I luoghi della memoria:i giochi estivi (sesta parte)
Dei molti giochi da noi abitualmente praticati nella stagione primaverile e dei “giocattoli” da noi costruiti per poterli eseguire, ne abbiamo descritto appena tre : gli archi, le fionde e le pistole Il che potrebbe suonare abbastanza strano perché, essendo la primavera la più dolce e bella stagione dell’anno; la stagione che offre le migliori condizioni atmosferiche, che permettono di stare più tempo all’aperto, la scarsità dei giochi messi in essere potrebbe sembrare un non senso.
Non si deve perdere di vista, però, che lo scopo dichiarato di queste righe non è quello di scrivere un trattato sui giochi di una certa epoca, quanto quello di dimostrare che anche attraverso il gioco o i giochi è possibile ritrovare qualche sentiero che consente di risalire alle proprie origini e alla propria identità; ragion per cui, dei tanti giochi di cui forniremo l’elenco, ne descriveremo solo pochi altri, e, di questi, solo quelli che, dal punto di vista del recupero della memoria e delle coordinate spazio – temporali, risultano più rispondenti allo scopo.
Fatta questa precisazione, passiamo a descrivere due giochi ai quali dedicavamo le nostre cure e il nostro tempo nella stagione estiva : le piste e gli aquiloni. In estate, infatti, nessuno di noi, con uno sterminato arenile a disposizione, riusciva a resistere al fascino esercitato dal gioco della pista. Eravamo tutti abbastanza bravi a costruirle anche perché la sabbia di cui potevamo disporre, molto ricca di ferro (e, forse, proprio per questo) aveva la particolarità di mantenersi compatta anche per molti giorni. La tenuta non riguardava costruzioni o forme in blocco unico, altrimenti non ci sarebbe stato motivo di meravigliarsi. Lo stupore era legato al fatto che queste piste, al loro interno e lungo tutto il tracciato, presentavano diversi elementi cavi : tunnel, ponti, cavalcavia, e queste strutture si mantenevano per giorni come se all’interno fossero stati inseriti dei tondini di ferro. Come ho detto, eravamo tutti relativamente bravi a costruire queste piste. Ma tra noi ragazzi ce n’era uno, grandissimo costruttore anche di stupendi aquiloni, di una bravura estrema. Le piste che riusciva a modellare erano delle vere opere di architettura e di ingegneria contemporaneamente, davanti alle quali, in estasiata ammirazione, si fermavano tutte le persone che si trovavano a transitare nei paraggi.
Ma cos’erano queste piste ? Una riproduzione in miniatura del Giro d’Italia, con rettilinei, montagne, curve, tornanti, cavalcavia, ecc. Si disegnava a terra il punto di partenza ed ognuno dei giocatori (senza limitazione di numero) collocava sulla linea di partenza la propria pallina (che rappresentava qualche ciclista impegnato nel Giro d’ Italia). La pallina veniva fatta procedere con dei pizzicotti successivi. Chi riusciva a stare davanti a tutti aveva sempre la precedenza nel tiro. Il gioco terminava quando tutti i concorrenti raggiungevano il traguardo. Sono costretto, a rischio di risultare tedioso, a dire che anche le palline per questo gioco ce le costruivamo da noi utilizzando la pietra pomice portata a riva dalle correnti marine. La pietra, amorfa, spigolosa e molto più grande dell’oggetto finale che da essa ci apprestavamo a ricavare, veniva dapprima ridotta di dimensioni, poi si cominciava a sgrossarla bagnandola in continuazione e strofinandola energicamente sugli scogli. Quando le dimensioni si erano ridotte avvicinandosi più o meno a quelle della pallina che intendevamo costruirci, la pomice continuava ad essere bagnata nell’acqua e strofinata sugli scogli col palmo della mano che le imprimeva un movimento rotatorio. Assunta quasi una forma sferica, la grossolana pallina veniva fatta girare in una pomice più compatta dove veniva levigata per bene ed assumeva una sfericità perfetta. La pietra nella quale era stata rotolata la pallina assumeva, alla fine dell’operazione, la forma di una semisfera cava, e, allargandone ulteriormente la parte cava, era bello e pronto un posacenere.
