I partigiani del dopo occupazione
Nell’autunno del 1866 finisce la guerra di Francesco II, l’ex re scioglie il governo esule e il corpo diplomatico. Gli unitari italiani diedero anche un altro colpo alla Chiesa cattolica, l’unico alleato restato al re, abolendo i conventi ed eliminando le chiese di patronato laicale.
I vescovi napoletani pubblicarono l’ennesima protesta, il giornale “Legittimo
Conciliatore” raccolse 26.000 firme contro l’abolizione, ma fu inutile.
Il 6 dicembre il cardinale Sisto Riario Sforza tornò a Napoli. Il capo politico e spirituale della Chiesa meridionale, vicino a Pio IX e tra i più intimi amici di Francesco II, in esilio dal 1861. Nella riunione della Sacra Penitenziaria, pochi prima giorni, chiese di rinnovare la strategia rispetto alle istituzioni italiane e al problema del voto.
Alcuni mesi dopo, alle elezioni comunali di Napoli, notabili conservatori cattolici iniziarono a lavorare all’interno delle liste moderare. Re Francesco II resta a Roma altri quattro anni, coltivando nostalgie e cercando di riavvicinarsi alla moglie Maria Sofia (dopo le complicate vicende degli anni passati). Nel suo archivio affluiscono testimonianze dai collaboratori che restati al suo fianco continuarono a raccogliere dati e documenti utili ad un «Lavoro statistico sul Regno delle Due Sicilie durante l’occupazione piemontese».
Il fratello Alfonso e qualche ufficiale partecipano alla campagna contro i garibaldini a Mentana. L’altro uomo forte a lui vicino, Pietro Calà Ulloa, nel 1867 pubblicò un volume proponendo una federazione italiana, divisa in tre grandi regioni. Nel 1870, caduta Roma nelle mani degli unitari, torna a Napoli, separandosi dal re e dalla regina, a cui sconsigliò di continuare la guerra giudiziaria con lo Stato italiano per il recupero dei propri beni. Aveva ragione, le cause intentate in tribunale furono tutte perse, come l’ultima voluta da Maria Sofia ad inizio secolo. Il conte di Caserta, Alfonso di Borbone, partecipò alla Terza guerra carlista, dove fu al comando dell’esercito del nord, incarnando l’anima militante del legittimismo napoletano. La resistenza borbonico-cattolica non ere spenta. Napoli torna ad essere il centro della lotta politica, in diretta continuità con il patriottismo di guerra dell’esilio e del brigantaggio. I vinti si identificarono nel ricordo dell’esperienza dell’estrema difesa del regno, includendo e sviluppando le narrazioni a cui avevano dato origine fino al 1866. La loro causa perduta diventa la rivendicazione di una dignità nazionale distrutta ma anche la sua consacrazione. Disimpegnatosi Ulloa, spesa la passione militante di Francesco II, il cardinale Riario Sforza fu protagonista della prima fase di questa storia, iniziando a tessere una rete politica di ampio respiro. Resisteva un cerchio di borbonici fedeli, anche a livello popolare. Quando il re Vittorio Emanuele II tornò a Napoli nel 1869, per la nascita del nipote, fu l’occasione per una dimostrazione di fedeltà dell’opposizione borbonico-cattolica. Il circolo della Filarmonica tenne un concerto e, ostentatamente, non invitò la corte, provocando l’intervento della polizia. Il cardinale si rifiutò di benedire il nipote del re, festeggiato in pompa magna dagli unitari meridionali. Tra i vari segni di dissenso, nella provincia pugliese, fu distribuita una protesta contro il titolo assegnato: «un’oltraggio a tante nostre miserie, imponendosi il titolo di Duca di Puglia al neonato figlio di un principe straniero… È un’ipocrita allusione all’osare il legame tra Casa Savoja, e la nostra vetusta grandezza, per ribadire sempre più le nostre catene». La Chiesa napoletana si mobilitò per contrastare l’Anti concilio organizzato da Ricciardi a Napoli, finito male per i litigi tra italiani e francesi e poi sospeso dalla stessa questura. Pio IX, poco dopo, ad aprile aprì il Concilio, l’evento più importante del suo pontificato. Gli scopi erano l’approvazione del Sillabo, il principio dell’infallibilità del pontefice, la difesa del potere temporale. Un posto d’onore, mentre sfilavano in processione quasi ottocento vescovi di tutto il mondo, fu riservato a Francesco II. Il borbonismo napoletano era diventato parte integrante dell’unica resistenza possibile all’unificazione, quella cattolica. Del resto, già negli anni della guerra al brigantaggio, solo Pio IX gli aveva dato amicizia e protezione. Anche se confinato in un circuito minoritario, si diede comunque vita ad una combattiva battaglia politica, animata da aristocratici, alto clero, ex militari, preti e popolani. Era, secondo Croce, una piccola società, presente in circoli della ex capitale e del Mezzogiorno. Non mancarono episodi capaci di emozionare, come il duello d’onore tra il borbonico conte Statella ed un ufficiale meridionale delle guide, il capitano Basile. Quando nel1869 il duca di Casacalenda, fece un intervento di apertura allo Stato italiano, una parte importante della nobiltà napoletana pubblicò una durissima protesta perché «abbassandosi a ratificare l’usurpazione» aveva tradito la patria e la classe sociale.
