I Nunziante Duchi di Mignano
Il castello di Mignano era passato alla famiglia Nunziante nel 1845. Questa era di origini certamente non nobili. Un antenato, Vito Nunziante, durante la repressione della Repubblica Partenopea del 1799, foriero dell’esercito del Cardinale Ruffo, assunse arbitrariamente, come fecero molti altri, il titolo di colonnello. Questo titolo gli fu poi confermato, anzi il Nunziante progredì nella carriera militare, fino a diventare generale.
Uno dei suoi figli, Alessandro, sposò Maria Teresa Tuttavilla dei duchi di Calabritto, duchessa di Mignano, per cui il Nunziante maritali nomine assunse il titolo di duca di Mignano. A Teresa si deve l’interessamento presso il re per ottenere fondi al fine di riprendere la costruzione della chiesa Madre, lasciata interrotta per più di un secolo. Evidentemente i fondi non furono stanziati, perché ancora una volta ogni cosa rimase insoluta. Donna Teresa fece restaurare, nel 1849, la cappella del castello, in cui sono sepolti i cadaveri della famiglia. La cappella fu intitolata all’Immacolata Concezione e in quel giorno venne ospitato il papa Pio IX, rifugiato a Gaeta, che concesse l’indulgenza plenaria, rinnovabile ogni 10 anni l’8 dicembre. I Nunziante vissero sotto il regno di Francesco II. Fedelissimi e confidenti dei Borboni, ben presto però si misero contro il re e parteggiarono per la dinastia Sabauda. Alessandro Nunziante aveva più volte consigliato al re di non seguire la politica di suo padre, fuori tempo e fuori luogo, finchè alla fine rassegnò le dimissioni dal suo incarico militare. Rinviò al re tutti gli onori ricevuti, così come fece sua moglie per il posto di Dama di Corte, e si arruolò nell’esercilo italiano.
Inaugurato il ponte Ferdinando e la via Regina Maria Teresa
Sotto il governo di Ferdinando II, a Mignano fu costruito un ponte sopra rio Rava, che univa la via Casilina al paese. Dal ponte partiva una strada che attraversava tutto il centro. Prima della realizzazione del ponte, la popolazione era costretta a scendere nella vallata per una ripida scarpata ed attraversare un ponticello malconcio sul torrente, per poi arrampicarsi dall’altro lato della roccia e sbucare sulla Casilina. Certi giorni, d’inverno il torrente si ingrossava al punto che molte persone, reduci dalle campagne, erano costrette a fermarsi nell’osteria, che si trovava al di la della propria dimora. Il progetto fu studiato dall’ing. Luigi Manzella ed esaminato il 10 febbraio e il 3 marzo 1851 dal Decurionato, composto da Ferdinando di Stasio, sindaco; Giovan Battista La Ricca, Domenico di Palma, Leopoldo Salvalore, Lommaso Verdone, Giovan Battista Grieco, Andrea di Stasio, Nicandro di Luca, Filippo d’Ermo; decurioni. La spesa complessiva fu di diecimila ducati e l’inaugurazione avvenne il 15 ottobre 1853. Si scelse tale giorno perchè il ponte era intitolato al re Ferdinando (ponte Ferdinandeo) e la strada alla regina Maria Teresa. In suo onore si chiese di festeggiare nel giorno di santa Teresa. Forse la richiesta al re avvenne tramite il duca Alessandro Nunziante, perchè questi scrisse poi all’arciprete di Mignano, don Domenico Mastrostefano:
Napoli 19 settembre 1853 “essendosi S.M. il Re benignato di accordare a cotesto Comune di poter fare la inaugurazione del ponte e della strada nel dì 15 del prossimo seguente mese di ottobre, giorno onomastico di S.M. la Regina così io la prego di cooperarsi con tutti i principali abitanti di codesto Paese; affinchè la inaugurazione medesima si esegua con la massima solennità, invitando il Vescovo e il Sotto-intendente nel caso vi possano in tal dì intervenire, adornando di festoni tutto il corso della strada del ponte che verrà illuminato la sera, non che le principali case del paese. Essendo un tal dì di gran gala si deve, secondo il consueto, cantare il Te Deum, e quindi far la inaugurazione e benedizione con spari analoghi tanto nel giorno che nella sera. Son sicuro che per la sua parte contribuirà a tutt’uomo affinchè da cotesti abitanti si festeggi e si mostri la gratitudine al Nostro Augusto Sovrano per la clemenza avuta nel far arricchire cotesto Paese di opere tali da formarne la vera felicità a vantaggio commerciale. Vi saluto” obbl. Duca di Mignao (Lettera conservata da D. Salvatore)
L’inaugurazione costò al comune 59,80 ducati, la cui spesa era stata approvata con delibera del 20 marzo 1853.
