I Proverbi dell’antica Terra di Lavoro, gli Animali
Zoccole e scarrafuni
Le prime sono presenti nel seguente detto: Méttere ‘u pépe in culo ‘a zòccola (Mettere il pepe in culo alla zoccola).
La locuzione si usa per “stimolare qualcuno, tenerlo in agitazione, in pensiero”. La spiegazione del detto si trova in D’Ascoli, Diz. Etico. Napol. pag. 443: esso deriva “da un esperimento ingegnoso al quale ricorrevano i marinai per liberare la nave dai ratti e che consisteva nel prendere uno di questi animali e introdurgli nell’ano alcuni acini di pepe; succedeva infatti che il ratto, così conciato, veniva preso all’ improvviso da una terribile furia omicida che sfogava contro i suoi stessi … consanguinei; ne nasceva una violenta zuffa della quale gli equipaggi approfittavano per catturare o uccidere i non graditi ospiti, almeno quelli che sfuggivano alla strage fratricida”.
Ecco un paio di detti sullo scarafaggio: Ogni scarrafóne è bello a’ mamma sója (Ogni scarafaggio è bello per la mamma sua). “L’amore di una madre è così grande che non accetterebbe mai di dover ammettere la bruttezza o l’incapacità di un proprio figlio” (p. 169, S. Bonavita, Fessarie e cafè, Oscar varia Mondadori, 2005).
Ricètte `u scarrafóne: Pò chiòve’ `gnòstro, cchiù niro che sóngo nun pòzzo addeventà (Disse lo scarafaggio: Può piovere inchiostro, più nero di quel che sono non posso diventare). Succeda quel che succeda; tanto niente di peggio mi può capitare! Il gruppo consonantico latino pl- (plus, pluit) passa in italiano a pi- (se seguito da vocale); in dialetto napoletano a chi- (cchiù, chiove).
Lumache e vermi.
Tiéni cchiù còrna tu che ‘na spòrta le marruche (Hai più coma tu che una cesta di lumache). La man uca, dal tardo latino maruca, è un animaletto cornuto, che qui però non allude a chi è tradito in amore, bensì a persona furba e intelligente che riesce a districarsi in faccende complicate.
So’ dóje marruzze: una fete e n’ata puzza (Sono due lumache: una puzza e l’altra… pure). In latino esisteva il verbo foetère, di cui rimane solo il part. pres. “fetente”; dalla sua radice son derivati il sost. fetore e l’agg. fetido; nel nostro dialetto il verbo è rimasto col suo significato di puzzare e in senso traslato di aver fama di essere cattivo. Fete e puzza sono sinonimi. Il detto si riferisce a due persone di cui nessuna vuol cedere in un diverbio. Qui naturalmente le marruzze (più del dialetto napoletano che pignatarese) non c’entrano per nulla con siffatte persone litigiose; esse si prestano semplicemente a far rima con “puzza”.
Pare ‘u vèrmene ind’o formaggio (Pare il verme nel formaggio). Da notare che verme, parola piana, nel nostro dialetto è diventato “vèrmene”, parola sdrucciola; questo fenomeno è abbastanza diffuso; si vedano i seguenti esempi: formica > formicola, carciofo > carciòffola, fionda > sciònnola, ghianda > agliànnula, oltre a ciucciuvéttola. In alcuni tipi di formaggio si formano dei vermi che si muovono continuamente. Il detto quindi si riferisce a chi non riesce a stare mai fermo e si muove sempre.
Pulci e tarli
Ora è la volta di animaletti quasi invisibili: la pulce e il tarlo, i quali però si fanno sentire: la pulce per le fastidiosissime punture in particolare sul cuoio capelluto e il tarlo quando rode incessantemente all’interno dei mobili di legno.
Manco pe’ póce ‘nd’a cammisa (Nemmeno per pulce nella camicia): non vorrei stare per nulla nella camicia dì quella persona perché ha pulci fastidiose; detto di persona che viene criticata e invece meriterebbe apprezzamento!
Pure i puci tèneno ‘a tósse (Anche le pulci hanno la tosse): anche persone piccole e insignificanti vogliono far sentire la loro voce!
Ricètte `u pàppece vicino a’ nóce: ‘u tiémpo pó passà, ma te spertóso (Disse il tarlo alla noce: il tempo può passare, ma ti forerò): bisogna perseverare nelle difficoltà, col passare del tempo si riuscirà a superare gli ostacoli. Il dialetto napoletano esprime il complemento di termine con ‘vicino a…’ ad evidenziare un ‘rivolgersi a…’ più concreto; tra albero e frutto non si fa differenza di genere: la noce è il frutto e anche l’albero; il tarlo è detto “pàppece” forse da ‘pappare’ cioè divorare, regolato secondo il tipo ‘pulex’ > pulce; sul piano metrico, si tratta di un distico di endecasillabi con assonanza tra noce e spertoso (con la pronuncia chiusa della vocale) e una certa consonanza nelle rispettive sillabe finali.