L’aristocrazia borbonica rivendicò la bandiera della dinastia che aveva reso grande ed indipendente la nazione napoletana, contro chi «la cara Patria allo straniero aveva asserviva», mentre essa «saputo per nove anni conservarsi illibata» rispetto a chi era passato nel campo del vincitore.
Poi c’erano ex combattenti come Carlo Corsi e Luigi Gaeta, che diventarono i principali organizzatori di iniziative associative e pubblicistiche, il conte Anguissola, Giuseppe Buttà, i vecchi sostenitori francesi il giornalista Charles Garnier. Spiccarono soprattutto uomini rispettati nell’alta aristocrazia, come Nicola Caracciolo duca di Torella, personaggio rigoroso e combattivo, Francesco de Mari duca di Castellaneta, Pietro Caracciolo di Brienza. Carlo Capece Galeota duca della Regina, colto e raffinato, restato a lungo come rappresentante ufficiale di Francesco II presso il Papa. Tornato a Napoli fu una specie di portavoce dell’ex re e della casa reale. C’erano anche altri familiari di riduci, come il nipote del generale Casella, il capo del governo di Gaeta, Enrico Casella. Convivevano due club,esclusivi quanto ammirati, quello del Whist e la Società Filarmonica, presieduta dal duca di Bivona e poi dal Duca di San Cesario. I giornalisti legittimisti napoletani, attivi tra il 1867 e i primi anni del Novecento, furono il principale punto d’incontro di questo variegato movimento. Secondo la questura, nel1871-72 tiravano una media tra 9.000 ed 11.000 copie. La Libertà cattolica, fondata nel 1867 dall’abate Geronimo Milone, era su posizioni di difesa del potere temporale del papa, intransigentismo elettorale, polemica contro gli unitari e borbonismo, diventò il giornale quasi ufficiale dell’episcopato napoletano, stessi toni ebbe il Contemporaneo di Napoli. Ritornò in campo Ercole Ragazzini, che nel 1861 era stato tra i più aggressivi legittimisti, con La cronaca cattolica, un appassionato foglio che gli costò anche il carcere (morì nel 1871). Queste pubblicazioni si moltiplicarono dopo le elezioni del 1872. Il Galiani, fondato quell’anno (si fuse poi con L’Italia reale), diretto dal duca di Castellaneta e con Calà Ulloa tra gli scrittori di punta si presentò definitivamente come assoluto intransigente. I suoi animatori non vollero partecipare alla campagna amministrativa che, portò alla vittoria della lista del cardinale (nel 1875 solo per evitare polemiche con altri legittimisti attenuò le posizioni). Quando Luigi Tosti, un colto religioso romano, pubblicò un’opuscolo a favore della conciliazione tra Chiesa e Stato italiano, il direttore del giornale rispose con un volumetto, affermando che “il romano Pontefice resterà sub ostili dominatione”. Una sola cosa potrebbe menomare la sua grandezza: il riconoscersi suddito e cittadino italiano! La Discussione fu la principale testata legittimista napoletana, dopo aver raccolto un cospicuo numero di azionisti, l’assemblea che fondò il giornale fu presieduta da Francesco Proto, duca di Maddaloni, che aveva denunciato alla Camera la politica italiana nel 1861 ed era stato tra gli uomini di più vicini all’ex re durante l’esilio. Francesco Scamaccia Luvarà, nipote del comandante delle bande irregolari del 1860-61, era uno dei suoi combattivi animatori.
Il giornale seguì le battaglie dei legittimimisti europei come i carlisti in Spagna o gli chambordiani in Francia. Giovanni de Torrenteros, ex militare e collaboratore di Francesco II, insieme al fratello, mantenne sempre il giornale sulla linea di netto rifiuto della partecipazione al voto politico e intransigente fedeltà ai principi cattolici borbonici. Quando fu formato il Circolo cattolico, in vista delle elezioni del 1892, la Discussione, spiegò il suo appoggio alla nomina del presidente, il marchese di Sangineto, sottolineando che questi era «genero del principe di Bisignano e figliuolo del migliore amico e servitore del nostro nostro Re, il barone di Miglione.
