I RAPPORTI BURRASCOSI DI NAPOLEONE CON L’INDOMITO PAPA PIO VII
Luigi BARNABA nacque a Cesena il 14 agosto 1742, ultimo figlio di Scipione CHIARAMONTI e Giovanna Coronata Ghini, entrambi appartenenti all’aristocrazia cesenate. Dopo la morte del padre e il ritiro della madre in convento, il giovane Barnaba intraprese nella città natale i primi passi della vocazione ecclesiastica tra i Benedettini. Col nome di Gregorio, dopo un periodo a Padova dove intraprese gli studi di filosofia e teologia, raggiunse Roma per perfezionarsi al collegio S. Anselmo, risiedendo all’abbazia di S. Paolo fuori le Mura. Divenuto professore di teologia, si trasferì a Parma dove divenne ben presto punto di riferimento per gli intellettuali della piccola capitale dei Farnese.
Nel febbraio del 1775, il cesenate Angelo Giovanni Braschi fu eletto Papa col nome di Pio VI: questo evento portò Barnaba Chiaramonti alla nomina di priore dell’Abbazia benedettina di S. Paolo a Roma. Sette anni più tardi, il 22 dicembre 1782, Barnaba Chiaramonti fu nominato vescovo di Tivoli e tre anni più tardi, il 14 febbraio 1785, cardinale e vescovo d’Imola.
Il 12 agosto 1785, il nuovo vescovo fece il suo ingresso solenne in cattedrale dimostrando subito alla città, lì riunita, quel carisma che lo avrebbe caratterizzato come uno dei personaggi più significativi della storia imolese nel passaggio decisivo tra il XVIII e il XIX secolo.
Come vescovo d’Imola, il cardinale Chiaramonti favorì la conclusione dei più importanti lavori commissionati dal suo predecessore all’architetto Cosimo Morelli e la fondazione della tipografia del seminario, da cui avrebbe poi preso origine quella di Ignazio Galeati.
La prima volta che i francesi giunsero a Imola fu il 23 giugno del 1796. È in questo momento che si verificarono i primi tumulti di fronte al Monte di Pietà presidiato da guardie armate. Solo l’intervento del cardinale Chiaramonti scongiurerà una dura reazione dei francesi dopo l’aggressione e il ferimento di uno di loro ad opera delle popolane imolesi.
A Lugo furono meno fortunati e la rappresaglia dei francesi si trasformò, il 30 giugno del 1796, in un saccheggio che portò l’uccisione di oltre 60 lughesi e l’assalto al locale Monte di Pietà che fu svuotato di ogni oggetto di valore. Anche la comunità ebraica fu depredata di ogni avere. Ma i lughesi non furono i soli a ribellarsi al “nuovo” ordine imposto dalle idee giacobine.
Nell’estate del 1796 ribellioni scoppiarono un pò dovunque, ad Argenta, Lavezzola, Conselice, Fusignano e San Patrizio fino al 1799 e furono sedate con arresti, deportazioni e decine di fucilazioni sommarie. Popolani, contadini, artigiani e gente dei ceti più umili che difendevano le loro tradizioni, i propri valori sia culturali che religiosi furono bollati come sediziosi, briganti o semplici stendardi di confraternite e vennero condotti trionfalmente a Parigi ed esibiti come trofei strappati al nemico sul campo di battaglia. L’attaccamento di Chiaramonti a Imola e alla sua diocesi è dimostrata dal fatto che, una volta eletto Papa, decise di conservare per sè ancora il titolo di vescovo di Imola, carica che mantenne fino alla morte.
E probabilmente fu proprio grazie a questi eventi che in lui si andò formando una coscienza aperta alle innovazioni. Del resto rimane celebre la sua omelia del Natale 1796, a Venezia, quando si pronunciò a favore di un accordo ( !! ) tra cattolicesimo e democrazia rivoluzionaria (“Siate dei buoni cristiani e sarete dei buoni democratici”).
Alla morte di Pio VI (1799) avvenutà, in cattività, imprigionato a Valence si aprì il conclave tenutosi a Venezia presso il Monastero di san Giorgio, sotto la protezione dell’Austria, essendo Roma occupata dai francesi. Il conclave durò tre mesi e mezzo e fu molto travagliato. Il 14 marzo 1800 (il 1800 è l’unico anno centenario in cui non fu celebrato il Giubileo essendo vacante la sede pontificia) fu eletto il cardinale Chiaramonti che assunse il nome di PIO VII.
( Barnaba Chiaramonti, nato a Cesena il 14 Ago. 1742 – 20 agosto1823 – (Pontificato 1800-1823 )
Questi divenne, fin dal primo istante, della “eroica resistenza”. Purtroppo trovò sul suo cammino un uomo di altissimo valore carismatico come Napoleone, il quale proprio qualche mese prima (9 novembre 1799) aveva rovesciato il debole governo dittatoriale e si era fatto nominare primo Console (24 dicembre 1799) per la durata di 10 anni.
Il nuovo Papa fece il suo ingresso a Roma, sgomberata dalle truppe napoletane, il 3 luglio. Ma oltre a questa “provvidenziale” elezione di un uomo molto intelligente, abile, ostinato assertore e profondamente convinto che il capo di una Chiesa investita di una missione sovrannazionale non avrebbe mai potuto asservirsi a un’unica nazione, fosse pure il più grande impero, la Provvidenza gli mandò un altrettanto intelligente cardinale come segretario di stato della Chiesa, ERCOLE CONSALVI (1757-1824) prelato di alte capacità politiche che si consacrò totalmente al servizio del suo signore (ci piace descriverlo con le sue stesse parole: “…abbiamo temuto per la religione e per la Chiesa, e non per la nostra propria persona per la quale, Dio ne è testimone, non abbiamo mai provato il benchè minimo timore”).
A soli 43 anni aveva già raggiunto le più alte cariche nella curia romana. A fianco di PIO VII subito si preannunziò un clima nuovo e più liberale in tempi difficili.
La vittoria di Napoleone sugli austriaci a Marengo il 14 giugno 1800 rese nuovamente i francesi padroni d’Italia: nell’Italia settentrionale fu ripristinata la Repubblica Cisalpina (dal 1802 chiamata Repubblica Italiana).
Veramente il primo Console e capo effettivo della Francia era personalmente incline alle idee rivoluzionarie e, in fondo, religiosamente indifferenze, se non proprio libero pensatore; la religione per lui contava in quanto fattore politico: tuttavia egli vedeva chiaro che soltanto il Cristianesimo poteva servire da fondamento etico dell’Europa e da tessuto connettivo della compagine sociale. Ed in questo fu anche molto coraggioso perchè si mise contro i politici imbevuti di idee illuministiche, i generali, i letterati, i giornalisti, la borghesia colta e intellettuale; ma egli sapeva che gran parte del popolo francese voleva ritornare alla religione cattolica, che egli riteneva congenita-educativa, perchè atavica. Infatti secondo Napoleone il cattolicesimo aveva tenuto insieme la famiglia e il borgo, aveva difeso alcuni valori, e nei riti aveva dispensato commozione e spiritualità. “… Ho bisogno del Papa… lui solo può riorganizzare i cattolici di Francia nell’ubbidienza repubblicana”.
