strofinio ed alla successiva esposizione delle mani ancora umide al gelido vento di tramontana, provocavano delle profonde screpolature che, come una specie di stimmate, sanguinavano al più piccolo

 

movimento a dispetto di qualunque attenzione messa in essere dalle massaie. Per quanto riguarda poi gli sdrenamenti, ossia le rotture di schiena, anche questi sono subito spiegati. Provate ad immergere nell’acqua anche  una sola coperta di lana o una trapunta, ad alzarla dalla tinozza ,  dopo che si  è imbevuta ben bene di acqua,  insaponarla,  lavarla, risciacquarla, strizzarla per poi metterla ad asciugare! Poi fatemi sapere come vi sentite, e se avreste la forza di aggiungere a questa altre coperte, lenzuola, tute da lavoro di mariti e figli … e tante altre cosucce che oggi vengono rapidamente liquidate con una semplice apertura dell’oblò della lavabiancheria.

Questa nota di vita pratica è servita per spiegare le giuste preoccupazioni delle donne al momento in cui stavano per ricevere la richiesta di liberare il cortile per consentirci di fare gli esercizi di ginnastica. La fondatezza delle preoccupazioni fu spiegata anche al professore, e così gli esercizi ginnici, con nostro grande piacere, si ridussero drasticamente. Era l’epoca da me definita degli ultimi valori (strade regolarmente pulite ed innaffiate al mattino e al pomeriggio; rifiuti regolarmente prelevati, lettere che, per arrivare a destinazione, non dovevano essere necessariamente “raccomandate”,  ecc.) e così anche un modesto insegnante elementare, per quel senso di responsabilità che avvertiva connesso al ruolo ed alla funzione, cercava di aumentare sempre più il proprio bagaglio di conoscenze, per porsi,  all’occorrenza, come punto di riferimento per quelle madri che quotidianamente gli affidavano i propri figli. Sicché non sorprendeva affatto  che costui si trasformasse in consigliere,  psicologo, attento custode della nostra igiene,  arrivando talvolta ad azzardare perfino qualche parere medico,  spesso azzeccato.

All’epoca, le attenzioni del maestro,  da noi ritenute una pura fissazione, ci arrecavano non poco fastidio, ma oggi, osservando la caduta verticale di ogni valore positivo nella vita di tutti i giorni, quelle manie ritornano alla mente con sommo piacere. Ogni mattina,  prima di prendere posto nei banchi,  il professore ci sottoponeva a quella da noi considerata una vera e propria tortura, che consisteva in un meticoloso esame tendente ad accertare, in primis, la pulizia delle mani e lo stato delle unghie. Seguiva, poi, l’ esame delle orecchie e quindi quello degli occhi e del tessuto palpebrale. E come immancabilmente questa rivista avvenisse tutte le mattine, così non c’era una mattina che Zia Elvira, la bidella factotum, non dovesse accompagnare a casa qualche alunno che non era riuscito a superare la visita. La cura del maestro per la scolaresca non finiva qui, ma continuava anche una volta che ci eravamo accomodati nei banchi, con continui richiami ad assumere una posizione corretta ed evitare, così,  problemi futuri alla colonna vertebrale.

Ad una certa ora la buona Zia Elvira bussava alla porta della classe. All’avanti! del professore – e solo allora – essa schiudeva appena la porta. La sua curatissima testa bianca e la sua benevola faccia facevano capolino per un annuncio che le riuscì di fare compiutamente solo la prima volta, poi mai più, perché appena la porta si schiudeva, un profumo, quasi materializzandosi, ci faceva vedere, come per un fenomeno di fata Morgana, l’enorme paiolo in cui la brava donna cuoceva,  tutte le volte che poteva, una grande quantità di farina di piselli.

Le ciotole di alluminio (camellini) sembravano avviarsi da sole e quasi per levitazione, in direzione del mestolone che si tuffava incessantemente nella verde massa colloidale, distribuendo razioni che avevano la proprietà di risultare sempre insufficienti, nonostante la generosità della bidella, che, di ciascuno di noi, conosceva necessità, bisogni e condizione.