Anche il suo successore, Nicola Montalbò, mantenne una posizione antiunitaria e separatista fino alla chiusura del giornale, nel 1903. Vincenzo Manzione (che ancora alla fine degli anni novanta subì un breve arresto per la sua attività), fondò il Guelfo e poi Il nuovo Guelfo, anche questo su posizioni di rigida lealtà cattolico-borbonica. Il 1872 rappresentò idealmente il passaggio dalla fine della resistenza armata alla battaglia politica. Il cardinale Riario Sforza seguì una linea scelta dallo stesso Pio IX per le amministrative di Roma, con la costituzione dell’Unione romana
Per la prima volta si decise di partecipare alle elezioni a Napoli. I consigli provinciali e comunali non prevedevano l’atto di giuramento al re e alle leggi italiane, considerato un ostacolo insormontabile dal Vaticano; erano quindi un terreno di battaglia possibile. Questa valutazione tattica non modificò la scelta intransigente dell’astensionismo politico. Il Concilio Vaticano del 1869-70 aveva proclamato il dogma della infallibilità pontificia. Fu seguito dalle disposizioni del 1874 della Sacra Penitenziaria Apostolica che sancì il divieto formale ai cattolici di partecipare alla vita pubblica italiana (era Riario Sforza un alfiere di questa linea). Le chiese di Napoli spesso registrarono prediche «anti-italiane». La Discussione contrastò brutalmente tentativi di ambienti conciliaristi con la realtà unitaria, come la riunione di casa Campello (1878-79) o le posizioni del conte Del Pezzo e di altri cattolici conservatori, in favore della partecipazione alle urne dopo la riforma elettorale del 1882. La compenetrazione dei partigiani duo-siciliani nella battaglia cattolica era completa. Il cardinale Riario Sforza, in vista delle elezioni amministrative, fondò una organizzazione, chiamata; Associazione degli interessi economici.
I legittimisti cattolici borbonici ampliarono una rete di mobilitazione capillare sperimentata con la raccolta delle firme per le ventuno petizioni inviate a Francesco II nel 1862-63. Per la prima volta le sagrestie di Napoli si mobilitarono, furono creati comitati operativi nelle 12 sezioni elettorali in cui all’epoca divisa la città, ognuno aveva tre strutture locali. Furono raccolte, undicimila iscrizioni. Il 25 giugno il cardinale inviò una circolare con cui invitò i cattolici a votare compatti e ai parroci a mobilitarsi. Le sedi della Chiesa, compreso l’episcopio, diventarono centri elettorali. Per qualche giorno la battaglia conquistò le prime pagine nazionali, la sinistra napoletana denunciò un tentativo di cambiare la direzione politica del Paese, Ruggero Bonghi chiamò a raccolta gli italiani, il ministro degli interni Giovanni Lanza inviò una circolare per chiedere ai liberali di presentarsi compatti alle urne. Senza esito perché non si superarono le divisioni tra i gruppi unitari. Il repubblicano Giorgio Asproni nel suo diario annotò i timori per questa frammentazione. Anche le liste cattoliche non mancarono di trascinare al proprio interno le faide tra i legittimisti, ma in proporzioni minori. Il principe di Torella, Nicola Caracciolo, fu posto al vertice del comitato elettorale e pose il veto sulla candidatura di Cognetti a cui non furono perdonate presunte debolezze verso gli unitari. Asproni prese atto che anche preti e monaci erano in campagna elettorale. Così nel 1872 i cattolici e borbonici vinsero le elezioni amministrative di Napoli (dopo 11 anni di egemonia unitaria), eleggendo 43 consiglieri su 80 (tra questi 19 nella lista iperlegittimista-borbonica del principe di Torella, gli altri in formazioni concordate, 14 insieme a gruppi moderati), poi in un complicato quadro di accordi, un cattolico liberale, il conte di Acerra, Francesco Spinelli, fu nominato sindaco. Asproni scrisse che le divisioni tra unitari avevano rialzato «il cadavere del clericume, l’hanno rimesso in potere e in onore». La maggioranza durò poco, ma il comune di Napoli restò al centro della battaglia politica. I legittimisti vi concentrarono tutte le loro forze, con l’obiettivo della buona e corretta gestione, cercando di depoliticizzare, nella rappresentazione pubblica, questa versione dell’impegno militante. In una città rilevante demograficamente e culturalmente, dove il grande intervento per il
Risanamento ebbe come protagonista il loro spietato nemico degli anni del brigantaggio, l’ex questore Nicola Amore, la vita politica aveva dimensioni rilevanti ed era un palcoscenico nazionale. Le elezioni successive (1873 e 1874) non diedero buoni risultati ai legittimisti, che ebbero invece una parziale rivincita nel 1875, in alleanza con gruppi moderati. Nel 1880-81 proposero liste che portarono in consiglio una nuova generazione di cattolici ed esponenti della tradizionale nobiltà borbonica. Nel 1885, invece, i liberali fecero blocco e la lista del Comitato cattolico ne uscì completamente distrutta (ebbe un solo consigliere). Cognetti, che sin dal 1867 si era battuto contro l’intransigentismo elettorale, spesso trovò con la sinistra originali contatti (nel 1876 sostenne l’amministrazione del duca di Sandonato).Un cambiamento si annunciò dopo la morte di Riario Sforza (1877), quando giunse al vertice della Chiesa napoletana Guglielmo di Sanfelice, dei duchi di Acquavella, meno radicale. Ma il clima cambiò lentamente, nacque un comitato elettorale distinto da quello fondato da Sforza. Ma vennero pure violentemente critiche verso il nuovo cardinale perché accettò di benedire le case aperte con il Risanamento alla presenza dei reali di casa Savoia. A partite dagli anni ottanta, con l’introduzione dell’Opera dei congressi (a Napoli nel 1879) e soprattutto con il I° Congresso Cattolico di Napoli (1889-1890) ci furono segnali diversi, spinti anche dalla sequenza di sconfitte elettorali registrati nelle comunali fino agli anni novanta, seguite dallo scioglimento delle organizzazioni per creare dopo la morte di Sforza, il Comitato Napoletano e poi l’ Unione Napoletana.
