Alta Terra di Lavoro

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I PADRONI DELLE TERRE ABRUZZESI

Posted by on Mag 22, 2020

I PADRONI DELLE TERRE ABRUZZESI

I CAPIMASSA

“Avit’ paura de li brigant’ Alla mundagne, Ma nu’ jurne, dapuo, Vui li portiss’ li sordi Allj br’gant sedut’ alla seggie.”

Chi sono i capimassa? Quali sono le loro azioni più clamorose e le loro maggiori colpe? Giuseppe Pronio di Introdacqua è senz’altro il più noto, opera tra Sulmona, Roccaraso e l’Adriatico, tra le sue imprese più note la sconfitta inflitta ai Francesi a Sulmona nel gennaio del 1799 e la conquista della fortezza di Pescara alla fine di giugno 1799.

A Sulmona agiscono protetti dal territorio delle montagne circostanti Marco Spacone, Pasquale Giannarisca, Domenico Ognibene, Camillo Corvi e tanti altri; Michele Celli, Diego Santarelli, Vincenzo Devera combattono a Popoli; Ilarione Presutti, Pelino Rossi, Epifanio Colella e altri a Pratola Peligna; Gaetano Gatta parroco di Anversa degli Abruzzi; Damaso Recchione a Campo di Giove, Salvatore di Monticchio che riprese L’Aquila ai Francesi; altri capimassa in diversi centri dell’Abruzzo, Citra e Ultra, dall’entroterra alla costa e numerosissimi altri ancora che agiscono in aree che al momento non interessano.

I capimassa più vicini a Borrello operano a Castel di Sangro e sono concentrati contro i Francesi che provenendo da Sulmona proseguono verso Isernia, ovviamente ci sono molti altri capetti locali. Il 5 gennaio 1799 il generale francese Rusca, sfuggendo alla sorveglianza della banda del capomassa Pronio, da Sulmona sale a Roccaraso e sceso a Castel di Sangro prosegue alla volta di Isernia. Diversamente le più numerose truppe del Duhesme il 9 gennaio sono intercettate dal Pronio all’imbocco della gola di Rocca Valle Oscura (Roccapia), ma vengono lasciate passare in cambio della promessa di non attaccare nel corso delle ostilità Introdacqua, paese natale del Pronio, sacrificando in tal modo la vallata del Sangro.

Il giorno 11 i Francesi arrivano a Castel di Sangro dove contano di requisire le case per la sistemazione delle truppe, siamo in pieno inverno, ma gli abitanti hanno sbarrato le strade con barricate costruite con ogni genere di materiale. I Francesi sono costretti ad assalire più volte il centro abitato e sempre sono investiti da spari e lanci di sassi, mattoni, tegole, carboni accesi, olio e acqua bollenti e non pochi soldati della 64a legione e della legione Cisalpina rimangono sul terreno. A fine giornata l’11° reggimento dei Francesi aggira gli insorti di Castel di Sangro che sbandano e sono uccisi per lo più a sciabolate; per ore continua il linciaggio militare, come lo chiamò nel suo diario il generale Thiébault, finché tutti coloro che sono trovati con un arma in pugno (anche il forcone è un’arma) o sono riconosciuti per aver partecipato ai combattimenti sono sterminati. L’abitato di Castel di Sangro è risparmiato perché devono alloggiarvi le truppe del generale Monnier anch’esse in arrivo da Sulmona.

Quest’ultimo è rimasto bloccato a Pettorano da una bufera di neve e tutta la sua avanguardia viene ritrovata alcuni giorni dopo morta assiderata all’inizio della gola che sale verso Roccaraso. Finalmente Duhesme e Lemoine superano il Sangro e proseguendo in territorio molisano si ricongiungono con lo Championnet a Venafro, l’armata francese così ricostituita giunge a Capua il 14 gennaio 1799.

Contemporaneamente alla diminuzione della pressione francese nelle prime settimane di gennaio comincia a manifestarsi in Abruzzo l’azione sempre più violenta dei capimassa. Ai primi di febbraio 1799 ha inizio lo sterminio programmato dei filo francesi: tra il 2 e il 6 febbraio in seguito a convulse terribili vicende vengono assassinati i repubblicani di Vasto: un prete capomassa Angiolo de’ Minori compila una sua lista di Giacobini e fa arrestare e uccidere molti cittadini. Con la cacciata dei francisi da parte del cardinale Ruffo molti capimassa vengono inglobati nell’esercito regolare borbonico con il grado di ufficiali, il Pronio diventerà addirittura generale. Il processo di pacificazione non è immediato, il clima di sospetto, di persecuzione e di vendetta si protrae per un paio di anni fino al 28 marzo del 1801 quando il re promulga un indulto generale.