Nella celebre allocuzione al clero di Milano del 5 giugno 1800, (dopo aver vinto nella famosa battaglia di Marengo) Napoleone espresse pubblicamente la convinzione che la religione fosse indispensabie come sostegno allo Stato ed espresse la sua volontà di riconciliare la Francia con il Papato. Furono allacciate presto le trattative. Si giunse ad una conclusione solo quando, in seguito ad un ultimatum di Napoleone, lo stesso segretario di stato cardinal Consalvi comparve a Parigi.
Nonostante mille difficoltà (opposizione anticlericale in Francia, opposizione di Luigi XVIII, opposizione della Chiesa costituzionale, opposizione del clero gallicano francese) fu stipulato il CONCORDATO FRANCESE (Ecclesia Christi), in 17 articoli, il 15 luglio 1801. Furono così poste nuove fondamenta legali alla Chiesa in Francia; per il suo adeguamento al moderno stato di cose tale concordato servì da modello ad altri che seguirono nell’Ottocento.
Pio VII consegna al Cardinal Consalvi la ratifica del Concordato (part. dipinto di Wicar)
Nel concordato si stabiliva che la religione cattolica apostolica romana era la religione della grande maggioranza dei cittadini francesi e che poteva liberamente e pubblicamente essere praticata, nell’osservanza tuttavia delle prescrizioni di polizia. Si prevedeva una nuova ripartizione ecclesiastica della Francia in 60 vescovati di cui 10 arcivescovati. La nomina dei nuovi vescovi (tutti quelli che si trovavano in carica, giurati o no, dovevani dimettersi) era di competenza del primo Console, mentre la loro istituzione canonica spettava al Papa; si prescriveva giuramento di fedeltà allo Stato per tutti gli ecclesiastici, la Chiesa rinunciava ai possedimenti confiscati durante la Rivoluzione, e, in cambio, lo Stato si assumeva il mantenimento adeguato dei vescovi. Questi dovevano prestarsi, in accordo con le autorità statali, a una nuova delimitazione delle parrocchie delle loro diocesi e avevano il diritto di nominare i parroci. Il primo Console conservava presso la Santa Sede tutti i diritti e le prerogative del precedente governo. Accettando il Concordato il Papa, indirettamente, riconosceva la Repubblica come sistema legittimo in Francia, rinunciando alla monarchia!
Se i vantaggi che la Chiesa riuscì ad ottenere (ripristino del culto e lo scampato pericolo di un tremendo scisma) furono notevoli, non va dimenticata la situazione del clero francese per una parte rimasto fedele al Papa e per un’altra assoggettato a Napoleone; le difficoltà, quindi, che sorsero nell’attuazione ebbero effetto di rallentamento.
Ma Napoleone non mantenne i patti. Nominò autonomamente 10 vescovi costituzionali e fece segretamente redigere 77 ARTICOLI ORGANICI che furono pubblicati, insieme al Concordato, il 18 aprile 1802, quasi come parte integrale di quello. Erano articoli interamente dominati di gallicanesimo e contrastavano con le disposizioni del Concordato. In questi articoli organici tutti i decreti del Papa e dei sinodi stranieri venivano subordinati al placet statale, gli articoli gallicani del 1682 venivano dichiarati obbligatori per i docenti dei seminari, si ammetteva un unico catechismo approvato dal governo, si proibiva la convocazione di sinodi e la permanenza di legati pontifici in Francia senza il permesso del governo, si ammetteva il ricorso al consiglio di stato contro il tribunale ecclesiastico, si introduceva una distinzione tra parroci cantonali (curés) e parroci succursali (desservantes) molto piu numeorsi, ma scarsamente retribuiti e senz’altro più facilmente amovibili.
Il Papa protestò definendo inaccettabili 21 dei 77 articoli organici. Napoleone non se ne curò.
Un’ulteriore difficoltà nasceva dal fatto che quasi la metà dei vescovi non giurati (che avevano, cioè, mantenuto fedeltà al Papa) rifiutavano di dimettersi, tanto che si dovette giungere, in parecchi casi, alla loro deposizione, procedimento senza esempi nella storia della Chiesa. Per il bene della comunità ecclesiale anche coloro che le erano stati fedeli si videro spotestati. Un piccolo nucleo di fedeli delle diocesi di Lione e Poiters, appoggiandosi a due vescovi intransigenti rifiutarono il concordato: ne nacque lo scisma della cosiddetta Piccola Chiesa (PETITE EGLISE). I suoi seguaci, che dal 1847 rimasero privi di sacerdoti, ritornarono a poco a poco, eccettuata una piccilissima parte, nella Chiesa romana.
Nel 1803 Napoleone si dedicò pure ad assestare le relazioni in materia religiosa tra la Santa Sede e la “Repubblica Italiana” comprendente la Lombradia e le tre legazioni settentrionali dello stato pontificio (“… Non toccherò l’indipendenza della Santa Sede; ma le condizioni devono essere che Vostra Santità avrà per me nel temporale gli stessi riguardi che io ho per Lei nello spirituale”). Il 7 settembre 1803, tra il cardinal Caprara e il Marescalchi, fu firmato il CONCORDATO ITALIANO che constava di 22 articoli. Con questo la religione cattolica era dichiarata religione di stato della Repubblica Italiana; il presidente delle Repubblica sceglieva i vescovi e gli arcivescovi ai quali il Pontefice dava l’istituzione canonica; i candidati alle sedi vescovili erano tenuti a prestar giuramento, sul modello francese, nelle mani del presidente della Repubblica e i parroci nelle mani dell’autorità civile; le chiese vescovili di Brescia, Bergamo, Como, Crema, Cremona, Lodi, Novara, Pavia, Vigevano dipendevano dall’arcivescovo di Milano, le altre erano affidate agli arcivescovi di Bologna, Ferrara e Ravenna; soppresse le diocesi di Sarsina e Bertinoro, le abbazie di Asola e di Nonantola incorporate nelle diocesi adiacenti. I vescovi potevano comunicare liberamente con la Santa Sede su tutte le materie spirituali ed ecclesiastiche, conferire con le parrocchie e punire gli ecclesiastici; furono conservati i capitoli delle diocesi metropolitane, delle cattedrali e delle maggiori collegiate; le mense vescovili, i seminari e le parrocchie furono convenientemente dotate dallo Stato; ai vescovi erano assegnati la disciplina, l’insegnamento e l’amministrazione dei seminari; il governo si obbligava a non sopprimere alcuna fondazione ecclesiastica senza l’intervento della Santa Sede; il clero era esente dal servizio militare; furono proibiti, infine, gli scritti immorali o irregiliosi.
Ma tale Concordato, per disposizione dello stesso Napoleone, entrò il vigore solo il 1° giugno 1805; nel frattempo egli aveva avuto il tempo di inserire arbitrarimente altri articoli con il quale legiferava in materia ecclesiastica come se lui, e non il Papa, fosse il capo della Chiesa. Con queste aggiunte fissava la rendita dei vescovi e la dotazione dei capitoli; riduceva il numero delle case dei Barnabiti, dei Somaschi, degli Scolopi, degli Ospitalieri, dei Crociferi, dei Filippini, dei Preti della missione (i soli ordini che conservava); riduceva e riuniva in 88 conventi gli ordini Mendicanti; manteneva le Orsoline e le Salesiane e divideva gli altri ordini femminili in 40 monasteri di prima classe e in altrettanti di seconda; stabiliva l’età per la professione dei religiosi; assegnava al demanio i beni dei conventi e dei monasteri soppressi e ordinava che il prezzo di vendita fosse versato al Monte Napoleone, costituito per estinguere il debito pubblico.