La militanza dei vinti non si limitò alle battaglie dei cattolici meridionali, perchè la causa perduta borbonica raccolse l’esperienza del primo decennio di resistenza rielaborandola, e consolidando temi ed argomenti degli anni del patriottismo di guerra in una propria rappresentazione mitica. Pietro Calà Ulloa continuò ossessivamente a lavorare pubblicando a getto libri, dal brigantaggio calabrese alla biografia di Carlo Filangieri. Questa, uscita nel 1877, fu una sorta di testimonianza conclusiva della sua storiografia napoletana. Per Ulloa il Decennio francese fu epoca di stragi, guerre civili, fratture drammatiche, invece la Restaurazione fu una stagione di ritmo e consolidamento dello Stato. La biografia del principe di Satriano riassumeva questa sua valutazione della storia nazionale, Ulloa concluse il volume scrivendo che Filangieri «era vanto di patria» per questo «i napoletani, per lunghe età, lo ricorderanno». Morì nel 1879, ma questa rielaborazione, mise nell’angolo il suo antico rivale letterario, Giacinto De Sivo, anche lui morto, e non considerato da una parte dei borbonici. Ma i suoi libri torneranno in auge solo tempo dopo. Il maresciallo Giosuè Ritucci, ultimo comandante in capo dell’ex re, scrisse sullo storico che «dei maligni lo avevano indotto a credermi l’efficienza delle sventure toccate al il nostro esercito sulla linea del Volturno; e più a pormi fianco in vista di tradire». Ma anche Giovanni De Torrenteros motivò i suoi scritti come necessità di difendere il suo onore dalle necessità del libro «nel quale spesso si è fatta menzione di me con oltraggio alla verità e alla giustizia». I legittimisti si batterono per la loro versione della storia napoletana e della fine del regno. L’ex cappellano militare Giuseppe Buttà che era stato tra gli assolutisti intransigenti a Roma, nel 1877 pubblicò tre volumi sui Borbone di Napoli. Era la raccolta delle dispense che la Discussione aveva venduto insieme al giornale. Buttà divide la storia dell’antico Stato in due parti, «una di ricostruzione praticata in questo regno da due Re di Casa Borbone, l’altra di lotta tra il vero progresso e la rivoluzione. La prima epoca comincia dal 1734 e finisce nel 1793; la seconda da quest’anno sino al 1860». I volumi erano presentati con un richiamo all’orgoglio nazionale napoletano, fatto di grandi tradizioni tali da «fare esclamare a molti di voi: anche noi apparteniamo a quelle belle contrade». Qualche anno dopo Francesco Scamaccia Luvarà riannodò le fila di questo passato collegando la resistenza anti-repubblicana del 1799 a quella del Decennio francese, l’epopea di Ruffo e le rivolte del 1806-8. Nell’introduzione al libro di Angelo Insogna su Francesco II, tracciò una storia in cui la dinastia borbonica e l’indipendenza napoletana erano strettamente connesse. Le guerre di Carlo III, la politica di Ferdinando IV, la lotta contro gli invasori francesi e i liberali traditori avevano unito una parte del napoletano per «per il RE e per la PATRIA». Questo inedito patriottismo maturò un passato epico e glorioso, denso di primati, sereno e legalitario, il capitano Tommaso Cava disse che Ferdinando II abolì di fatto la pena di morte; talchè in 12 anni di perenne cospirazione contansi appena due sole esecuzioni capitali. Anche se la spudorata setta lo ha dichiarato un Nerone che popolava di cadaveri il suo Regno, mentre oggi si tace quanto tutti sanno che in soli 3 anni sono stati sgozzati 12 mila individui, oltre allo scempio di Pietrarsa, altro nuovo genere di empietà inaudita. Per l’ex colonnello Giovanni Delli Franci le istituzioni duo-siciliane erano «le migliori che mai si cercano tra le più incivilite nazioni di Europa, opera delle elucubrazioni di Ferdinando II.