Giuseppe Costantino di Lisciano, detto Sciabolone.

Vero uomo della montagna, di gran forza fisica e di grande intelligenza, illetterato fino al punto di saper solo scrivere la sua firma non scordando mai di aggiungere al nome e cognome: alias Sciabolone. Egli aveva eccellenti qualità di capo, nato veramente per comandare anche se per tutta la prima giovinezza era stato solamente un uomo di montagna che lavorava la sua terra a furia di bidente e nella sua fucina di fabbro a furia d’incudine e martello per riparare fucili e forgiare sciabole.
Si era costruita una sciabola personale molto più grande delle altre, proporzionata alla sua forza, e da qui l’appellativo “Sciabolone” Profondamente religioso, reagì violentemente contro i soldati francesi che profanavano le chiese, rubavano nelle campagne, arrivavano a dare in pasto ai cavalli le ostie consacrate.
“Via i sacrileghi – a ferro e fuoco” fu il grido di guerra, così Sciabolone che non conosceva le regole della tattica di guerra, dando retta al suo istinto di difesa, costituì bande di montanari armati contro le truppe dell’invasore sacrilego. Uno degli scontri più famosi con le truppe francesi avvenne nel 1798 ad Arli di Acquasanta . Il nemico avanzava sulla Salaria sicuro dei propri mezzi, avevano sentito parlare di questo Sciabolone e delle sue bande ma non avevano dato gran calcolo alle voci.
Nei pressi di Arli, nel versante destro del Tronto, in silenzio, nascosti da alberi ed arbusti i briganti di Sciabolone, si avventarono sulle truppe nemiche. Armati alla meglio ma furenti e decisi a sconfiggere questo nemico che aveva invaso la loro terra e tolta agli uomini la libertà. lo scontro fu sanguinoso, si concluse con la vittoria delle bande di Sciabolone in seguito alla quale i francesi furono costretti a chiedere la pace; essi appartenenti alle truppe di Napoleone dovettero venire a patti con i briganti. L’accordo fu firmato a Mozzano il 5 febbraio 1799 e il documento porta la firma di Giuseppe Costantini alias Sciabolone e del generale francese D’Argoubet.
Sia a Sciabolane che a De Donatis vennero riconosciute rendite vitalizie. Al grande capo furono riconosciuti 1.200 ducati l’anno, e per una sola volta, ducati 31.000 “da prendersi sulla rendita dei beni dei rei di Stato Per mancanza di denari, aveva però ricevuto solo 574 ducati, chiese allora che per la rimanente somma (2426 ducati) gli venissero assegnati alcuni terreni arativi con alberi del soppresso convento dì S. Agostìno in Scapriano, nella contrada S. Martino. L’anno precedente Napoleone tornato in Francia, dopo la guerra d’Egitto in seguito al colpo di Stato si era proclamato Primo Console ed aveva ripreso la sua offensiva contro gli stati europei.

Anche l’Italia tornò sotto il dominio francese. Re Ferdinando di Borbone dovette rifugiarsi in Sicilia e il Regno di Napoli fu affidato a Gioacchino Murat. Col ritorno del nuovo governo, cominciò la persecuzione di tutti coloro che nella precedente invasione avevano contribuito al ristabilimento del governo borbonico favorendo il Re Ferdinando. Fu cosi che anche D. De Donatis incorse nel mirino dei francesi. Egli fu arestato a Teramo nel 1805 e condotto all’Aquila per essere processato e riconosciuto colpevole. Gli fu data come pena il carcere a vita da scontare a Chieti. Mentre era condotto in questa città con altri otto, incatenato e scortato, nei pressi di Popoli fu fucilato.