Quando non c’era tempo per dedicarsi alla costruzione di questo tipo di piste, ne disegnavamo di meno complicate trascinando per i piedi uno dei partecipanti che si era semplicemente seduto sulla sabbia oppure col gesso disegnavamo per terra dei percorsi analoghi, privi – come si capirà benissimo – di ponti, montagne o tunnel, ed al posto delle palline usavamo i tappi delle bibi
L’AQUILONE
Quando l’estate volgeva al termine e la spiaggia era meno ingombra di ombrelloni, di sedie a sdraio, tavolini e bagnanti, tacitamente era giunto il momento di dedicarci al lancio degli aquiloni. In meno che non si dica si poteva vedere il cielo punteggiato da una moltitudine di sagome policrome che su in alto compivano bizzarri volteggi. Erano gli aquiloni che, senza nessuna reciproca trasmissione verbale, ognuno di noi si era preparato, perché il vento più teso permetteva non solo di farli decollare senza problemi ma anche di mandarli tanto in alto da perderli di vista e, molto spesso, di non riuscire più a recuperare.
Oggi che qualunque giocattolo si può ottenere semplicemente desiderandolo ed entrando in un negozio a comprarlo, è difficile far capire l’impegno che ogni gioco, anche quello apparentemente meno difficoltoso, richiedeva a noi piccoli artigiani improvvisati, e la soddisfazione finale che provavamo considerando che i materiali a nostra disposizione erano tecnologicamente inferiori a quelli odierni, ma ciononostante, con la tenacia, la bravura e la volontà, riuscivamo a costruirci giocattoli anche pregevoli.
Cominciamo dai materiali occorrenti per costruirci gli aquiloni. Il primo era rappresentato da semplici fogli di carta velina, non essendo disponibili policromi, resistenti e leggerissimi sacchetti o fogli di plastica che, all’epoca, sarebbero stati considerati semplicemente meravigliosi per la loro versatilità. La nostra materia prima era una carta così delicata che se solo una goccia d’acqua o di sudore vi fosse caduta sopra, quel punto si era indebolito irreparabilmente. Questa carta, una volta sagomata secondo la fantasia di chi stava costruendo l’aquilone, doveva avere una specie di scheletro di sostegno, affinché potesse decollare, librarsi e svolazzare in alto. Per costruire quest’ossatura, bisognava recarsi in un canneto, scegliere una canna, ricavarne due strisce di adeguate dimensioni, eliminare le asperità dei noduli per evitare che queste potessero bucare o tagliare la carta; piegare una di tali striscioline ad arco mediante un filo di cotone fissarla alla sagoma di carta e incollare la seconda strisciolina all’aquilone perpendicolarmente alla striscia a forma di arco … Per questa operazione, però, non avevamo a disposizione alcun rotolino di scotch, da poter utilizzare con un semplice strappo, ma – nella migliore delle ipotesi – strisce di carta gommata, di cui bisognava inumidirne (o leccarne !) di volta in volta lo stomachevole lato gommato; oppure ci dovevamo preparare la classica colla di farina. Tutto, però, doveva essere ben dosato. Un eccesso di farina, infatti, poteva bagnare eccessivamente la carta e quindi indebolire il punto che, invece, doveva tenere fermo, compromettendo, così, tutto il lavoro, oppure poteva appesantire l’aquilone e renderne problematico il decollo. Inoltre, ammesso che tutto fosse andato bene, bisognava aspettare che la colla di farina si asciugasse prima di poter assistere ai volteggi! … Tutto questo lavoro per costruirsi un semplice aquilone!
L’AUTUNNO
Quando talvolta capitava che un autunno si annunziasse prematuramente con lunghe perturbazioni verso la fine di agosto, il verificarsi di tale circostanza costituiva quasi il segnale per dar corso ad uno dei tanti giochi con cui riempivamo le nostre giornate. In men che non si dica si poteva vedere il cielo punteggiato da una moltitudine di sagome policrome che compivano bizzarri volteggi lassù in alto. Erano gli aquiloni che, senza nessuna reciproca trasmissione verbale, ogni ragazzo si era preparato perché il vento più teso permetteva sia di farli decollare senza problemi che di mandarli tanto in alto da perderli di vista e, molto spesso, di non riuscire più a recuperarli.
Oggi che qualunque giocattolo si può ottenere semplicemente desiderandolo ed entrando in un negozio a comprarlo, è difficile far capire l’impegno che ogni gioco, anche quello apparentemente meno difficoltoso, richiedeva a noi piccoli artigiani improvvisati, nonché la soddisfazione finale che provavamo considerando che i materiali usati erano tecnologicamente inferiori a quelli odierni, ma ciononostante, con la tenacia, la bravura e la volontà, riuscivamo a costruirci giocattoli anche pregevoli.
