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I privilegi del parlamento italiano, retaggio dello Statuto Albertino

Posted by on Giu 3, 2022

I privilegi del parlamento italiano, retaggio dello Statuto Albertino

E’ sempre più diffusa tra l’opinione pubblica la notizia sugli “sproporzionati” privilegi e costi del parlamento italiano, specie nei periodi elettorali, allorquando si propagandano in modo demagogico significativi tagli o misure di contenimento delle spese generate da tale ente governativo.

E’ accaduto, però, che al tanto sventolato obiettivo di riduzione del costo parlamentare, presente nel programma della passata legislatura ha fatto seguito un decreto legge, votato all’unanimità lo scorso anno, sull’aumento stipendiale degli onorevoli pari a circa mille e cento euro al mese. Inoltre, i 58 milioni d’italiani sono ormai informati anche delle numerose e diversificate voci contributive del suddetto capitolo di spesa ritenute -dagli organi istituzionali democratici- necessarie a garantire adeguati servizi ai deputati per l’espletamento di una “sana” e “libera” attività politica. Accade, così, che l’ulteriore incremento retributivo della nostra classe politica non passi inosservato agli elettori, specie se va a sommarsi ad un già previsto rimborso per il portaborse (circa € 4.000), per l’eventuale affitto di dimora nella capitale (circa € 2.900), per tutte le spese elettorali oltre alla nota indennità di carica (da € 300 ai 6.000). A questi compensi occorre, poi, aggiungere i cosiddetti “benefits” spettanti ai parlamentari in modo gratuito: telefoni, biglietti per il trasporto urbano-nazionale, assicurazione, auto con autista, ristoro etc. Infine, non ci si dimentica che i deputati italiani godono del diritto di pensione dopo soli 35 mesi di attività svolta in parlamento. Simile lista di “privilegi” potrebbe continuare in modo più dettagliato ma il dato più sconcertante per i cittadini è sapere che il loro prelievo fiscale contribuisce a mantenere in vita tale spesa di governo (circa un miliardo e duecento milioni annui di euro)nonostante i continui appelli al sacrificio per risanare i conti pubblici in “rosso”. E’ questa un’antica storia del paese, che si ripete da circa un secolo e mezzo, cioè da quando con la raggiunta unificazione d’Italia la monarchia sabauda insediò un parlamento regolarizzato da princìpi e norme dello  statuto Albertino, vigente nel precedente regno di Sardegna. Difatti, i privilegi parlamentari del costituito Regno d’Italia erano, già a quel tempo, argomento di critica come testimonia la pubblicazione dell’on. Petruccelli della Gattina del 1862 dal titolo “I Moribondi del Palazzo Carignano”. In detta opera l’autore,  descrivendo uno spaccato della vita post-unitaria parlamentare allora attiva sotto i Savoia in Torino, giunse a tratteggiare “a grandi linee la fisionomia dei suoi colleghi, i più rinomati ed i più influenti”. Quel primo parlamento, si legge nel libro, era formato da 443 membri su una popolazione di quasi 23 milioni di abitanti (un deputato ogni 52 mila abitanti). Avendo quegli onorevoli prevalentemente un’estrazione sociale aristocratica (83 membri) o provenendo dell’alta borghesia, quindi appartenendo a ceti benestanti, lo Statuto Albertino stabilì (Art.50) con “buon senso” il divieto di elargire retribuzione o indennità a senatori e deputati. Il Petruccelli, però, polemizzò su taluni benefici-privilegi dei deputati del Regno di minor rilievo rispetto a quelli citati dei giorni d’oggi. Infatti, i primi deputati godevano dell’invito ai “balli di corte”, nonché “a taluni pranzi diplomatici, a certi banchetti”. Erano sempre ospitati in tutte le feste più importanti del Regno e per spostarsi “viaggiavano gratuitamente”.Non “pagavano spese di posta”, potevano con facilità “fare dei debiti”(“si fa credito ad un deputato!”), usavano gratuitamente il telegrafo, nonché potevano frequentare “un palazzo principesco per andarvi a leggere i giornali, parlare, fumare” durante tutto il loro mandato quinquennale (nella costituzione borbonica del 1820 la carica di deputato si rinnovava ogni biennio) . Infine, l’autore menziona altra consuetudine degli onorevoli di poter accedere ad una “fornita biblioteca ove consultare liberamente tutti i testi” ivi disponibili. Il racconto, poi, sulle costumanze dei politici in parlamento sembra essere una telecronaca di attualità, specie quando lo scrittore accenna all’esistenza dei “tiratori mancini”, cioè a quei deputati sempre pronti a votare in modo segreto anche contro le delibere del proprio governo, favorendo l’opposizione. Il parlamento viene descritto nelle sue divisioni partitiche, che allora come oggi facevano capo ad una destra, una sinistra ed un centro. Un curioso particolare del racconto è quello che delinea la collocazione dei deputati piemontesi e lombardi tra le fila dello schieramento di destra e centro sinistra. Il centro, invece, era l’area parlamentare più prediletta dai deputati napoletani, confermando così una tradizione che continuerà negli anni a seguire. Tali onorevoli partenopei facevano capo, a detta del Petruccelli, ad una “consorteria”, comandata dal Poerio. L’elenco di questi “insigni” politici campani era, già da allora, costituito da personaggi di scarsa moralità e di discutibile reputazione. E’ il caso del “voltafaccia” Conforti, ministro in Napoli sia sotto re Ferdinando II di Borbone, che del dittatore Garibaldi ed al servizio,infine, di re Vittorio Emanuele. Ma alla suddetta consorteria, definita “associazione di mutua difesa d’incapacità e di mutua assicurazione di profitti”, appartennero anche il Pisanelli, il De Blasis, Borghi, Imbriani, Caracciolo, Spaventa ed altri “passati quasi tutti per gli affari a Napoli” e che “non fecero che impinguare i loro, non obliando punto sé stessi, considerando la cosa pubblica come affare di famiglia”. E’ quasi sorprendente trovare queste affinità con taluni recenti parlamentari del Sud Italia, in special modo con quelli citati dal Petruccelli che furono coinvolti anche in clamorosi scandali di peculato. L’on. Pisanelli, ad esempio, noto avvocato e titolare di cattedra di diritto costituzionale all’università di Napoli e sul quale si riposero grandi aspettative da parte dei colleghi parlamentari per essere un affermato uomo di cultura, al momento della nomina a ministro in Napoli  si affrettò a “popolare gli uffici di parenti, di amici dei parenti e parenti degli amici”. Lo stesso on. Scialoja è menzionato nell’opera per la sua ambiziosa avidità, tale da distinguersi “per nepotismo a Napoli”. Fu, quindi, quel modello costituzionale piemontese, imposto al nascente Regno d’Italia e sopravvissuto in parte nel successivo governo repubblicano, a generare speciali diritti alla classe politica italiana, elevandola a categoria privilegiata ed onnipotente al pari della tanto combattuta casta feudale dei tempi delle grandi rivoluzioni sociali.

Ettore d’Alessandro di Pescolanciano

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