Così la denuncia della spoliazione delle ricchezze fu affiancata ad una patria distrutta che cercò di coltivare i sentimenti e frustrazioni. La protesta diffusa nelle province pugliesi descrisse un mondo di prosperità finito «dopo nove anni di concussioni, e di soprusi; dopo le sofferte espoliazioni, e rapine di ogni genere,dopo tante leggi di sangue, i brogli del plebiscito, scrisse Cava, utilizzando «mezzi violenti e repressivi». Per Filippo Pisacane il regno non sarebbe caduto senza inglesi e francesi, le «due Potenze i cui rappresentanti erano i più forti sostegni del Piemonte».
Il nucleo concettuale del neo patriottismo duo-siciliano combinò la fedeltà dinastica con l’epopea della difesa della libertà nazionale, anche con il brigantaggio. Bisognava fare i conti però con la spaccatura radicale del regno che aveva visto buona parte delle sue élite, aderire al nuovo Stato italiano. I ricordi dei sacrifici sopportati tra il 1860 con base epica, delle settimane del Volturno e di Gaeta, e l’esilio riempirono comunque saggi storici e articoli dei giornali, mentre continuarono ad uscire i volumi dei combattenti. Luigi Gaeta motivò la pubblicazione delle sue memorie dell’assedio di Messina con l’esigenza di difendere «il nome dell’esercito napolitano», la «vera gloria nazionale» delle Due Sicilie.
Ritucci scrisse che «molti generali avevano vilmente tradita la causa del Re e perciò del Regno, ed altri l’aveano abbandonato. Dovevo volgergli anch’io le spalle nell’estremo bisogno di fidi al suo trono?».
Ludovico Quandel, ultimo dei tre fratelli combattenti, diventato una icona borbonica, ricordò quando la guarnigione di Gaeta salutò per l’ultima volta il re e la regina. Era alla testa della colonna che uscì dalla fortezza per accogliere l’onore delle armi dei piemontesi prima di consegnarsi: «l’ordine di marciare è dato, e man mano i Corpi cominciano il loro movimento prima di uscire dalla piazza. È questo l’ultimo atto della monarchia e dell’Esercito delle Due Sicilie: fra pochi minuti l’uno e l’altro passeranno nel dominio della storia».
Così il legittimismo recuperò il re eroe, il disprezzo per lo straniero invasore, il tradimento dei generali, gli eroi e i soldati. Diede l’esempio lo stesso Buttà, che raccontò la difesa del regno a cui aveva partecipato dal primo scontro in Sicilia fino a Gaeta. E i concetti,che evocavano i valori patriottici napoletani del 1860-66, furono sviluppati e finirono per avvicinarsi alla morfologia del discorso unitario italiano allo stesso tempo rinnovarono i materiali della nazione perduta. I giornali pubblicarono una edizione in legittimo dialetto napoletano del libro di Garnier sull’assedio di Gaeta. Delli Franci, uomo di spicco in tutte le operazioni del 1860, fu autore di una fortunata Cronaca della campagna d’autunno. Nel suo volume il re e i soldati napoletani lottarono con coraggio per la libertà delle Due Sicilie e il controllo dell’infranta l’autonomia. Anche per Ritucci, il Volturno aveva affermato la volontà di resistenza dei napoletani. Questa intensa lotta ebbe sempre tra i suoi obiettivi i traditori, coloro che avevano consentito il crollo del regno. Filippo Pisacane, in esilio con la famiglia reale a Roma e poi a Nizza fino alla sua morte, sostenne che fu la scelta della costituzione voluta da una minoranza il crollo del regno.
Carlo Corsi, ufficiale di artiglieria a Gaeta e attivissimo organizzatore del reducismo borbonico, sfidò a duello l’ex ministro di Francesco II e ora potente generale italiano, il «traditore» Giuseppe Pianell. La sua campagna contro i rinnegati del vecchio esercito duosiciliano, combattuta insieme all’ex capo di Stato maggiore di Messina, Luigi Gaeta, durò mezzo secolo. Quando la vedova di Pianell annunciò la pubblicazione di lettere e ricordi del marito curata da un suo attendente, il capitano Corsi pubblicò un primo libro di confutazioni per «tenere alto il nome napolitano tanto oltraggiato ed avvilito», smontando pezzo per pezzo, con documenti e ricordi, l’azione di ministro della guerra di Pianell nel 1860. Ancora nel 1899, mentre furono organizzate grandi celebrazioni ed eventi per l’anniversario della Repubblica napoletana, il Nuovo Guelfo propose di sostituire la stele ora in Piazza dei Martiri, con una colonna infame dedicata a Romano, Spinelli, Pianell e Nunziante, i traditori della patria. Nella leggenda nera della causa perduta duo-siciliana erano lo specchio rovesciato del patriottismo autentico. Il capitano Cava fece il caso di Antonino Nunziante, fratello del traditore per eccellenza, il generale Alessandro Nunziante, «che determinamente disse che l’onore suo era legato al suo dovere», partecipando a tutte le battaglie egli scontri dell’estrema difesa del regno, anche in presenza di accusare infamanti. Anche il nemico interno era racconto Enrico Cosenz, scrisse Buttà, era stato«antico uffiziale napoletano, disertore del 1848, assaltò con gente straniera i suoi antichi connazionali e compagni d’armi». Per il colonnello Delli Franci, la responsabilità della guerra civile era dei rivoluzionari napoletani «che sciogliendo il freno alle idee, ruppero in eccessi di smodate aspirazioni verso nuove forme governative», provocando la disgregazione delle istituzioni:
Il parlamento nazionale degenerò in aperta cospirazione, con atti che simulano un carattere di legalità; al tempo stesso che cominciava una sanguinosa lotta fra ribelli e milizie nazionali, la città divenne teatro di quelle orrende scene di sangue cittadino, che nelle guerre intestine si versa in olocausto ai capricci di una falso ed esagerato amor patrio.