Cominciamo dalla materia prima che usavamo per costruirci gli aquiloni. La prima è rappresentata da semplici fogli di carta velina, non essendo disponibili policromi, resistenti e leggerissimi sacchetti o fogli di plastica che, all’epoca, sarebbero stati considerati semplicemente meravigliosi per la loro versatilità. La nostra materia prima era una carta così delicata che se solo una goccia d’acqua o di sudore vi fosse caduta sopra, quel punto si era indebolito irreparabilmente. Questa carta, una volta sagomata secondo la fantasia di chi stava costruendo l’aquilone, doveva avere una specie di scheletro di sostegno, affinché potesse decollare, librarsi e svolazzare in alto. Per costruire quest’ossatura, bisognava recarsi in un canneto, scegliere una canna, ricavarne due strisce di adeguate dimensioni, eliminare le asperità dei noduli per evitare che queste potessero bucare o tagliare la carta; piegare una di tali striscioline ad arco mediante un filo di cotone fissarla alla sagoma di carta e incollare la seconda strisciolina all’aquilone perpendicolarmente alla striscia a forma di arco … Per questa operazione, però, non avevamo a disposizione alcun rotolino di scotch, da poter utilizzare con un semplice strappo, ma – nella migliore delle ipotesi – strisce di carta gommata, di cui bisognava inumidirne (o leccarne !) di volta in volta lo stomachevole lato gommato; oppure ci dovevamo preparare la classica colla di farina. Tutto, però, doveva essere ben dosato, perché un eccesso di farina poteva spugnare la carta e quindi compromettere tutto il lavoro, oppure poteva appesantire la sagoma e renderne problematico il decollo. Inoltre, ammesso che tutto fosse andato bene, bisognava aspettare che la colla di farina si asciugasse prima di poter far alzare l’aquilone!… Tutto questo lavoro per costruirsi un semplice aquilone!
Al sopraggiungere dell’autunno la spiaggia presentava piccole dune di sabbia che mutavano forma e direzione ad ogni diverso spirare di vento, e, quando questo soffiava con più violenza, la sabbia si portava perfino sulla strada asfaltata.
Il paesaggio era triste senza le policromie degli ombrelloni e delle cabine e senza il brulichio di appena pochi giorni prima. Negli angoli più riparati dal vento si potevano notare gruppi di persone intente al passatempo preferito: il gioco delle carte, nelle sue varietà più azzardose. Nel giro di poche passate di carte, stipendi interi o il ricavato della pesca cambiavano di mano, e a sera non si disponeva neanche di qualche spicciolo per comprarsi un coppetto di caldarroste ed un mezzolitro di vino! Durante le lunghe serate invernali, infatti, la frequentazione della cantina rappresentava per alcuni un modo abbastanza economico per trascorrere le ultime ore della giornata prima di andare a letto, sorseggiando con estrema lentezza un mezzolitro di Terzigno o di Solopaca fornito dall’oste, mentre venivano sgranocchiate alcune manciate di caldarroste acquistate, proprio fuori la cantina, dalla Baresa, che, per tenerle calde il più a lungo possibile, le teneva avvolte in parecchi strati di sacchi o di coperte ripiegati su se stessi. La tristezza che sopraggiungeva con l’approssimarsi della stagione invernale, non era deprimente solo per motivi climatici ma anche perché, in considerazione della limitata estensione del paese, nessuno era invogliato a rischiare in un’ avventura come poteva essere, per esempio, quella di aprire una sala cinematografica, che, in effetti, mancava. Inoltre, le possibilità economiche erano talmente esigue che un tale locale sarebbe andato deserto anche se un imprenditore più temerario avesse osato rischiare. Per cui, se si voleva andare a cinema, bisognava recarsi all’inizio di Via Coroglio, nella vicinissima Bagnoli, dove l’unico problema era rappresentato dall’ imbarazzo della scelta (Cinema Ferropoli, Cabiria, Terme, Roma, Verdi). Così si cercava di trascorrere il tempo nei modi più diversi, che variavano a seconda dell’età.
Di uno di essi si è già accennato, parlando del gioco delle carte, gioco che si svolgeva prevalentemente all’aperto e che veniva interrotto solo in caso di pioggia. L’interruzione, però, avveniva non tanto perché i giocatori temessero di bagnarsi, quanto per evitare che si potessero inzuppare d’acqua le carte e non avere più la possibilità di continuare il gioco! Infatti, questo perdurava indifferentemente all’aperto anche quando i gelidi soffi della tramontana facevano irrigidire le dita al punto che le carte non potevano essere agevolmente tenute in mano.
Le altre attività di gruppo o gli altri giochi si adattavano alle caratteristiche della stagione, anzi, per essere più precisi, li avevamo fatti noi a misura della stagione e si protraevano dall’autunno alla primavera, dato che in estate, tranne che per qualche sporadica giocata con le piste di sabbia, si aveva ben altro da fare! Questo valeva indistintamente per tutti: per chi era completamente libero da impegni, sia scolastici che di lavoro, come per chi era occupato in attività stagionali, come il bagnino, il parcheggiatore o il barcaiolo.
Castrese L. Schiano