Manodoro Matteo

Su Matteo Manodoro non esistono molte notizie, anche se egli fu capomassa celebre al pari degli altri più conosciuti. Manodoro fin dall’inizio dell’invasione dell’abruzzo si mise a capo di una banda della sua zona e, girando per i paesi vicini raccolse genti e munizioni per la sua causa.
Usava animare le genti con veementi discorsi e con bandi ad arruolarsi in favore del re, soleva recarsi nelle piazze dove sorgevano gli alberi della libertà per abbatterli, si contrappose al generale Planta e alle sue ire, che ne mise a prezzo la testa e che gli brucio la casa saccheggiando il paese. Dai documenti viene attestata la sua presenza in moltissime zone montuose, in particolare la sua zona di elezione fu quella pedemontana settentrionale del Gran Sasso, ma egli si recò anche fino a L’Aquila per stringere accordi con Salomone, altro celebre capomassa, a sprezzo dei grandi rischi che ciò comportava. Molti i suoi attacchi documentati, diede sicuramente parecchio filo da torcere al generale Planta. Manodoro, fin da pochi giorni dopo la “chiamata” del re Ferdinando IV formò la sua truppa a massa di Pietracamela, in cui confluirono abitanti di moltissimi paesi vicini, Pizzoli, Cerchiara, Cerqueto, Aquilano, Fano Adriano, Villa Ripa, Tottea, Crognaleto, Intermesoli e Campotosto, per un numero sicuramente superiore alle duecento unità.
Inizialmente la guerriglia di Manodoro e della sua massa si rivolgeva nell’abbattimento degli alberi della libertà che venivano piantati dai francesi nelle città da loro conquistate e nella rapina e saccheggio delle case dei giacobini e degli affiancatori dei francesi. Molto famoso e ricordato da molti storici fu lo scontro accaduto vicino Montorio, alla “ripa”, vicino Frondarola dove Manodoro con i suoi si appostò per attendere il ritorno del generale Planta e dei suoi dalle scorribande e saccheggi ai paesi limitrofi. Esistono molte discordanze sui reali effetti di questo scontro, ma tutti concordano che a seguito del generale ben pochi soldati tornarono a Montorio.

Si narra anche che il generale Planta, egli stesso ferito negli scontri, giurò di non tornare più in quei luoghi tanto ostili. Probabilmente poiché questi stessi scontri se li attribuisce anche Don Donato De Donatis, con tutta probabilità il Manodoro e De Donatis agivano di concerto nei loro attacchi. Manodoro, nonostante il saccheggio di Pietracamela, suo paese natale, nonostante avessero dato fuoco alla sua casa, nonostante dovesse fare i conti con traditori ed imboscate continuò nella sua lotta all’invasore, nelle sue gesta non c’è traccia delle scelleratezze che pare avessero commesso altri capimassa, la sua era una vera guerra, il suo scopo era la cacciata dell’invasore, null’altro. Tantissime volte scampò alla cattura o alla morte, lanciandosi con suo figlio anche dalle mura della fortezza dell’Aquila dove rimase ferito ma mai si tirò indietro. Fortezze che venivano consegnate ai francesi dai traditori, faticosamente e pericolosamente vennero riconquistate dai “cafoni” che animati dal sincero amore per il re, la patria e la religione degli avi, affrontavano disagi e pericoli spinti dal loro senso del dovere.

Non accettavano che gli invasori stranieri taglieggiassero le popolazioni già indigenti con “contribuzioni” e rubassero impunemente in maniera più che brigantesca. Non permettevano che si offendesse il loro sentimento religioso, spogliando le chiese in maniera sacrilega e irridendo la loro fede in Dio, chiamandola superstizione Di Manodoro, e di suo figlio si persero le tracce, sono rimaste diverse suppliche al re per compenso dei servigi fatti al regno, durante la seconda invasione francese, con tutta probabilità Manodoro, scoraggiato e non riuscendo a “far massa” riparò probabilmente nello stato pontificio, pare che si fosse presentato anche alle autorità per avere l’indulto, ma poi rendendosi conto del pericolo fece perdere le sue tracce. Come tutti i briganti che non si presentarono fu braccato fino al 1812 quando, in quel di Perugia fu arrestato e condotto alla morte, la politica repressiva stava arrivando a compimento, i briganti che sfuggirono alla cattura si contarono sulle dita di una mano.
“I Cafoni veggono nel brigante
Il vindice dei torti, che la società loro infligge”.
Risposta del generale Giuseppe Covone interrogato alla camera dei deputati il 31 luglio 1863 sul perché le popolazioni dimostravano simpatia ai briganti.

fonte

https://www.facebook.com/UNPopoloDistrutto/photos/i-padroni-delle-terre-abruzzesi-i-capimassa-avit-paura-de-li-brigantalla-mundagn/285110234927692/

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