I numeri civici dal 126 al 118 di Via Coroglio ospitavano nell’ ordine: un salone di barbiere gestito da Toscano Giuseppe ( detto Peppe ‘o barbier(e), marito di Carmela ); un bar condotto da Vincenzo Nosso, dalla moglie e da una delle figlie: Rita; un locale con annesso piccolo retrobottega,  che dava nella parte posteriore del complesso,  occupato dalla famiglia di Luigi Rigillo – relativamente modesto agli inizi e successivamente trasformato in un elegante esercizio di salumeria, il cui retrobottega dava nella parte posteriore della Villa De Angelis; un terraneo di due vani abitato dalla famiglia  di Gaetano Bennato;[16] un esercizio di macelleria gestito da Antonio Porpora a dalla moglie Olimpia.[17] Il vecchio Gaetano  esercitava, nella propria abitazione (civico 120), il mestiere di calzolaio e,  solo quando le condizioni atmosferiche lo permettevano,   portava fuori il suo caratteristico banchetto e le scarpe da risuolare.  Gaetano aveva in moglie una donna di nome Anna, conosciuta come Nannina ‘a scarpara (Anna la calzolaia, ovviamente per l’attività del marito, come notato in altri casi). Nannina era una vera montagna di carne semovente, al cui paragone il povero Gaetano era poco più che un ciondolo. Al suo confronto, Palmiro, vittima della virago  Ciuccia ‘e fuoco , era un personaggio da epopea! Le angherie patite dal povero ciabattino lo avranno sicuramente purgato di ogni eventuale peccato commesso, anche mortale,  ammesso, però, che ne avesse. Poiché, infatti, come la lavastoviglie, era completamente sconosciuto anche il frigorifero come elettrodomestico di uso comune, e poiché era prassi normale (almeno per le famiglie meno abbienti) non destinare immediatamente a rifiuto gli eventuali avanzi del pranzo o della cena, questi ultimi venivano messi da parte in un posto della casa ritenuto il più ventilato o il più fresco. Solitamente tali avanzi venivano  messi in un piatto e lasciati su un marmo in cucina, nei pressi di un finestrino munito di rete, o,  in mancanza di tale rete protettiva, sul davanzale, coprendo  il piatto con un retino. Il compito della conservazione era affidato esclusivamente al filo d’aria che  filtrava dal finestrino nonché al normale e noto abbassamento della temperatura durante le ore notturne. Nei periodi estivi, però, questo primitivo sistema di conservazione non offriva alcuna garanzia, perché a motivo del caldo,  i cibi cotti  irrancidivano nel giro di poche ore ed erano  esposti  inoltre  ai voraci assalti degli scarafaggi, che, di notte, erano i padroni incontrastati di molti spazi. Ebbene, tra i soprusi subiti da quel povero martire di Gaetano e noti solo per il fatto che l’ultimo episodio fu reso di pubblico dominio dallo stesso interessato, c’era stata anche l’imposizione da parte della moglie di consumare avanzi conservati nel modo suddetto e da cui poco prima erano stati scacciati i neri e repellenti ospiti di cui s’è detto! Il rifiuto di Gaetano  di assecondare la richiesta della moglie aveva dato origine all’ ennesimo litigio tra i due, ed il ciabattino, per trovare il coraggio di opporre un rifiuto all’imposizione della moglie,  non aveva trovato di meglio che portarsi sull’uscio e chiamare in aiuto e come testimoni i vicini ed i passanti, che, poi, erano tutte persone conosciute. E così si venne a conoscenza della raccapricciante richiesta fatta  dalla moglie al pover’uomo. L’aver messo in piazza un fatto che avrebbe dovuto essere gelosamente taciuto ,  probabilmente, dovette costare molto caro al povero ciabattino , perché non fu più visto col suo banchetto sul marciapiede.