I mignanesi aderiscono al regno costituzionale d’Italia
Anche i mignanesi riversarono la loro fiducia nella casa Savoia al momento dell’Unità d’Italia. Il 22 ottobre 1860 il Decurionato di Mignano, con a capo il sindaco Biagio Fuoco, deliberava la unanime adesione al Regno costituzionale d’Italia, sotto la guida del re Vittorio Emanuele II di Savoia, nella speranza che il glorioso monarca volesse non disdegnare le calde e sincere aspirazioni di esso decurionato e dei naturali del comune, chiedenti l’onore di esser proclamati suoi fedelissimi sudditi. Due anni dopo, l’amministrazione comunale, sotto la guida del sindaco Serafino Mancini, faceva atto di devozione al re. Il 7 febbraio 1860 era stata fondata la confraternita del SS. Rosario dal padre spirituale arciprete Domenico Mastrostefano, con il regio assenso di Francesco II ancora in carica. Nel 1864 fu finalmente costruito il cimitero civile. Infatti era dal 1838 che l’interno della chiesa Madre, in costruzione, veniva usato come cimitero. Nel 1865 infine, grazie all’interessamento dei duchi Nunziante, fu inaugurata, sul troncone ferroviario Cassino-Caserta, la stazione di Mignano. In questo modo il paese fu messo in diretta comunicazione con Roma e Napoli.
Il Brigantaggio
Subito dopo l’unità d’Italia, nell’alto casertano si formarono numerose bande di briganti. Grazie ad una severa omertà, alimentata dalla paura, il fenomeno si allargò a macchia d’olio e degenerò. I briganti della zona inoltre, dopo le loro scorrerie criminose, attraverso il passo montano di Mignano, varcando il confine, cercavano rifugio nello stato Pontificio, dove il Governo italiano non esercitava alcun potere. La protezione e gli aiuti ai briganti da parte del papato, cessarono solo quando i Borboni si allontanarono dall’Italia. La banda veniva chiamata massa ed era guidata da un Capomassa. Questi aveva potere assoluto e diritto di vita e morte sui suoi gregari. I briganti avevano nel paese persone fidate, i manutengoli, che non solo rifornivano le bande di viveri e armi, ma le tenevano informate di ogni mossa delle forze dell’ordine. Queste, dal canto loro, molto spesso erano legate ai briganti da obblighi morali o da parentela. La popolazione di Mignano viveva nel terrore di continue rappresaglie e taceva per salvare la propria vita. In Terra di Lavoro operavano sette bande che si spostavano, in continuazione, di notte, attraverso i sentieri montani nascosti alla vista. Le bande più forti e temute erano quelle di Domenico Fuoco che contava circa 80 uomini, di Alessandro Pace con 29 uomini, di Giacomo Cicone con 23, e Francesco Guerra con 34. Francesco Guerra nativo di Mignano, costituì la sua banda nel giugno 1862. Poichè aveva fatto parte delle bande anti-garibaldine fu perseguitato dalla guardia nazionale e si diede alla macchia. Anche Pace e Cicone erano di Mignano, nati nella frazione di Caspoli. Alessandro Pace, aveva militato nella fanteria borbonica, motivo per il quale fu arrestato. Assegnato al carcere di Santa Maria Capua Vetere, durante il tragitto, riuscì a fuggire. Essendo però giovanissimo ed inesperto, ritornò a casa. La sua abitazione fu subito circondata dalla Guardia Nazionale, con i fucili puntati e pronti al fuoco. Nel conflitto a fuoco che seguì, diversi parenti di Pace furono feriti. Lui, invece, riuscì a fuggire e costituì la sua banda. Anche Giacomo Cicone, capraio di 25 anni, aveva militato nell’esercito borbonico. Denunciato da un compaesano, Paolo Belmonte, fu arrestato. Rilasciato dopo poco tempo, Cicone mise in atto la vendetta: aiutato da Carmine Verdone, uccise il suo accusatore e poi si diede alla macchia, aggregandosi alla banda di Guerra. Nel 1863, poi, costituì la sua banda. La legge Pica, che prevedeva riduzioni di pena per i pentiti, e la Convenzione di Cassino del 24 febbraio 1865 che dava facoltà ai militari di intervenire contro i briganti anche nello Stato pontificio, non cambiarono la situazione. Le file del brigantaggio si ingrossavano sempre di più, i delitti aumentavano, e i militari sembravano impotenti di fronte alla forza di queste bande e all’omertà della gente. Nel cimitero civile di Mignano c’è la tomba di un ufficiale di fanteria, morto in uno scontro a fuoco con i briganti. Sulla tomba si legge: “A dì 5/12/1866 – Gustavo Pollone – giovane capitano nel 72° fanteria – con pochi soldati sul monte Coppa – sotto il fuoco di numerosi briganti – cadde e si uccise – a glorioso ricordo di lui – conforto dei parenti lontani – che piangono a pie delle Alpi – questa funerea pietra – gli ufficiali del reggimento consacrarono”. Secondo il racconto di un brigante superstite, fatto a Domenico Salvatore, autore del testo “Notizie storiche sulla terra di Mignano”, i fatti non si svolsero in quel modo. Il Pollone non si sarebbe ucciso, bensi sarebbe morto da eroe, colpito da un colpo di baionetta, sparato da un brigante. Nel 1868 fu nominato Comandante Generale dei