La sarda
Per concludere, c’è da ricordare la locuzione che ci porta in ambiente ‘marinaro’: A sarda è sécca. La sarda costituiva in altri tempi, eccezionalmente, il miglior companatico perché riusciva a dare un certo sapore alla fetta di pane, che era pane nero!
Si dice che una sarda poteva soddisfare le esigenze di parecchi membri della famiglia (che spesso era numerosa), i quali si accontentavano di strofinarla su una fetta di pane; ma a furia di strofinarla, essa diventava ‘secca’; e quando la sarda era secca, ciò stava a significare che il companatico non c’era, più in generale c’era poco o nulla da mangiare.
La pecora
Nel panorama degli animali utili c’è anche la pecora, specialmente nelle zone di montagna; essa dà latte e lana; essendo troppo mite, è segno di debolezza. Nei Vangeli il gregge delle pecore rappresenta il popolo dei fedeli che sono guidati dal pastore che è Cristo.
Ecco i detti da noi raccolti sulla pecora:
1. ‘A pecora che fa beee perde ‘u muórzo (La pecora che bela soltanto perde il boccone).
2. Mare a chélla pècura che nun pó’ la lana sója (Male [guai] a quella pecora che non può mantenere la lana sua).
3. L’arte a chi ‘a sape fa’ e ‘u lupo a le pecore (L’arte a chi la sa fare e il lupo alle pecore). Il lupo per sua natura è portato a mangiar pecore.
4. Ma quanno maie ‘a carne r’u piécuro ha fatto ‘u bròro! (Ma quando mai la carne del maschio della pecora ha fatto il brodo!).
Sono quattro detti, tutti di segno negativo: la pecora è sciocca, sa solo belare; si fa tosare, senza opporre resistenza; è debole e subito soccombe al nemico; la sua carne non è eccellente.
La capra
Il nemico dichiarato della pecora è il lupo; ma la stessa cosa valeva per la capra, a proposito della quale va registrato il seguente detto:
Raccumannà la crapa a lo lupo (raccomandare, affidare, la capra al lupo): inutile anzi dannosa raccomandazione; invito o suggerimento rivolto a persona inadatta, incapace. Da notare in ‘crapa’ il passaggio della erre alla sillaba precedente (il fenomeno è assai diffuso; si vedano i seguenti esempi: vetro > vrito, pietra > preta, febbre > freva, fabbrica > fraveca).
Il bue e la vacca
L’importanza dei bovini è fondamentale per una civiltà nella quale la coltivazione dei campi restava la più importante attività dell’uomo. Infatti, i lavoro agricoli richiedono l’indispensabile collaborazione degli animali domestici, per la preparazione del terreno, per l’aratura, la semina e la raccolta e anche per il trasporto dei prodotti dai campi alle sedi di consumo e di vendita. I bovini affiancano i cavalli nel lavoro quotidiano dell’uomo e spesso sono insostituibili, perché più robusti di quelli e meno esigenti. … il numero dei buoi era molto più grande di quello delle mucche e dei vitelli: ciò conferma che i bovini, nel Medio Evo, erano importanti non tanto per la produzione di latte e di carne, quanto perché utili alla coltivazione dei campi e al trasporto delle merci.
Ecco i detti che abbiamo raccolto sui bovini:
1. I figli so’ buoni ‘e vacca: t’i vinni e fai sòrdi (I figli buoni sono quelli di vacca, cioè i vitelli: te li vendi e ricavi denaro). I contadini dei secoli passati, nella civiltà agricola di antico regime, in situazioni difficili di carestie continue, giungeva ad atteggiamenti anche disumani, rinnegando i propri figli che, per povertà, dava in fitto ai proprietari terrieri. C’era più cura per un vitello che per un marmocchio di bambino, tanto se questo moriva (e ne morivano parecchi!), altri se ne potevano fare; se invece a morire era un bue o un vitello, era una tragedia per l’economia della famiglia.
2. Pàreno vuóje scornati! (Sembrano buoi scornati!). I buoi scornati son quelli che hanno le corna rotte, cioè quelli che in uno scontro hanno perduto; si dice quindi di persone derise e beffate. Scornare una persona: dirne peste e corna, diffamarla. Quel ragazzo nun ce scorna: pur avvertito di smetterla, continua nel suo molesto atteggiamento.
3. Ha pèrzo i vuóje e va truvanno le corna (Ha perso i buoi e va cercando le corna). Ha perso l’essenziale e va cercando le minuzie. Detto di chi svolge argomentazioni pretestuose.