Subito dopo la casa del ciabattino, c’era l’esercizio di macelleria di Antonio Porpora e della moglie Olimpia, che segnava la fine della  proprietà De Angelis. Tra questa ed il Viale Bagno Limpido, correva quello che avrebbe potuto definirsi un vialetto, ma che si presentava come un lungo corridoio disadorno e spoglio che dalla strada si dirigeva verso l’arenile,  dove, però, non arrivava per alcune interruzioni lungo il percorso. Nella parte iniziale di tale vialetto, sul marciapiede che correva lungo la strada, era collocata una di quelle tante fontane che, all’epoca, si incontravano in diversi punti  sia dei paesi che delle città . Terminava, questa fontana,  a testa di leone, con il cannello erogatore che veniva fuori dalla bocca ed il pomello di apertura e chiusura del getto d’acqua situato al posto dell’orecchio sinistro. La fontana [successivamente spostata sul marciapiede di fronte al civico 104 occupato da Nanninella ‘a fruttaiola -Nanninella la fruttivendola (vedova Guitto) – famosa per le sue grattate, ovvero granite di ghiaccio aromatizzato alla menta,  all’amarena od altra essenza] erogava un’ acqua così gelida che in estate se ne andavano a riempire bottiglie, brocche e secchi, sia per farne l’uso più comune che per mettere in fresco bevande o frutta.

Oltre tale fontana, al civico 116, c’era l’ingresso del Viale Bagno Limpido, al 108 quello di Villa Mazzarella e al 106 quello di Villa Schioppa, che terminava con il terraneo occupato dalla citata Nanninella.

Dopo il terraneo occupato dalla fruttivendola e su entrambi i lati della strada,  alberata per tutta la sua lunghezza fino a Bagnoli, c’era la zona occupata dallo stabilimento della Montecatini.

Il Viale Bagno Limpido prendeva il nome dall’omonimo stabilimento balneare, di proprietà di Ernesto Montagnaro detto ‘o capitan (il capitano).[18] Il piano di calpestio era in pozzolana battuta (terra di cui è ricchissima la nostra zona), ornato di robinie dall’acutissimo e penetrante profumo, di immancabili glicini e da un cespuglio di bosso, proprio ai fianchi della corta scala che immetteva nell’abitazione di Gennarino ‘o cantinier(e), cioè Gennaro il vinaio, al secolo Gennaro Toscano, dividendo questa dall’abitazione della famiglia di Ciro Assardo.

Il resto del viale comprendeva un edificio di quattro piani (di cui, uno seminterrato) per complessivi otto appartamenti (più tardi, in seguito ad una sopraelevazione, a dieci);  da un altro edificio composto da un locale completamente al di sotto del piano stradale, da un piano rialzato ed altri due piani fuori terra, per un totale di quattro appartamenti. Alla fine del viale ed alla sinistra del grosso capannone di legno che costituiva la sala d’ingresso dello stabilimento balneare , si ergeva un fabbricato di tre piani fuori terra ed uno interrato, per complessivi otto appartamenti, conosciuto come il palazzo della Signora Esterina. (Foto n. 8).

L’ipogeo del palazzo centrale era occupato da una famiglia di origine genovese (padre, madre, due figli maschi ed una figlia femmina). Data la posizione, la casa riceveva un fugace bacio dal sole mattutino attraverso una piccola finestra (da noi chiamata la finestrella) che si apriva proprio sul viale a livello stradale. (Questo bacio del sole era possibile perché, all’epoca cui si riferiscono le memorie, non era stato ancora innalzato,  proprio di fronte, il palazzo di proprietà Vittoria Manna/Pasquale Cataldo).

A tre metri sotto si poteva osservare la disposizione dei letti e dei pochi mobili che costituivano l’arredamento dell’ abitazione: veduta che la famiglia non poteva occultare neanche con una tendina,  per non orbare quella fossa di quel fuggevole raggio di sole che la illuminava anche se solo per qualche ora.

Ricordo ancora con un sentimento di pena il senso di disagio che trapelava da quella famiglia molto riservata, l’ aspetto malaticcio loro conferito dal classico colorito biancastro dovuto alla lontananza dalla luce del sole. Sembravano quasi stranieri fra noi, sempre scuri di carnagione per i continui bagni di sole che, senza averne piena scienza, ci facevamo anche quando eravamo seduti attorno alla tavola per il pranzo domenicale, il cui inizio,  come da prassi, era fissato intorno alle ore tredici. Con analogo senso di pena ricordo la mortificazione di costoro allorché il postino aveva occasione di consegnar loro qualche lettera, per ritirare la quale, attraverso la finestra di cui s’è detto, si rivelavano poco utili sia l’uso di uno sgabello da parte dei primi che l’ accovacciarsi  sui talloni da parte del portalettere. A proposito di questo ultimo,  sono convinto che fosse l’unica persona a conoscere per nome e cognome  gli abitanti del paese , perché quasi tutti erano conosciuti o col patronimico o con un soprannome. Ancora oggi, persone a fianco delle quali si è trascorsa buona parte della vita non sono evocabili se non usando uno di questi soprannomi, il casato vero essendo rimasto ignoto.