Erano stati loro opere un successo in queste belle contrade faziose, come quelle dei fratelli Bandiera nei lidi di Cosenza, di Pisacane a Sapri ed altre di simil natura.
La monarchia resta l’unica vera bandiera. In tutte le occasioni dei compleanni del re si continuarono a stampare manifesti che, a nome della «maggioranza dei napoletani», auspicavano che la restaurazione di Francesco II li liberasse del «dominio sabaudo». Nella protesta pubblicata dall’aristocrazia borbonica napoletana nel 1869 il re «per l’indipendenza della Patria à combattuto».
Continua a rappresentare un riferimento simbolico anche per la nobiltà legittimista europea. Tra gli altri, il club aristocratico di Marsiglia, Sauvéteurs du Midi, lo nominò presidente onorario nel 1868 e una città laziale, Cori, lo elesse nella sua società letteraria.
Quando nacque la figlia nel 1869 (morta subito dopo) vi giunsero numerose lettere dalle ex province, conservate in parte nel suo archivio: un sacerdote napoletano gli scrisse commosso per «il tanto aspettato avvenimento» e un gruppo di curati di Caltanissetta, «eco fedele della nazione siciliana», si dissero disposti a dar la vita per la difesa del Regno.
Francesco Spinelli, Conte di Acerra, nacque a Napoli, di nobile famiglia. È stato sindaco di Napoli dal 1872 al 1874. Fu eletto senatore del Regno d’Italia dal 1892 al 1897, anno della sua scomparsa.
Fu membro di diverse istituzioni, come del comizio agrario di Napoli, del consiglio direttivo degli educatori femminili di Napoli, soprintendente dell’Ospedale degli Incurabili di Napoli. Fu anche presidente generale dell’Esposizione di Belle Arti di Napoli. Possedeva vaste proprietà fondiarie nella storica tenuta di famiglia, la contea di Acerra.
I legittimisti borbonici, dopo il 1861 combatterono contro i piemontesi anche con i giornali, che ebbero vita assai difficile, e con circoli e associazioni. Era membro del circolo Gennaro Pisacane, duca di San Giovanni, nipote di quel Carlo Pisacane, eroe dell’impresa di Sapri ucciso a Sanza nel luglio del1857 dai contadini. Filippo, fratello di Carlo, fu invece sempre un fervente e coraggioso legittimista, seguì Francesco II in esilio, poi si stabilì a Parigi e non tornò mai più in Italia. Il figlio Gennaro ereditò da lui e conservò intatta la fedeltà ai Borbone. Una figura importante nel mondo del legittimismo borbonico fu il conte Enrico Statella di Cassaro, figlio del generale Antonio Statella, che seguì in esilio Francesco II. Il conte Enrico, “gran signore, carattere fiero e generoso”, che aveva combattuto nell’esercito di Francesco II come ufficiale degli ussari, ebbe come cognato il marchese Antonio di Rudinì, che fu sindaco di Palermo, convinto “savoiardo”, prefetto di Napoli e ministro dell’Italia unita. La polizia napoletana, sebbene sapesse della sua stretta parentela con il di Rudinì – o forse, come sospettarono i maligni, proprio per ordine del cognato filopiemontese – sottopose il conte Enrico e la sua casa a numerosi e rovinosi controlli, e durante una di queste visite i poliziotti osarono ordinare al conte di spogliarsi nudo, per controllare se nascondesse armi. Nel maggio del 1876 il principe ereditario Umberto e la moglie Margherita, che due anni dopo sarebbero diventati Re e Regina d’Italia, visitarono Napoli, accolti dalla nobiltà amica con feste e banchetti. Un giorno, in via Caracciolo, che dame e “galantuomini” affollavano per la consueta passeggiata, il conte Enrico Statella passò accanto alla carrozza della principessa Margherita, e non si inchinò, né salutò. Anzi, due ufficiali “italiani” raccontarono poi che il conte, in segno di disprezzo, si era “calcato il cappello sulla testa”. Uno dei due ufficiali, il tenente Basile, lo sfidò a duello. Lo scontro, al primo sangue, si svolse in una villa a Fuorigrotta, mentre una folla enorme, in piazza Vittoria, aspettava di conoscere l’esito del confronto. Il Basile venne ferito al braccio quasi subito, e i suoi padrini riconobbero immediatamente che la vittoria era dello Statella. Il quale dichiarò, cavallerescamente, che sebbene non gli facesse piacere vedere i Savoia seduti sul trono dei Borbone, egli non aveva offeso in alcun modo la principessa Margherita, poiché, in quanto nobile siciliano e ufficiale dell’esercito napoletano, egli sapeva come comportarsi nei confronti di una Signora.