Pio VII protestò vivamente con Nota ufficiale e con una lettera all’Imperatore, ma ciò non fece altro che peggiorare la situazione già di per sè molto tesa.
Ma non era finita qui.
Fattosi eleggere con votazione popolare, nel maggio 1804, imperatore ereditario dei francesi, Napoleone, come Carlo Magno in passato, ambiva ricevere la corona imperiale dal Pontefice. Non a Roma, ma a Parigi. Il suo desiderio era stato comunicato al cardinale CAPRARA, nunzio pontificio, e questi si affrettò a scrivere al Papa, esortandolo ad accettare e a mettersi subito in cammino alla volta della Francia.
Pio VII, che si era scagliato pesantemente contro Napoleone per l’esecuzione del duca inglese d’Enghien, esitò a lungo, per tutto il mese di ottobre. Alla fine accettò suscitando scandalo fra i monarchici; ma non partì subito come il Caprara sollecitava. Sia lui che il Sacro Collegio avrebbero desiderato innanzitutto risolvere la questione del giuramento che il nuovo Imperatore avrebbe dovuto pronunciare alla cerimonia d’incoronazione. Secondo la formula stabilita dal Senatoconsulto, Napoleone avrebbe dovuto giurare di “… rispettare e far rispettare le leggi del Concordato e la libertà dei culti …”. Ora a Roma si pretendeva che l’Imperatore assicurasse trattarsi non degli Articoli Organici non riconosciuti dal Pontefice, ma del solo Concordato, non di tolleranza religiosa, ma soltanto tolleranza civile dei culti, e nel medesimo tempo, promettesse di comporre, in modo soddisfacente per la S. Sede, gli affari religiosi tuttora pendenti.
Lunghe furono le trattative; spiegazioni rassicuranti diedero il cardinal Caprara, il Talleyrand e il cardinal Fesch, ambasciatore francese a Roma; finalmente, giunta la richiesta ufficiale di Napoleone portata dal generale CAFFARELLI, il 2 novembre il Papa si mise in viaggio. Questo fu fatto con molta fretta: il 7 era a Firenze, il 12 a Torino, il 19 a Lione, il 25 giunse a Fontaineblau. A S. Erasmo, sulla strada fra Nemours a Fontainebleau, Pio VII trovò Napoleone ad accoglierlo con una comitiva di cacciatori; si scambiarono un abbraccio (immortalato dal dipinto di Marne e Dunoy) e insieme proseguirono il viaggio che ebbe termine tre giorni dopo con l’arrivo a Parigi.
Tutto era stato fissato per il 2 dicembre. Il giorno dopo il suo arrivo, nei giardini alle Touleries, si sparse la voce della presenza del Papa. Una folla enorme s’accalcò per ricevere la sua benedizione, preoccupando non poco Napoleone.
La cerimonia dell’incoronazione doveva svolgersi a Notre Dame, ed ebbe preparativi molto laboriosi e anche costosi. L’ordine di Napoleone era quello di creare il “più grande spettacolo della storia”. Ci voleva anche un regista, e per questo fu scelto il pittore Isabey, che con una folla di specialisti, provò e riprovò numerose volte la scena dell’incoronazione nella galleria Diana, alle Touleries, usando perfino dei pupazzi che rappresentavano i personaggi invitati al grande giorno.
Ma il vento stava navigando tutto a favore di Pio VII. La notte prima dell’incoronazione, Giuseppina forse presa da scrupoli e da rimorsi di coscienza di commettere un sacrilegio, andò a far visita al Papa, rivelandogli che con Napoleone lei era solo sposata civilmente da otto anni: non poteva certo avvenire la loro consacrazione con loro due considerati concubini, sarebbe stata subito invalidata. Pio VII non si perse d’animo; nemmeno si sognò di annullare l’incoronazione. Come riuscì Giuseppina a convincere Napoleone non lo sapremo mai. Sappiamo solo (le riviste inglesi dell’epoca si sguazzarono nel farne la caricatura) che all’alba del 2 dicembre, i due furono convocati in gran segreto e fu celebrato il matrimonio davanti a Dio.
È importante ricordare che secondo le vigenti norme ecclesiastiche il matrimonio religioso era valido solo se celebrato dal proprio parroco. Ma il parroco di Napoleone era corsicano! Come fare? Avvalendosi della sua potestà immediata, diretta e universale su tutta la Chiesa cattolica, il Pontefice stesso dispensò il parroco di Napoleone e celebrò lui stesso le nozze. E quando Napoleone chiese il divorzio addusse come causa che il proprio matrimonio era nullo poichè non officiato dal proprio parroco!
Ma ritorniamo all’incoronazione. Anche il cerimoniale fu concordato: la presentazione del sovrano che avrebbe dovuto fare il Pontefice fu soppressa e sostituita con il canto del “Veni Creator Spiritus”, le parole della formula della benedizione pontificale “Imperatorem eligimus” furono cambiate con “Imperatorem consacratori sumus”.
Fu lo stesso Pio VII che andò ad attenderli a Notre Dame, dov’era tutto pronto per le ore 9 del mattino. Ma Napoleone non arrivava. Tre ore di ritardo con una folle immensa in attesa.
Solo a mezzogiorno Napoleone comparve. La cerimonia durò molte ore, e tutto andò molto liscio, fino a un attimo prima dell’incoronazione. Qui accadde, quel gesto per molti inaspettato, ma molto calcolato da Napoleone (forse in quelle tre ore di travaglio). All’atto dell’incoronazione, quando il Papa avrebbe dovuto posargli il diadema sul capo, invece di inchinarsi, prese delicatamente con le sue mani ferme la corona e se la pose sulla testa; ripetendo poi lo stesso gesto sul capo dell’Imperatrice.
Qualcuno, e ancora oggi leggiamo, affermò che quella cerimonia e quell’atto ebbe in sè qualcosa di triste, di stonato, che il Papa fu una inutile comparsa. Sembrò un gesto orgoglioso, che sottolineava la volontà di non voler dipendere da nessuno, neanche dal Papa. Un orgoglio solitario, ma che rese impacciati e ridicoli tutti i presenti nei loro costumi di gala: grandi ufficiali della Legion d’Onore, i presidenti delle Corti d’Appello e dei Collegi elettorali, i sindaci delle 36 maggiori città della Francia, i prefetti, i generali, la municipalità parigina, il Senato, il Consiglio di Stato, il Corpo legislativo, il Tribunato, la Corte di Cassazione, la deputazione dell’esercito e della flotta, il corpo diplomatico. Dopo il “Te Deum” e la Messa, il Pontefice si ritirò e l’Imperatore pronunciò il giuramento.
Pochi giorni dopo, al Senato, poi ancora in cattedrale il giorno appresso e infine agli stessi soldati, farà rilevare e giustificherà quel gesto: “… altrimenti rischiavo di perdermi in mezzo ai canti sacri e ai gesti liturgici; io salgo al trono con il cuore pieno di sentimenti dei grandi destini di questo popolo che io ho salutato per primo, dai campi di battaglia, con il nome di grande”.