Ma ritorniamo al luogo che ha motivato la nascita di queste pagine. Esso, negli anni a cui rimandano i ricordi,  si presentava ancora  come un angolo di quelle isole del Pacifico che si vedono nei documentari o sulle locandine delle agenzie di viaggio. Una lunga striscia di sabbia che si allungava senza interruzione dai piedi della collina di Posillipo fino a La Pietra. Di fronte all’arenile, uno specchio d’acqua perennemente pulito con sconfinate ed ondeggianti foreste di posidonie ancorate al fondale sabbioso.

Calato in queste acque e posizionato come se vi fosse stato collocato da gigantesche mani, l’isolotto di Nisida, quasi parallelo alla spiaggia, mentre dalla spiaggia sono visibili, a sinistra, l’isola di Capri; di fronte, oltre Nisida, leggermente spostate a destra, la bassa isola di Procida e le tre punte dell’Epomeo dell’isola d’Ischia.

Lo spazio compreso tra la spiaggia e la parte interna del paese, era un trionfo di colori e profumi. Imperavano incontrastati i glicini e le robinie. Non mancavano, però,  altissime palme dai dolci datteri, cespugli di rose rampicanti, eucalipti,  ippocastani ed oleandri. Non v’era casa a livello stradale che non cercasse di crearsi le proprie aiuole, mentre per chi abitava ai piani superiori c’era una vera e propria invasione di ogni sorta di vasi e non v’era davanzale che non  fosse ravvivato ed ingentilito dai colori dei garofani, delle rose, dei gerani e delle margherite, che davano l’ impressione  che venissero addobbati ogni giorno per la processione del Corpus Domini.

Al limitare della strada, poi, vi era della terra così ferace che le piante che vi crescevano formavano intricatissime ed  impenetrabili barriere. Fittissimi canneti, aggrovigliati e spinosi cespugli di more, piante rampicanti conferivano al luogo un aspetto da foresta tropicale. Meli, noci, fichi, meli-cotogni,  piante di grano, di avena, viti … Era una gioia per gli occhi. Anche gli altri luoghi del paese non avevano motivo di lamentarsi per come erano stati trattati dalla natura. I fianchi della collina erano dolcemente arcuati, con faraglioni e grotte provviste anche di piccole spiagge, che offrivano ai corpi bruciati dal sole frescura, riposo e, soprattutto, quiete. Ai lati opposti di Nisida vi sono altri due faraglioni: uno posto pressappoco in direzione sud-sudest (l’Arma di Re) e l’altro più o meno in direzione di nord-ovest (il Faraglione di Ponente). Quest’ultimo, staccato dall’isolotto, forma uno stretto canale molto simile ad un fiordo, relativamente ricco,   all’ epoca, di aragoste e crostacei. Sotto lo scoglio del Lazzaretto (ex Chiuppino) si allungava una grotta naturale (oggi ostruita in parte da un masso staccatosi dalla sommità), la Grotta degli Sposi, che, chissà per quale motivo, esercitava un fascino irresistibile sui bagnanti, tanto che nessuno di essi voleva perdersi una barchiata (ossia un’ escursione in barca) al suo interno. La grotta si apriva con un ingresso abbastanza ampio e molto illuminato, ma, ad appena qualche metro dopo l’ingresso, si restringeva e all’intenso bagliore iniziale succedeva un buio così fitto ( sicuramente per il fatto di provenire da una zona intensamente illuminata) che faceva momentaneamente perdere l’orientamento. Sicché chi non fosse preparato al fenomeno finiva per cozzare inevitabilmente con la prua dello scafo contro le ruvide e fredde pareti  della grotta. Ci capitava spesso,  stando al fondo dell’antro, di udire di tanto in tanto il caratteristico tonfo di una barca che aveva urtato la parete tufacea della grotta,  grida terrorizzate di ragazze e parole di rassicurazione da parte di chi si trovava momentaneamente ai remi tendenti  ad allentare l’atmosfera di paura.