Carlo Corsi, nato a Napoli, il 24 maggio 1830, da Luigi Corsi, colonnello d’artiglieria, e direttore della prima officina meccanica e fonderia, detta di “Pietrarsa”, che sorge ancora nella località Croce del Lagno sita dove il paese di S. Giovanni a Teduccio diventata Portici. (Oggi sede del museo ferroviario)
Seguendo l’esempio paterno, all’età di nove anni, entra «a mezza piazza franca» nel Real Collegio militare della Nunziatella. Completata la formazione, il 9 ottobre 1849, esce dalla Scuola con il grado di alfiere d’artiglieria, ed è incorporato nel Corpo d’Artiglieria dell’esercito borbonico. Prestando servizio nel Reggimento Reale Artiglieria, dove prosegue la carriera. Dopo undici anni, da capitano ottiene il suo primo comando di batteria, dove sostituisce il traditore Nicola Di Somma, che aveva abbandonato la sua batteria e al Volturno trovandosi in riserva nella piazza di Capua fu chiamato dal Re in persona a coadiuvare l’attacco sul paese di S. Tammaro fortificato dai garibaldesi. Al comando del generale Sergardi appoggiò la cavalleria è con molta intelligenza e coraggio altissimo distruggendo molte barricate fino ad occupare il paese. Per questa sua esemplare azione fu decorato con la Croce di diritto di San Giorgio. Il 29 ottobre 1860, la sua batteria fu la prima ad aprire il fuoco contro gli invasori che furono respinti con grandi perdite. Sconfinato con la sua batteria nello Stato Pontificio, in dicembre raggiunse Gaeta, partecipando così all’ultima difesa del Regno. Il 17 gennaio 1861, viene promosso maggiore: «… per il valore ed il coraggio dimostrato per la difesa del regno». Dopo la resa di Capua, il 2 novembre 1860, con il meglio delle forze dell’esercito napoletano, passa alla difesa di Gaeta, assediata dalle truppe garibaldine e piemontesi. Durante l’assedio, combatte con indomito coraggio nei nefasti eventi bellici, tanto da poter gloriarsi di aver servito il suo re fino all’ultimo e di essere uscito da Gaeta nel 1861 «con le micce accese», segno di riconoscimento per l’onorata resistenza da parte delle truppe assediate. Caduta la piazzaforte, si ritira in esilio a Roma per alcuni anni. Tornato a Napoli, «impugna la penna» per difendere il Reame, fondando il quotidiano Il Contemporaneo di Napoli, che si pubblicò dal 1871 al 1876.
Se con l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna, molti ufficiali borbonici passano nell’esercito sabaudo, fedele al suo unico giuramento, si rifiuta di entrare nell’esercito piemontese con lo stesso grado di maggiore. Torna alla vita civile, e per il resto della sua vita, si occupa di difendere la causa duosiciliana, come redattore del più diffuso quotidiano legittimista “La Discussione”, e prima ancora fondatore del quotidiano “Il Contemporaneo di Napoli”. Sulle pagine del quotidiano La discussione, si firma «… Carlo Corsi, maggiore delle artiglierie borboniche, capitolato di Gaeta», e descrive le vicende militari della caduta del regno, pubblicando a puntate “Le memorie di un veterano”.
Rimasto senza parenti e con l’unico aiuto di una misera pensione di ex ufficiale borbonico, si vide costretto a vendere uno dopo l’altro tutti i suoi beni, fra i quali la bella villa Corsi di Portici, all’angolo del Largo della Riccia.
Nel 1861, ha scritto l’opuscolo dal titolo Cenno biografico di Giuseppe Salvatore Pianell, destinato a fare passare delle spiacevoli giornate al generale prezzolato grande traditore del regno.
Una copia dell’opuscolo, la invia allo stesso generale Giuseppe Salvatore Pianell (Palermo, 9 novembre 1818 – Verona, 5 aprile 1892), ex ministro della guerra del Regno delle Due Sicilie, trasmigrato nell’Esercito italiano, accompagnata da una nota a termine che diceva: “Và che la maledizione della Patria ti perseguiti fin nelle viscere dell’inferno con tutti i Traditori tuoi compagni”. Nel 1887 diede alle stampe l’opuscolo Il commendatore Luigi Corsi e lo stabilimento di Pietrarsa, per difendere dagli attacchi de “Il Pungolo”, giornale liberale, la politica protezionistica del governo borbonico.
Nel 1903, oramai settantaduenne, diede alle stampe «… un libretto che ebbe addirittura due edizioni, intitolato: “Confutazione alle lettere del generale Pianell”, nel quale rispondeva alla sua maniera, alle affermazioni contenute nelle memorie del generale voltagabbana da poco pubblicate».