Quello che ha in mente Napoleone è di costruire un impero nuovo di idee, dandogli la forma di uno stampo antico; egli guarda a Cesare, a Traiano, a Diocleziano “uomini che dovevano tutto a se stessi; un potere che non hanno ereditato, ma nel prenderlo hanno saputo esercitarlo”. Napoleone ha piena coscienza di riprendere l’opera degli imperatori romani. “Impero” è inoltre una parola che gli piace. Concepisce l’Impero come strumento di civiltà, si identifica con esso. Appena si è seduto sul trono si è sentito perfettamente a suo agio, nessun segno di incertezza o di imbarazzo: si sente Imperatore nato. E, naturalmente, ama il potere che egli ha edificato con le proprie mani. Ha l’impressione di essere un Cesare predestinato, Cesare dalla nascita. Del resto sua è la frase: “Cesare si nasce, non si diventa“. E anche la storia non lo ricorderà affatto come “Re Napoleone”, ma sempre sarà chiamato “l’Imperatore”.
I festeggiamenti per l’incoronazione si protrassero per diversi giorni: pranzi e fuochi d’artificio.
Pio VII rimase a Parigi fino all’aprile del 1805 per trattare gli affari religiosi tuttora pendenti: la sottomissione dei vescovi costituzionali, l’allontanamento dalla Chiesa dei preti ammogliati, il ristabilimento delle congregazioni, l’obbligo del riposo domenicale, la dotazione dei seminari, la modifica degli articoli organici, la soppressione del decreto organico emanato dalla Repubblica italiana, l’abolizione del divorzio permesso dal codice napoleonico. Napoleone concesse molte delle cose che Pio VII chiedeva, ma non volle dichiarare dominante la religione cattolica, lasciò intatti gli articoli organici e la legge sul divorzio e oppose un rifiuto alla richiesta di restituire alla Chiesa Avignone, le Legazioni e Parma e Piacenza. Le mire napoleoniche puntavano a trattenere il Papa in Francia per renderlo pienamente strumento del suo potere assoluto; ma il Papa aveva già sottoscritto, in vista di un caso simile, un documento di abdicazione: l’ Imperatore dovette lasciarlo partire il 4 aprile 1805.
Il 23 aprile, passando per Chàlons, Lione e Chambery, giunse a Torino. Rivide a Stupinigi Napoleone, che era partito dalla capitale francese quattro giorni prima, e il 26 riprese il viaggio. Per Asti, Alessandria, Voghera, Parma, Modena e Bologna, giunse il 6 maggio a Firenze, dove ricevette festose accoglienze dalla regina d’Etruria e dalla popolazione. Ricevuta, il 3 maggio, l’abiura di SCIPIONE de’ RICCI, se ne tornò a Roma da cui era rimasto assente circa sette mesi.
Il 18 marzo 1805 la consulta della Repubbica Italiana proclamò Napoleone Bonaparte Re d’Italia. Nasce il primo statuto costituzionale del Regno d’Italia. Ad applaudire sono proprio i ceti borghesi e, stranamente, anche il clero. Il Papato, pur con le confische dei beni ecclesiastici (“ci rinuncio per amor di pace” afferma Pio VII), benedice e celebra con grande solennità il trionfo di Bonaparte, suo nemico su tutta la linea. Napoleone ha infatti chiuso le scuole religiose e i seminari; clero e cattolici sono subordinati allo Stato. Uno Stato autoritario che nomina i vescovi e pretende dai sacerdoti un giuramento di fedeltà. Il regime di Napoleone è in pratica una vera e propria dittatura: un potere assolutistico mascherato da una fantomatica democrazia popolare.
Ci furono, in seguito, anche altri avvenimenti che peggiorarono lo stato di cose.
Infatti, Pio VII era appena tornato a Roma quando gli si chiese la dichiarazione di nullità del matrimonio del fratello minore di Napoleone, Gerolamo Bonaparte, dall’americana protestante miss Patterson. Il Papa, con grande disappunto dell’Imperatore, energicamente rifiutò; ma il divorzio avvenne ugualmente.
Nell’ottobre di quel medesimo anno, iniziandosi la guerra della terza coalizione, Napoleone, temendo che i Russi e gli Inglesi sbarcassero nell’Italia centrale dalla parte dell’Adriatico, ordinò al generale REYNIER di occupare Ancona. Fu allore che Papa Pio gli scrisse una lettera molto energica datata 13 novembre 1805, nella quale chiedeva lo sgombero delle terre occupate e minacciava di troncare i rapporti con il ministro imperiale a Roma. L’imperatore rispose a questa lettera solo il 7 gennaio del 1806, da Monaco di Baviera, dopo la vittoria d’Austerlitz (2 dicembre 1805). Scriveva così: “… Io mi sono considerato il protettore della Santa Sede e come tale ho occupato Ancona. Vostra Santità aveva interesse di vedere questa piazza forte nelle mie mani piuttosto che in quelle degli Inglesi o dei Turchi? Al pari dei miei predecessori, io mi sono considerato come il figlio maggiore della Chiesa, pronto a proteggerla con la spada e a difenderla dai Greci e dai Musulmani. Io difenderò costantemente la Santa Sede, nonostante i falsi passi, l’ingratitudine, e le malvagie disposizioni degli uomini che si sono smascherati durante questi tre mesi”. E concludeva: “Se Vostra Santità vuole congedare il mio ministro è libero di farlo: è libero di preferire gli inglesi e anche il califfo di Costatinopoli; ma io, non volendo esporre il cardinal Fesch a questi affronti, lo sostituirò con un secolare”. Contemporaneamente Napoleone scriveva al cardinal Fesch, suo ministro a Roma, una lettera molto significativa: “Dite che Costantino ha separato il civile dal militare e che io posso anche nominare un senatore che comandi a Roma in nome mio […]; per il Papa io sono Carlomagno, perché, come Carlomagno, riunisco la corona di Francia, quella dei Longobardi, e il mio Impero confina con l’Oriente. Io intendo dunque che la sua condotta sia regolata con me su questo punto di vista. Io non cambierò nulla alle apparenze se si comporta bene; in caso diverso ridurrò il Papa a semplice vescovo di Roma”.
La curia Romana non mancò di protestare ed ebbe assicurazione che il Reynier si sarebbe allontanato non appena l’esercito del GOUVION SAINT-CYR, reduce dalla Puglia, fosse giunto al Po. Il Reynier, infatti, si ritirò, ma lasciò ad Ancona il generale MONTRICHARD.
Una lettera ben più importante scrisse ancora una volta Napoleone al Pontefice, un mese dopo, il 13 febbraio del 1806: “Tutta l’Italia sarà sottomessa alla mia legge. Io non menomerò per nulla l’indipendenza della Santa Sede, le farò anche pagare i danni che le recheranno i movimenti del mio esercito; ma i nostri patti dovranno essere che Vostra Santità avrà per me, nel temporale, gli stessi riguardi che io le porto per lo spirituale, e che Ella cesserà d’avere inutili rapporti verso eretici nemici della Chiesa e verso potenze che non possono farle alcun bene. Vostra Santità è sovrano di Roma, ma io ne sono l’imperatore. Tutti i miei nemici debbono essere i suoi. Conviene dunque che nessun agente del re di Sardegna, nessun Inglese, Russo o Svedese risieda a Roma o nei vostri Stati e che nessuna nave appartenente a queste potenze entri nei vostri porti. Io avrò sempre per Vostra Santità, come capo della nostra religione, quella filiale deferenza che in tutte le occasioni le ho dimostrata, ma io debbo rendere conto a Dio, il quale ha voluto servirsi del mio braccio per ristabilire la religione”.