Non v’erano dubbi per noi. Sapevamo, pur stando nel buio più pesto ! Si trattava di barche che, guidate da mani inesperte, si erano avventurate nel nero budello e non riuscivano più a governare. La grotta, infatti, era talmente stretta che non vi si poteva remare nemmeno con i remi parzialmente dispiegati. Essa, inoltre, subito dopo l’ ingannevole ingresso, largo e luminoso (anche per una grande quantità di luce proveniente dall’alto attraverso una grande apertura), restringendosi bruscamente e diventando improvvisamente buia, rendeva inevitabile il cozzo. Tra l’altro – cosa non per tutti – era possibile remare solo tenendo i remi perpendicolarmente agli scalmi ed imprimendo loro un movimento rotatorio con un non indifferente e continuo gioco dei soli polsi. Così noi, novelli Caronti, dal più profondo della grotta, al sentire quei caratteristici tonfi e quelle grida di spavento, facevamo sentire  la nostra presenza, rassicurando i malcapitati e raccomandando loro, per prima cosa, di non tentare alcunché, di rimanere, anzi, fermi il più possibile, che di lì a poco sarebbero stati tolti dall’ imbarazzo. Facevamo, quindi,  scorrere i remi lungo i fianchi della montagna con movimento ritmico e dolce e portavamo soccorso alle persone in difficoltà.  Non era raro che, superato il panico e rincuorati dalla nostra sicurezza, costoro ci chiedessero di  accompagnarli fino alla fine della grotta. Ciò costituiva occasione per l’instaurarsi di nuove conoscenze, che potevano  trasformarsi in amicizie, che a volte duravano anche a lungo, oltrepassando l’effimero arco dell’estate e trasformandosi spesso in un rapporto più coinvolgente.

In effetti, lo scopo principale di noi giovani era proprio questo: trarre il massimo profitto dalle nostre conoscenze di luoghi e situazioni, strabiliando i villeggianti con spericolati tuffi e prolungatissime scomparse sott’acqua, in apnea,  che, in verità, a motivo del costante allenamento, ci costavano poca fatica, oppure riemergere, dopo una di tali apnee, con in mano una resta di cozze o con delle tufarelle o gasteropodi simili: operazione, anche questa, richiedente poco impegno, data la ricchezza sia dei fondali che dei fianchi di Nisida o di Posillipo. La rete era stata gettata ed era in attesa di catturare prede. Devo dire, però, che la cattura offriva dei vantaggi anche a queste ultime, perché garantiva loro vacanze quasi gratuite, comprendenti escursioni in barca, battute di pesca, consumazione all’aperto di cozze,  patelle, ricci di mare, che, diversamente, avrebbero potuto gustare solo a pagamento.

 

[1] L’opera fu realizzata dall’architetto Lucio Cocceio Aucto per volere di Marco Vipsanio Agrippa, per collegare le ville patrizie di Pausylipon – tra cui quella di Publio Vedio Pollione –  ai porti di Pozzuoli e di Cuma e fatto successivamente risistemare nel I sec. d. C.  dal prefetto di Tiberio,  Lucio Elio Seiano, da cui ha preso il nome.

La grotta fu visitata anche dal romanziere americano Herman Melville,  il quale,  nella primavera del 1857,  di ritorno da un viaggio di piacere in Palestina,  si fermò per una settimana a Napoli. In quell’occasione ebbe a dire che non riusciva a trovare alcuna differenza tra Boston e la nostra città.

[ L. Elio Seiano (Volsinio 20 a. C. – Roma 31 d. C.). Politico romano; fu Prefetto del Pretorio (14 d. C.). Assicuratasi la stima di Tiberio ed i mezzi per affermare la propria supremazia, perseguì il disegno di succedere all’imperatore come tutore del nipote Tiberio Gemello. Ottenne il Consolato (31) e la potestà proconsolare, ma provocò la reazione dell’aristocrazia e dello stesso Tiberio. Fu infine arrestato e ucciso.