Autore di altri testi storici e traduttore dal francese di alcuni libri come “Lettere napoletane” di Calà Ulloa e della biografia di Francesco II a cura di Angelo Insogna.
Nello stesso anno, per difendere l’operato e le azioni dell’esercito delle Due Sicilie (anche detto esercito Napoletano e non Borbonico, in quanto sin dal 1744 esercito nazionale e non milizia mercenaria familiare) nella campagna militare del biennio 1860-1861», pubblica il volume “Difesa dei soldati napoletani”. Il maggiore d’artiglieria Carlo Corsi muore a Napoli, il 2 febbraio 1905.
Esempio di impavido uomo e grandissimo soldato, a te tutti gli onori per quel Regno che con ardore hai cercato di salvare.
Sono questi gli uomini che andrebbero ricordati intitolandogli strade e piazze, invece per essi solo l’oblio.
Pietro Calà Ulloa, acque a Napoli nel 1801, dal Duca di Lauria Francesco e da Donna Elena O’Raredon, nobildonna irlandese. È il primo di tre fratelli fedelissimi alla dinastia borbonica (gli altri due sono Girolamo e Antonio).
Frequentò il Real Collegio Militare della Nunziatella, ma si dedicò solo per brevissimo tempo alla carriera militare. Successivamente si dedicò allo studio, con una imponente produzione di saggi di argomento storico e letterario. Dopo aver svolto le funzioni di avvocato nel 1836 fu assunto alla Corte suprema di Napoli.
Esercitò dapprima le mansioni di magistrato in Sicilia e Procuratore del Re a Trapani, ove nei suoi rapporti descrisse il fenomeno della mafia in Italia. Costituzionalista, fu tra coloro che parteciparono al progetto di dettato costituzionale, approvato da Francesco II.
Fedele ai Borbone, Pietro Ulloa fu l’ultimo Primo Ministro napoletano di Francesco II, carica che gli venne conferita da Francesco II quando aveva già lasciato Napoli. Durante l’Assedio di Gaeta, fu responsabile dei dicasteri dei Lavori Pubblici, Istruzione pubblica, Affari ecclesiastici, Grazia e Giustizia, Interno e Polizia. Ricoprì l’incarico di Primo Ministro anche nel governo in esilio a Roma.
Ritornato a Napoli nel 1870 vi rimase sino alla morte; si dedicò agli studi storici, tra i quali i più noti sono: Intorno alla storia del reame di Napoli di Pietro Colletta (1877) e l’opera in gran parte ancora inedita Sulle rivoluzioni del regno di Napoli. Le sue numerose opere sono interessanti per la luce che gettano sull’ultimo periodo storico visto da parte borbonica. Ulloa è considerato inoltre uno dei padri dell’idea confederativa meridionalistica: furono infatti particolarmente apprezzate le sue argomentazioni in materia, secondo alcuni di origine neoguelfa (tesi peraltro dimenticate per oltre un secolo e solo recentemente riscoperte) su una possibile unione confederativa della penisola italiana, alternativa alla unità d’Italia.
Ludovico Quandel, avviato alla carriera militare dal padre, come i fratelli Pietro, Giuseppe e Federico, entrò il 21 aprile 1855 nel Real Collegio Militare della Nunziatella da cui uscì il 19 ottobre 1858 alfiere del Real Corpo di Artiglieria delle Due Sicilie. Col grado di primo tenente, il 28 luglio 1860 prese parte alla battaglia di Capua, alla battaglia del Volturno e alla battaglia del Garigliano, al comando della Batteria nº 5.
Successivamente fu tra i protagonisti della difesa dell’ultimo baluardo del Regno delle Due Sicilie al comando di due batterie sul fronte di mare.
Per il valore dimostrato, fu promosso capitano sul campo e gli fu conferita la croce di Cavaliere di Merito dell’Ordine costantiniano di San Giorgio.
Dopo la resa di Gaeta, fu imprigionato a Capri e successivamente a S. Maria.
Come altri suoi colleghi dell’esercito del Regno delle Due Sicilie, una volta scarcerato fu invitato ad entrare nel neonato esercito del Regno d’Italia. Preferì ritirarsi a vita privata a Monte di Procida con la moglie, la cugina Giuseppina Vial.
Nominato vice sindaco della borgata Monte del comune di Procida, con atto del 27 novembre 1901, incominciò a svolgere un’opera di cura amministrativa della piccola comunità, all’epoca frazione del comune di Procida.
Grazie al suo contributo, il 27 gennaio 1907, il re Vittorio Emanuele III firmava il decreto, controfirmato dall’allora presidente del consiglio Giovanni Giolitti, di distacco della borgata dal comune di Procida. Non volle mai concorrere alla carica di Sindaco del neonato Comune per non giurare fedeltà alla monarchia sabauda, essendo rimasto sempre fedele a Francesco II di Borbone.
fonte