Nello stesso tempo che giungeva al Papa questa lettera, il cardinale Fesch chiedeva ufficialmente l’espulsione degli Inglesi, dei Russi, degli Svedesi e dei Sardi. Ma Pio VII, con il consenso di 31 cardinali su 32, il 21 marzo, non solo si oppose all’espulsione ma rispose energicamente alle affermazione dell’Imperatore: “Vostra Maestà stabilisce per principio che Ella è imperatore di Roma. Noi rispondiamo con apostolica franchezza che il Sommo Pontefice, divenuto da tanti secoli, quanti non ne vanta alcun regnante, anche sovrano di Roma, non riconosce e non ha mai riconosciuto nei suoi Stati altra podestà superiore alla Sua; che nessun Imperatore ha alcun diritto sopra Roma; che V.M. è immensamente grande ma è però eletto, coronato, consacrato, conosciuto Imperatore dei Francesi e non Imperatore di Roma; che l’Imperatore di Roma non esiste e né può esistere senza spogliare dell’assoluto dominio ed impero che esercita in Roma il solo Pontefice; che esiste solo un Imperatore dei Romani, ma che questo titolo, riconosciuto da tutta l’Europa e da V.M. nell’Imperatore d’Alemagna, non può competere contemporaneamente a due sovrani; che questo stesso non è che un titolo di dignità e d’onore, il quale in niente diminuisce l’indipendenza reale od apparente della Santa Sede; che infine questa dignità imperiale non ha avuto mai alcun rapporto con la qualità ed estensione dei domini, ma è sempre fino dalla sua origine stata preceduta da un’elezione”.
Ma Napoleone non si arrestò. Con un tratto di penna detronizzò (1806) Ferdinando IV e la dinastia borbonica nell’Italia Meridionale e fece Re di Napoli il proprio fratello maggiore Giuseppe Bonaparte. Pio VII mandò Consalvi a protestare presso il Fesch, perchè il nuovo re non aveva chiesto l’investitura. Napoleone ne fu irritatissimo: il 3 maggio richiamò il Fesch che riteneva debole e lo sostituì con l’energico ALQUIER; qualche giorno dopo ordinò al generale DUHESME di occupare Civitavecchia e il 18 e il 20 maggio fece indirizzare dal Talleyrand al cardinal Caprara e all’Alquier due aspre note che dovevano esser comunicate al governo pontificio: “Le pretese della corte di Roma su Napoli sono quelle del secolo XI; ma i tempi sono mutati e le opinioni devono seguire il cammino della ragione e degli avvenimenti”.
Il 30 maggio l’Alquier presentò al Consalvi una nota in cui si minacciavano gravi rappresaglie se la S. Sede tardava a riconoscere Giuseppe come Re delle Due Sicilie; ma Pio VII si rifiutò di accordare il suo riconoscimento se prima Giuseppe non riconosceva l’alto dominio della Chiesa sul Regno.
Al rifiuto del Pontefice seguì immediata la rappresaglia di Napoleone, il quale, con decreto del 6 giugno 1806, s’impadronì di Pontecorvo e Benevento, provocando le dimissioni del Consalvi da Segretario di Stato, sostituito dal cardinal CASONI. Intanto a Civitavecchia il Duhesme spadroneggiava e peggio ancora faceva ad Ancona il generale LEMAROIS che incorporò le truppe pontificie in quelle francesi e volle che nelle sue mani fossero pagate le imposte delle province di Ancona, Urbino, Pesaro e Macerata.
Il Pontefice non poteva fare altro che protestare; ma ogni protesta era inutile, anzi, aumentava ancora di più la tensione dei rapporti tra Parigi e Roma. Nei primi di luglio l’Imperatore tentò di costringere la Santa Sede a stipulare un trattato in cui s’impegnava a chiudere i suoi porti alle navi inglesi commerciali e da guerra, e di consegnargli, in caso di guerra, tutte le fortezze dello Stato; ma Pio VII oppose un nuovo rifiuto, accompagnandolo con parole che non lasciavano dubbio sul suo proposito di resistere fino all’ultimo alle minacce e alle violenze imperiali. “Voi – disse all’Alquier – siete i più forti; fate ciò che vi è utile e ciò che vi sembra conveniente. Quando avrete deciso, sarete i padroni dei miei Stati e disporrete a vostro piacere di tutte le risorse che vi possono offrire; ma non avrete mai la mia autorizzazione. Del resto Sua Maestà può, quando vuole, mettere in esecuzione le sue minacce e togliermi quel che possiedo: io sono rassegnato a tutto e pronto, se lo desidera, ritirarmi in un convento o nelle catacombe di Roma, secondo l’esempio dei primi successori di San Pietro”.
Parve, poi, che le relazioni tra il Pontefice e l’Imperatore dovessero migliorare quando Pio VII nominò il cardinale DI BAYANNE ministro plenipotenziario e lo mandò a Parigi per risolvere tutte le controversie, fra cui un’importanza speciale avevano quelle riguardanti il numero dei cardinali francesi, l’abolizione dei conventi, la dispensa ai vescovi del Regno d’Italia di recarsi a Roma per la consacrazione e l’estensione del Concordato Italiano del 1803 a Venezia e alla Dalmazia (ottobre 1807); ma la missione del cardinale fallì. In primo luogo perché proprio in quel tempo (4 novembre) il generale LEMAROIS occupava il ducato di Urbino, Macerata, Fermo e Spoleto e faceva arrestare parecchi prelati che avevano osato protestare. In secondo luogo perché il di Bayanne spediva al Pontefice, consigliandogli di accettare, uno schema in cui veniva stipulato che il Papa si unisse all’Imperatore contro gli Inglesi, desse in custodia ai francesi Ancona, Ostia e Civitavecchia, riconoscesse il re Giuseppe, approvasse quanto ere stato fatto in Germania e in Italia, rinunziasse a Pontecorvo, a Benevento e a qualsiasi pretese su Napoli, portasse a un terzo del numero totale i cardinali dell’Impero francese, estendesse il Concordato Italiano a Venezia, alla Dalmazia, a Piombino e a Lucca, concedesse ai vescovi del regno la dispensa di recarsi a Roma per la consacrazione e facesse un concordato speciale per gli stati della Confederazione Renana.
Pio VII riunì i cardinali, sottopose a loro lo schema del trattato, e, sentito il loro parere, il 2 dicembre 1807 scrisse al di Bayanne ordinandogli di lasciar Parigi con il cardinale Caprara e il cardinale DELLA GENGA (futuro Leone XII) nunzio di Germania (che era allora in Francia per trattare gli affari religiosi della Confederazione), se il governo imperiale persisteva in quelle domande inaccettabili.
Napoleone, tornato allora dall’Italia (gennaio 1808), fece sapere ai cardinali Caprara e di Bayanne che avrebbe restituito le province occupate se la S. Sede avesse somministrato 400.000 franchi per le spese occorrenti a scavare il porto di Ancona, avesse riconosciuto il re Giuseppe, cacciato da Roma il Console ed altre persone che dipendevano da Ferdinando IV, arrestato un centinaio di fuorusciti napoletani, entrato nella lega contro gli Inglesi ed infine portato il numero dei cardinali francesi ad un terzo dei componenti il Sacro Collegio. In caso di rifiuto avrebbe unito al Regno d’Italia le province occupate, e alla Toscana il territorio di Perugia. Pio VII rispose il 28 gennaio: accettava le prime quattro condizioni, ma rifiutava le ultime due.