Lucio Cocceio Aucto – Ingegnere e architetto romano dell’epoca di Augusto. Fu incaricato da Vipsanio Agrippa di importanti lavori nel territorio di Pozzuoli.E’ opera sua la galleria di circa un chilometro (la cosiddetta Grotta della Pace) che collega Cuma con il Lago d’Averno.(Strabone, V-245). Gli è anche attribuita (ma è controversa l’interpretazione del passo di Strabone  che ne parla) la galleria che unisce Napoli con Pozzuoli, lunga 689 metri, la cosiddetta Crypta Neapolitana o Grotta Vecchia di Posillipo). Un’iscrizione di Pozzuoli (Corp.Inscr. Lat. X, 1614) ne riferisce il nome al completo  :  L. Cocceius L. C. Postumi l. Auctus arcitect(us)]

 

[2]  In questo fabbricato abitavano le famiglie Ferraro, Giacco, Capuano ed  Attanasio. A quest’ultima famiglia apparteneva il tenore Domenico,  nato il 23 ottobre 1928. L’Attanasio iniziò la propria carriera di cantante lirico   debuttando al Teatro  San Carlo di Napoli nell’opera di Paisiello Nina pazza per amore.  Ben presto,  però,   abbandonò la lirica per dedicarsi alla musica leggera,  passando alla RAI. Cantò sotto la direzione dei maestri Giuseppe Anepeta,  Armando Fragna e Luigi Vinci. Nel 1952 partecipò alla prima edizione del Festival di Napoli con la canzone Varca lucente,   in coppia con Oscar Carboni,  piazzandosi al secondo posto.

 

[3] Tra il fabbricato ove era ubicata l’abitazione di Attanasio e l’attuale complesso di case  popolari costruito dalla Montecatini per i propri dipendenti, ai piedi della collina di Posillipo si estendeva un  enorme campo conosciuto come “la Zona”. Qui, tra l’estate e l’autunno del 1943, a seguito dello sbarco dei marines americani sulla spiaggia di Coroglio, si stabilì il comando delle truppe tedesche. Successivamente, tra gli anni ’50 e ’50, fu adibito a campo di base ball dalle truppe del Sud Europa (AFSE).

 

[4] Zarlara (merciaia)  :  arabismo. Il tema “zar” lo si ritrova come desinenza nella voce arabo-persiana “ba / zar “ proprio nel significato di “mercato”, ”emporio”. La merceria era condotta da un’anziana donna, Concetta, madre di Rosa Rigillo. Alla conduzione dell’esercizio collaborava attivamente la nuora , Emilia Caruso, moglie di Antonio Rigillo, titolare di un’impresa di lavori edili.

 

[5] Barbarella aveva due figli : Giovanni, detto Pier ‘e paper(a), cioè Piedi di papera, per il suo caratteristico modo di camminare, occupato presso il locale stabilimento dell’ILVA e Luigi, capo bagnino al Lido Flora.

 

[6] Dal 1924 al 1966 si succedettero nella carica di Arcivescovo di Napoli:Alessio Ascalesi (1924-1952), Marcello Mimmi(1952-1957), Alfonso Castaldo(1958-1966)

[7] Vito Fornari (Molfetta 10 marzo 1821 – Napoli 6 marzo 1900). Presbitero, scrittore, filosofo e teologo. Collaborò col grammatico e lessicografo Basilio Puoti e dal 1860 diresse la Biblioteca Nazionale di Napoli. (da Wikipedia)

 

[8] I capannoni dello stabilimento MONTECATINI adibiti a dopolavoro, di cui abbiamo tralasciato la descrizione per spiegare i motivi per cui essi non venivano sfruttati appieno dai dipendenti, erano pressoché inutilizzati. Così essi venivano usati quasi esclusivamente dai figli di uno dei guardiani (Tartaglia) per partite di ramino o tornei di ping – pong.