4. ‘U vòje chiamma curnuto a ‘o ciuccio (Il bue chiama cornuto l’asino). Detto di chi rileva i difetti altrui senza riconoscere i propri. Tranne il primo, questi detti hanno in comune l’elemento delle corna che sono caratteristica del bue: esse sono simbolo della forza, se si rompono, il bue scornato diventa segno di sconfitta; ma diventano comunque un elemento secondario perché sono una parte rispetto al tutto; fino ad essere simbolo dei difetti umani e del male (perciò il demonio è rappresentato con le corna), ma nello stesso tempo simbolo di malizia e di destrezza, di furbizia (quel ragazzo tene i ccorne!). insomma il bue è ambivalente come tanti altri animali: utile sul piano lavorativo perché forte, poi su quello dell’alimentazione, ma anche simbolo del male e di chi è tradito in amore.
Gli uccelli
Alcuni detti riguardano gli uccelli in generale:
1. Gl’auciégli s’apparano ‘n ciélo, i fetiénti ‘n terra (Gli uccelli si appaiano in cielo, i fetenti in terra). Dappertutto (sia in cielo sia in terra) si accoppiano persone della stessa risma: disonesti con disonesti!
2. Nun se ponno piglià duje auciégli cu ‘a stessa prèta (Non si possono prendere, colpire, catturare, due uccelli con la stessa pietra). Durante la caccia è impossibile prendere due volatili con un colpo solo! È il contrario di: Prendere due piccioni con una fava!
Ci sono poi detti e modi di dire riferiti a uccelli specifici:
3. Pare `ria cardélla (Pare una cardellina). Detto di donna magra e svelta che come la cardella saltella di qua e di là.
4. ‘A mèrula cecata: ‘a notte se fa lu nivo (La merla cieca: di notte si fa il nido) La merla si comporta da cieca: si costruisce il nido di notte, mentre dovrebbe farlo di giorno; detto quindi di chi compie una azione contro tempo, non nel momento opportuno; o almeno sul far della sera, quando tra poco, al calar delle ombre, dovrà smettere e quindi si affretta a compiere l’opera, ma lo fa in modo impreciso: quindi si dice di persona frettolosa.
5. Viata addò’ canta, mare addò’ tremènta (Beata la casa verso la quale canta; male dove rivolge il suo sguardo). Si tratta di un proverbio-indovinello, la cui risposta è la civetta (in dialetto la parola si accresce di due sillabe: raddoppiando quella iniziale e diventando sdrucciola: ciucciuvéttola). Alla civetta è legata la superstizione secondo la quale il suo sguardo è maligno: porta la morte dove lo rivolge. Viato < beato con il solito scambio il verbo `tremèntere’ significa ‘guardare’ da tenere mente.
La gatta e la pàpera
Ecco ora un paio di animali di media grandezza: la gatta e la pàpera cioè l’oca.
Pare ‘a iatta ‘e ze’ Maria: quanno chiagne e quanno rire (Pare la gatta di zia Maria: / quando piange e quando ride).
Si tratta di un distico di ottonari (tali forse per caso; il popolo esprime la propria saggezza basandosi soprattutto sul ritmo, quasi cantando; in questo caso l’ottonario presenta quattro accenti tonici a ritmo alternato.
Da notare anche la rispondenza della sillaba -ri- nelle parole finali dei due versi Maria e rire, e se si considera che la vocale finale delle parole nel dialetto napoletano ha un suono indistinto, si può affermare che in questo distico c’è anche la rima.
Chi sia la Maria proprietaria della gatta non è dato sapere: è un nome come un altro; di chi poi sia “zia”, non ha alcuna importanza, il termine non indica nessun rapporto di parentela perché nel dialetto napoletano serve ad indicare in modo quasi affettuoso generalmente una persona anziana.
Il detto si riferisce a persona incostante e volubile, perché piange e ride da un momento all’altro, passa improvvisamente da uno stato d’animo allegro ad uno triste.
Va comunque precisato che quando la gatta chiagne, in realtà quello che sembra un lamento è invece un richiamo d’amore.
Pare Maria ‘a cuntrariósa: quanno chiuvéva, réva l’acqua a le pàpere (Pare Maria la contrariosa: quando pioveva, dava l’acqua alle oche).
Ritorna qui il nome generico di Maria.
Papera e papara: dal tardo latino paparus, dal greco antico pappato: grido (riferito alle oche).
Le oche godono quando sono nell’acqua o quando piove; è inutile quindi dar acqua alle oche quando piove; bisognerebbe farlo piuttosto quando non piove; perciò Maria fa una azione contraria.
Antonio Martone
(da Il Sidicino – Anno XI 2014 – n. 13 Novembre)