Per appoggiare le sue richieste Napoleone, il giorno dopo in cui le aveva formulate, cioè il 10 gennaio, ordinò al generale LEMAROIS di muovere da Ancona su Perugia e al generale MIOLLIS, che si trovava in Toscana, di marciare su Foligno, assumere il comando generale delle truppe denominate “divisione d’osservazione dell’Adriatico” e, rinforzato da 3.000 uomini inviati da re Giuseppe con il pretesto di recarsi a Napoli, di occupare Roma, dichiarando di rimanervi finché la città non fosse ripulita da tutti i nemici della Francia.
Dei veri obbiettivi della spedizione non fu fatto saper nulla all’ambasciatore francese ALQUIER, che si sapeva amico della S. Sede; a lui, anzi, il Miollis, il 29 gennaio, mandò un falso itinerario delle truppe che l’Alquier si affrettò a trasmettere al segretario di Stato cardinal Casoni. Questi, sospettando che l’esercito francese fosse diretto a Roma anziché a Napoli, il 31 gennaio fece andare un ufficiale a Civitacastellana perché domandasse al Miollis delle spiegazioni circa la marcia delle truppe francesi. Il Miollis confermò l’itinerario comunicato all’Alquier, e questi, con una lettera datata 1 febbraio, cercò di tranquillizzare il Pontefice, assicurandogli che l’esercito francese, se pur avesse dovuto fermarsi a Roma, non vi sarebbe rimasto che poco e non avrebbe costituito alcun pericolo per la S. Sede. Aggiungeva inoltre di essere autorizzato a dichiarare che l’imperatore “desiderava vivamente di porre fine per mezzo di vie conciliatorie alle discussioni che esistevano tra la Francia e Roma, e che un accomodamento così desiderabile, stringendo più strettamente che mai i legami che uniscono da tanti secoli le due Potenze, sarà una nuova garanzia, certamente assai efficace, della sovranità della S.V. e della piena ed intiera conservazione dei suoi possedimenti”.
Quel giorno stesso però l’Alquier riceveva una lettera con la quale, in data 22 gennaio, da Parigi il ministro degli esteri CHAMPAGNY lo informava che il Miollis sarebbe giunto a Roma il 3 febbraio e vi si sarebbe fermato, e gli ordinava di rinnovare al Pontefice le richieste avvisandolo che l’Imperatore voleva esercitare sullo Stato romano la stessa influenza che esercitava a Napoli, in Spagna, in Baviera e negli Stati della Confederazione. “Alla prima bolla e pubblicazione del Papa contraria ai propositi di Sua Maestà, immediatamente, con la pubblicazione di un decreto, cancellerebbe la donazione di Pipino e Carlo Magno e riunirebbe gli Stati della Chiesa al Regno d’Italia. Questo provvedimento non avrebbe nulla di contrario all’autorità spirituale della Santa Sede; non è sulla sovranità di Roma che si è appoggiata la religione, e, se la condotta del Papa obbligasse ad emanare un tale decreto, sarebbe facile dimostrare i mali che il potere temporale ha prodotto alla religione ed opporre la vita umile di Gesù Cristo a quella dei suoi successori che si sono fatti re”.
Infine lo Champagny concludeva: “L’Imperatore vuole che il soggiorno delle sue truppe abitui il popolo di Roma a vivere con loro e le renda familiari agli abitanti con la corte di Roma, affinché, se la corte papale continua a mostrarsi così insensata com’è stata finora, essa cessi insensibilmente e senz’avvedersene di esistere come potenza temporale”.
Il 3 febbraio 1808, nelle prime ore pomeridiane, senza incontrare alcuna resistenza, i Francesi entrarono per la via Flaminia a Roma e nonostante le proteste del colonnello piemontese ANGELO COLLI, che comandava Castel S.Angelo, occuparono questa fortezza, mentre quattro cannoni erano posti in piazza del Quirinale con la bocca rivolta al Palazzo Pontificio e quattro in piazza Colonna. Pio VII, che sapeva di non poter opporre la forza alla forza temendo guai maggiori, quel giorno stesso protestò per i cannoni puntati sul suo palazzo, ottenendo che il Miollis ordinasse che fossero tolti, e pubblicò un proclama molto discreto e prudente, in cui informava di avere rifiutato alcune richieste imperiali, protestava per l’occupazione dei domini della Chiesa, di cui proclamava l’intangibilità; ed esortava i cittadini a non recare alcuna offesa ai Francesi che tanto affetto gli avevano dimostrato nel suo viaggio a Parigi, “Vicario in terra di quel Dio di pace, che insegna con il divino esempio suo la mansuetudine e la pazienza, non dubita che i suoi amatissimi sudditi metteranno ogni impegno a conservare la quiete e la tranquillità sia privata che pubblica”.
Il giorno dopo, l’Alquier fu ricevuto dal Papa e gli presentò il generale Miollis, con il quale il Pontefice si lagnò del modo con cui era stato trattato. A lui Pio VII dichiarò, che si sarebbe considerato come prigioniero, finché i Francesi fossero rimasti a Roma e che fino alla loro partenza non avrebbe acconsentito ad alcuna negoziazione. L’8 febbraio il Pontefice ricevette gli ufficiali dello Stato Maggiore francese ed ebbe per loro buone parole: “Noi amiamo sempre i Francesi; quantunque siano ben dolorose le condizioni nelle quali ci vediamo, siamo commossi dall’ossequio che ci prestate. Voi siete celebri in tutta Europa per il vostro coraggio, e dobbiamo rendere giustizia alle vostre sollecitudini per mantenere l’ordine e la disciplina”.
Sebbene i Francesi ostentassero grande ossequio verso il Pontefice, il generale Miollis faceva di tutto per ridurre al minimo l’autorità papale. Si impadronì della direzione delle poste e della polizia, fece arrestare numerosi laici ed ecclesiastici noti per i loro sentimenti avversi alla Francia, fece accompagnare alla frontiera napoletana, i cardinali Saluzzo, Pignatelli, Ruffo e Caracciolo per obbligarli a giurar fedeltà al nuovo Re di Napoli che non volevano riconoscere, ordinò che fosse perquisita la casa dell’ambasciatore di Spagna VARGAS e incorporò nelle truppe francesi le milizie pontificie, affinché, come scriveva il Viceré EUGENIO al colonnello Fries che ne aveva il comando, non ricevessero più ordini “da preti o da donne, bensì da altri soldati capaci di condurli al fuoco”. Alcuni ufficiali che rifiutarono di entrare nell’esercito francese o, appena entrati si dimisero, furono deportati nella fortezza di Mantova.
Verso la metà di febbraio l’Alquier fu richiamato a Parigi; il giorno 24 ricevuto del Pontefice per prender congedo da lui e per presentargli il LEFEBVRE, suo successore. Pio VII dopo aver protestato per la deportazione dei cardinali napoletani, disse all’Alquier energicamente: “Potete dichiarare a Parigi che, anche se mi facessero a pezzi o mi scorticassero vivo, io non accetterei di entrare nelle federazione. Siate pur certo che, malgrado tutti i tormenti che mi si sottoponete, la Chiesa non perirà mai”.
Continuarono le violenze francesi e continuarono le proteste della Santa Sede fatte attraverso il cardinale DORIA PAMPHILY che aveva sostituito nella carica di Segretario di Stato il CASONI. Il 21 marzo il Miollis intimò a tutti i cardinali – eccettuati gli ammalati e i vecchissimi – di tornare ciascuno al proprio paese. Dovettero partire i cardinali LITTA, LOCATELLI, DUGNANI, CRIVELLI, ROVERELLA, DELLA SOMAGLIA, BRASCHI, CASTIGLIONI (futuro Pio VIII), CARAFFA, GALEFFI, SCOTTI, TRAJETTO, VALENTI e DORIA. Quest’ultimo fu sostituito nella carica che ricopriva, dal cardinale romano GABRIELLI.