Carabinieri, il Maggior Generale marchese Emilio Pallavicini. Da quel momento le cose cominciarono a cambiare. Egli pose il suo quartiere generale nel castello di Mignano. Assunte tutte le responsabilità, fece arrestare amici e parenti dei briganti e li minacciò di morte, se non avessero collaborato con la giustizia. Le stesse minacce fece ai politici e militari. Infiltrò suoi uomini all’interno delle bande e promise lauti compensi a chi contribuiva alla cattura di un brigante. I risultati si ebbero di li a qualche mese. La notte del 30 agosto arrivò al castello un uomo di Caspoli, Giovanni de Cesare, il quale riferì che a Fontana Cieca vicino Mignano, in un casolare di Vittore Camuso, vi era riunita quasi tutta la banda di Guerra e anche la druda Michelina de Cesare. I briganti erano andati li per ritirare viveri, forniti da un manutengolo di Mignano, un certo Benedetto di Palma. Immediatamente i soldati di Pallavicini accorsero e circondarono il casolare aprendo il fuoco. Fu una strage. Morirono fra gli altri, il Guerra, la sua druda e lo stesso Cicone, che era nel frattempo passato nella banda di Guerra, perchè la sua era stata già sgominata. Benedetto di Palma fu arrestato. Un anno dopo anche Pace, con alcuni gregari, fu arrestato. Rimase così solo Fuoco, con pochi uomini, di cui non si seppe più nulla. La leggenda popolare racconta che furono trucidati una notte da tre prigionieri. Questi, slegatisi, presero le armi dei briganti e li uccisero. Il 30 agosto 1869 la sezione di accusa della Corte d’Appello di Napoli iniziò il processo contro 75 briganti, fra cui 10 di Mignano. Con la conclusione del processo si chiuse anche l’epoca del brigantaggio.
I Nunziante infamati dal giornale “Il Ficcanaso”
Il primogenito di Alessandro Nunziante, Mariano, ereditò il castello e sposò nel 1867 Adele Antonelli di Milano, da cui ebbe Teresa Carolina. Due anni dopo le nozze, ormai già separato dalla moglie, il duca intentò una causa contro il giornale “Il Ficcanaso” per infamia. Nel marzo del 1869 trovandosi a passare per Firenze, il duca Nunziante era venuto a conoscenza di un articolo comparso il 13 di quel mese su quel giornale di Torino, in cui si raccontava la storia del matrimonio di suo figlio con Adele Antonelli. Nell’articolo il duca Nunziante veniva accusato di aver regalato alla nuora uno scrigno pieno di gioielli in cambio della dote di un milione da parte della ragazza, che era povera. Lo scrigno due giorni dopo il matrimonio era sparito e la sposa aveva saputo dal gioielliere che tutti quei gioielli erano stati presi a nolo dal duca e poi a lui restituiti. Delusione e sconforto, seguiti da maltrattamenti indussero la sposa a fuggire a Milano. Effettivamente la marchesa Antonelli viveva a Milano, separata dal marito, ma tutte le altre notizie erano calunnie. Dopo due rinvii, la causa venne portata a termine il 13 agosto dello stesso anno. Il direttore del giornale asserì di non aver prove per le dichiarazioni fatte sul giornale. Il Pubblico Ministero riconobbe la legalità e la giustizia delle istanze della parte civile, ed in conformità delle sue conclusioni, il tribunale condannò il gerente del “Ficcanaso”, come convinto di diffamazione a carico dei signori di Mignano, alla pena di quattro mesi di carcere e di seicento lire di multa.
Il duca Nunziante accusato di usurpazione
Mariano Nunziante si risposò nel 1886 con Maria Schiletti, dalla quale nacquero Maria Elena ed Ortensia. Il duca fu anche sindaco di Mignano. E proprio per la sua carica, nel 1898 fu messo sotto accusa, insieme a tutta l’amministrazione per usurpazione di terreni comunali. L’istanza venne presentata dal signor Antonio Albanese di Mignano. Secondo quanto asseriva Albanese, i nobili Nunziante avevano usurpato due strade comunali, la Pilone e la Portelle, il cui suolo valeva rispettivamente tremila e mille lire. Questa illecita proprietà era comprovata dal Regio Commissario il 26 agosto 1892 mentre il 10 ottobre dello stesso anno il Consiglio Comunale ratificò l’illegale procedimento. Al Consiglio Comunale partecipavano Mariano Nunziante, in qualità di sindaco, e Francesco Nunziante in qualità di consigliere comunale. La delibera del Consiglio fu anche approvata dalla Giunta Provinciale Amministrativa di Caserta in data 28 dicembre 1892. Ma una legge del consiglio di Stato diceva che: “è radicalmente nulla la deliberazione con la quale un Consiglio comunale abbia concesso al Sindaco beni di proprietà comunale, ne la nullità può essere sanata dall’approvazione datavi dalla Giunta Provinciale Amministrativa”. Nel 1885 fu fondata la confraternita di S. Antonio, dedicata al Santo Patrono. Le due associazioni avevano la loro sede nella Chiesa di Santa Maria Grande.
scritto da Lina Maiello edizioni ciesseti |
tratto dal libro “Mignano Monte Lungo – Storia Tradizioni e immagini” |
fonte
http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Storia/Altre/Mignano.htm