 

[9]

In verità, per un certo tempo, anche l’ETERNIT riversò rifiuti nella discarica usata dall’ILVA. Ma tali rifiuti non erano per niente ricercati, in quanto privi di ogni valore commerciale. Da qui noi ragazzi, ignari completamente della pericolosità rappresentata dalla elevata percentuale di amianto in essi contenuta, ci approvvigionavamo per rifornirci della materia prima per le nostre corse con i cerchi.

 

 

[10]

Quando, nella descrizione di punti del paese o di situazioni, uso l’indicativo presente, significa che la situazione è invariata  a tutt’oggi. L’uso dell’imperfetto o del passato remoto sta ad indicare che dell’oggetto di cui si sta parlando non esiste più traccia.

 

 

[11] Delle molte famiglie che vivevano nei due  complessi, riesco solo a ricordarne, al momento, cinque : Cammarota Luigi, Perrella, Capuano,  Cozzuto e Durante.

 

[12] I vari capimastri dei sei stabilimenti balneari erano :  Ciro e Ciccio, per il Bagno Limpido; don Salvatore, per il Lido delle Sirene; Luigi, per il Lido Flora; Eduardo, per il Lido Coroglio; Vincenzo Mola, per il Lido Conca e Sciasciò, per il Lido Pola.

 

[13]

La merceria era condotta dalla vecchia Carmela e dalla figlia Flora, collaborata occasionalmente (ma molto raramente) dall’altra figlia Ida ( poi emigrata negli USA insieme al marito, già occupato come guardiano presso l’ILVA ).

 

[14]

Qui, allorquando per favorire la costruzione del cementificio fu abbattuto il fabbricato ove  risiedeva, si trasferì la famiglia Ciccone : signora Giorgina, madre, figlie Rosaria e  Anna. Nel frattempo, infatti, era venuto a mancare il capofamiglia Angelo, e la prima figlia Maria era convolata a nozze con Angelo Rizzi. L’appartamento occupato era quello sovrastante il salone di Giuseppe Toscano ed il bar di Vincenzo Nosso.

 

 

[15]   Villanova era la cosiddetta “porta di Posillipo” ,  collegava quest’ultimo con Via Manzoni. Altre frazioni di Posillipo erano :  Casale, Santo Strato e Marechiaro. A Villanova si ergeva il  “Mausoleo Schilizzi”. Matteo Schilizzi era un banchiere livornese trasferitosi a Napoli per motivi climatici. Commissionò il progetto e la costruzione del mausoleo all’architetto Alfonso Guerra. Nel mausoleo, importante esempio di architettura neo – egizia, costruito tra il 1881 ed il 1889, lo Schilizzi intendeva collocare le tombe dei propri cari. Oggi il mausoleo raccoglie le tombe dei caduti della 2/a Guerra Mondiale e delle Quattro Giornate, qui traslate nel 1929 dal Cimitero di Poggioreale . NOTA = L’architettura del mausoleo era in stile neo-egizio e le spese per la sua realizzazione saranno state veramente faraoniche, visto che, la locuzione “ma credi che abbia il portafoglio di Schilizzi?” voleva indicare che si stava chiedendo una somma ad una persona dalle limitate possibilità economiche, che non aveva, quindi, il portafoglio di Schilizzi.

 

[16] La famiglia Bennato Gaetano era così composta; Nannina ‘a scarpara, figlio Giovanni e figlia. L’abitazione, ai primi degli anni Cinquanta,  diverrà  il nuovo panificio di Gilda e Concettina Morabito, qui spostatosi a seguito dell’abbattimento dello stabile in cui era ubicato il vecchio forno per far posto all’insediamento industriale della CEMENTIR. La  Morabito Concetta, vedova Ciccone,  aveva tre figli : due femmine(Antonietta e Lina) ed un maschio (Antonio).

[17] Nell’esercizio lasciato dalla famiglia Porpora si insedierà una rivendita di generi di monopolio, gestita da Olga Attardi (figlia di Biagio e sorella di Iole), maritata Scimone (Maresciallo dell’Aeronautica Militare), che aveva tre figli : due femmine : Maria Rosa ed  Elena ed un maschio : Paolino

 

[18] Alla fine degli anni Cinquanta, anche questo stabilimento verrà modificato e rifatto interamente in muratura.

 

Lucio Castrese Schiano

 

 

 

 

 

 

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.