La misura era quasi colma. Questa volta il Papa non si accontentò di protestare, ma scrisse al cardinale Caprara di lasciare immediatamente Parigi. Il Caprara chiese i suoi passaporti e li ricevette insieme con una nota dello Champagny (3 aprile 1808) in cui era detto che i cardinali, essendo sudditi del sovrano del paese dov’erano nati, dovevano risiedere nel proprio paese e che il Pontefice, se non voleva perdere il dominio temporale e rimanere soltanto vescovo di Roma, doveva stringere con gli altri stati italiani una lega offensiva e difensiva. Contemporaneamente si mandava ordine al Lefebvre, incaricato di affari a Roma, di presentare al Pontefice un ultimatum, e, in caso di rifiuto, di chiedere i passaporti. Alla rottura diplomatica doveva seguire immediatamente l’annessione al Regno d’Italia di Urbino, Ancona, Macerata e Camerino, il cui decreto imperiale era già pronto.
L’ultimatum fu presentato il 13 aprile; ma una settimana prima i Francesi avevano commesso una gravissima violenza: un distaccamento era penetrato nel palazzo del Quirinale, aveva disarmato gli svizzeri e le guardie nobili ed aveva assunto la guardia del palazzo; gli ufficiali Altini, Braschi, Giustiniani e Patrizi, che avevano osato protestare, erano stati imprigionati in Castel S. Angelo. Una tale violenza non poteva certo benevolmente disporre il Papa alle concessioni; e Pio VII, difatti, rispose con un rifiuto e il 13 aprile, al Lefebvre andato in visita di congedo, disse: “Dite al vostro Imperatore che si sta scavando la fossa con le proprie mani”.
Partito il Lefebvre, si mandarono ad effetto le minacce che avevano accompagnato l’ultimatum. Il 22 aprile, il governatore di Roma monsignor CAVALCHINI fu arrestato e deportato a Fenestrelle di Piemonte, il 30, a Milano, fu pubblicato il decreto di annessione delle Marche, le quali dovevano formare tre dipartimenti del Regno d’Italia, del Metauro, del Musone e del Tronto. Pio VII, il 19 maggio, inviò una protesta al cav. ALBERT, rappresentante a Roma del Regno Italico, e un’altra la mandò ai ministri degli esteri; tre giorni dopo partì per i vescovi delle province usurpate una “Istruzione“, però firmata dal cardinale GABRIELLI, nella quale si accusava il “governo imperiale come invasore della Spirituale potestà e protettore di tutte le sette e di tutti i culti”, e s’ingiungeva a tutti, laici ed ecclesiastici, di “non accettare uffici e di non prestare altro giuramento che quello di fedeltà ed obbedienza in tutto ciò che non fosse contrario alle leggi della Chiesa”.
Se i Francesi pretendevano di più, i sudditi dovevano affrontare con serenità l’ira degli oppressori, pensando a “quel Divin Maestro che ai suoi, come nella vita futura promette eterni premi, così nella presente non predice che tribolazioni e persecuzioni e che perciò ha insegnato loro a non temere quelli che uccidono il corpo e più oltre non possono fare, ma a temere solo quello che può mandare l’anima e il corpo alla eterna perdizione”. Della “Istruzione” i Francesi vollero tener responsabile non il Papa ma il cardinale Gabrielli e, per vendicarsi di lui, il 16 giugno gli sequestrarono le carte e gli intimarono di lasciare entro due giorni Roma e di ritornare al suo vescovado di Senigaglia. Protestò il Pontefice, protestò lo stesso Gabrielli in una vibrata lettera al Miollis; ma a nulla valsero le proteste: trascorsi i due giorni, il cardinale fu costretto a partire e dovette recarsi sotto scorta a Senigaglia.
Allontanato il Gabrielli, fu scelto come Segretario di Stato il cardinale PACCA, uomo risoluto ed energico, che non si era lasciato intimorire dalle minacce del generale Miollis il quale aveva dichiarato di aver ricevuto l’ordine di fucilare chiunque si fosse opposto alla volontà imperiale; anzi il Pacca gli aveva risposto: “Generale, dal giorno del vostro ingresso a Roma avete dovuto convincervi che i ministri di Sua Santità non si lasciano intimidire da minacce. Da parte mia eseguirò fedelmente gli ordini, e lei faccia ciò che vuole e può”.
Dato il carattere del nuovo segretario di Stato e il fermo proposito del Pontefice di resistere fino all’ultimo al mandato del Miollis, i rapporti tra la Francia e la Curia Pontificia non potevano che farsi di giorno in giorno costantemente più tesi. Da un canto le violenze, dall’altro le proteste. Proteste vane perché i Francesi oramai erano i veri padroni di Roma e di tutto lo Stato: organizzavano la guardia civica e il corpo di gendarmeria da cui esigevano il giuramento di fedeltà, sorvegliavano le amministrazioni comunali, arrestavano pubblici ufficiali civili e militari, fra cui mons. BARBIERI fiscale generale e il marchese GILBERTI comandante di Foligno, e commettevano ogni sorta di violenze. Il 13 agosto drappelli di soldati francesi penetrarono negli uffici giudiziari, nelle case private dei magistrati Papali e nel palazzo del Quirinale.
Poco tempo dopo, il Miollis, temendo una rivolta a causa delle gravi notizie che giungevano dalla Spagna, fece chiudere in Castel S. Angelo mons. TOSI vescovo di Anagni, fece arrestare il cardinale ANTONELLI, prefetto della Sacra Penitenzeria, che fu mandato a Spoleto, e confinò monsignor AREZZO, governatore di Roma, in Corsica. Anche al Pacca si tentò di far violenza. Il 6 settembre due ufficiali francesi penetrarono nel suo ufficio del Quirinale e gli intimarono di partire entro ventiquattro ore per Benevento sua patria, dove sarebbe stato accompagnato da una scorta. Il cardinale rispose che non riceveva ordini dalla Francia, ma dal Pontefice e che avrebbe in proposito interrogato il suo sovrano; ma gli ufficiali gli proibirono di recarsi dal Papa e gli permisero soltanto di scrivergli un biglietto.
Informato così, Pio VII raggiunse il suo ministro e, rivoltosi ai due francesi: “Andate – disse – annunciate al vostro generale che io sono stanco di soffrire tanti insulti da parte di un uomo, che osa ancora chiamarsi cattolico. Non ignoro lo scopo di queste violenze; si vuole, separandomi a poco a poco da tutti i miei consiglieri, mettermi nell’impossibilità di esercitare il mio ministero apostolico e di difendere le ragioni della mia sovranità temporale. Ordino al mio ministro di non obbedire alle ingiunzioni di un’autorità illegittima. Sappia il vostro generale che per tradurlo prigioniero egli dovrà far atterrare tutte le porte del mio palazzo, e lo dichiaro fin d’ora responsabile di tutte le conseguenze di un sì enorme attentato”.
Per l’energico intervento del Pontefice il cardinale Pacca rimase a Roma, ma le violenze dei francesi non ebbero termine.
Nello stesso mese di settembre l’anconetano GIUSEPPE CANNI, colonnello al servizio borbonico siciliano e capo di uno dei tanti drappelli che si tenevano pronti nelle vicinanze di Roma per agevolare un’eventuale fuga del Papa, fu arrestato e, nonostante i reclami pontifici, fucilato.
Il 19 gennaio del 1809 il Miollis dichiarò prigioniero in casa l’ambasciatore spagnolo Antonio Vargas e gli fece sequestrare tutte le carte. Centoquaranta cittadini spagnoli, essendosi rifiutati di prestar giuramento al re Giuseppe, furono incarcerati. Avvicinandosi il carnevale, il Papa proibì le maschere e le feste pubbliche; il Miollis invece le permise e le organizzò, ma non riuscì a far divertire il popolo, che, quasi per protesta, il 2 febbraio fece trovar chiuse le finestre e rimase tappato in casa. Il 20 marzo però, anniversario dell’incoronazione di Pio VII, furono fatte grandi luminarie e Roma mostrò l’aspetto dei giorni di festa.
Nel maggio, dopo le prime vittorie contro l’Austria, accadde finalmente quel che da qualche tempo occupava la mente di Napoleone e che l’ Europa non pensava potesse avvenire. Il 17 di quel mese l’Imperatore emanava da Vienna il famoso decreto con il quale aboliva il potere temporale dei Papi e univa all’Impero gli Stati della Chiesa. “Considerando – egli scriveva – che, allorquando Carlomagno, Imperatore dei francesi e nostro augusto predecessore, fece donazione di parecchie contee ai vescovi di Roma, le donò per il bene di questi stati e che per questa donazione Roma non cessò di far parte del suo impero; che, in seguito, questo insieme di potere spirituale e di autorità temporale è stato ed è ancora sorgente di dissensi e ha portato spesso i Pontefici a impiegare l’influenza dell’uno per sostenere le pretese dell’altra; che, così, gli interessi spirituali e le cose celesti, che sono immutabili, sono stati mescolati agli affari terrestri, i quali per la loro natura cambiano secondo le circostanze e la politica del tempo; che tutto ciò che noi abbiamo proposto per conciliare la sicurezza dei nostri eserciti, la tranquillità e il benessere dei nostri popoli, la dignità e l’integrità del nostro impero con le pretese temporali dei Papi, non s’è potuto realizzare, noi abbiamo decretato e decretiamo quanto segue…”.
Seguivano 7 articoli in cui si stabiliva che gli Stati della Chiesa si riunissero all’Impero, che Roma fosse dichiarata città imperiale e libera, che alle quattro proposizioni della Chiesa gallicana i futuri Pontefici ne giurassero l’osservanza, che al Papa fosse assegnata una rendita annua di 2.000.000 di franchi, che Egli potesse risiedere in qualsiasi città dell’impero e i suoi palazzi e le sue terre fossero esenti da ogni imposta e avessero speciali immunità, e che i cardinali e il collegio di propaganda fossero mantenuti dallo Stato.
Con un secondo decreto si ordinava di formare una Consulta straordinaria, presieduta dal generale Miollis e composta dal Saliceti, dal Janet, dal De Gerando, dal Del Pozzo e da Cesare Balbo, la quale doveva curare il trapasso dal vecchio al nuovo regime, dividere il territorio in dipartimenti, nominare un senato di 60 membri ed applicare il Codice civile.
Il 10 giugno 1809 a suon di tromba il decreto imperiale fu notificato in Roma e contemporaneamente da Castel S. Angelo e da tutti gli edifici pubblici fu abbassata la bandiera pontificia per lasciare posto al tricolore francese. Pio VII ricevette la notizia con molta serenità e al Cardinal Pacca disse: “Consumatum est!”. Quindi indirizzò ai suoi sudditi un proclama: “Sono finalmente compiuti i tenebrosi disegni dei nemici della Sede Apostolica. Dopo lo spoglio violento ed ingiusto della più bella e considerevole porzione dei nostri domini, Noi ci vediamo con indegni pretesti e con tanto maggiore ingiustizia interamente spogliati della nostra sovranità temporale con cui è strettamente legata la nostra spirituale indipendenza. In mezzo a queste fiere persecuzioni ci conforta il pensiero che Noi incontriamo un così gran disastro non per alcuna offesa fatta all’Imperatore o alla Francia, la quale è stata sempre l’oggetto delle nostre amorose, paterne sollecitudini, non per alcun intrigo di mondana politica, ma per non aver voluto tradire i nostri doveri e la nostra coscienza”.
Il Pontefice continuava dichiarando nullo il decreto imperiale, e respingeva ogni rendita o pensione che l’imperatore voleva assegnare a lui e ai membri del Sacro Collegio, dichiarando che preferiva condurre vita misera anziché accettare il vitto da un usurpatore dei beni ecclesiastici.
Lo stesso giorno (10 giugno 1809) fu composta la bolla di scomunica “Quum memoranda”, che durante la notte fu affissa nelle basiliche di S. Pietro, di S. Giovanni Laterano e di S. Maria Maggiore e che subito dopo fu strappata dai Francesi.
Tuttavia questa scomunica è stesa in una forma ambigua, poiché nella bolla non è fatto il nome di Napoleone, ma si riferisce a coloro che hanno favorito, consigliato o approvato gli attentati diretti contro la Santa Sede. Non vuole pronunciare il terribile nome, e non sappiamo se è per mancanza di coraggio nell’assumersi questa grande responsabilità. Ma non dimentichiamo che è un Papa settuagenario, e in una circostanza come questa, questo Papa si eleva ad una delle altezze più eccelse, con un coraggio che è pari a quello napoleonico, ed affronta una delle lotte più disuguali e più eroiche che conosca la storia della Chiesa.
Il 20 giugno, avuta notizia della scomunica, Napoleone tornò a scrivergli: “Basta con gli accomodamenti; è un pazzo furioso e bisogna rinchiuderlo. Fate arrestare il cardinal Pacca ed altri aderenti del Papa”.
In queste lettere imperiali si parlava della possibilità dell’arresto del Papa, ma non si ordinava di arrestarlo; e certo se i Francesi, a Roma, avessero avuto i nervi a posto avrebbero evitato un atto che non poteva recar nessun vantaggio all’Imperatore. Ma in quei giorni i Francesi di Roma erano in grande agitazione. Il Quirinale rimaneva chiuso come se dentro si preparasse qualche cosa; si era sparsa la voce che Pio VII volesse il giorno di S. Pietro comparire in pubblico e percorrere le strade in processione con il Crocifisso in mano per sollevare i cittadini, e il generale RADET, mandato da Firenze a Roma per coadiuvare il Miollis, scriveva al ministro della guerra: “Il Papa governa con le punta delle dita molto meglio di noi con le nostre baionette”.
Questo stato d’animo suggerì le soluzioni più avventate. Fu alla fine stabilito, di arrestare il Pontefice. Il 5 luglio giunsero da Napoli a Roma 800 soldati al comando del generale PIGNATELLI CERCHIARA, e quel giorno stesso il Miollis avvisò il colonnello SIRES, direttore generale di polizia, di fare i preparativi per il colpo che doveva essere eseguito all’alba del giorno dopo.
Nelle prime ore del 6 luglio, mentre i soldati di Napoleone si preparavano ad attaccare gli austriaci nella pianura di Wagram, a Roma il generale Radet scalava in tre punti le mura dei giardini del Quirinale abbattendo, con l’aiuto di alcuni impiegati infedeli, le porte.
Seguito da soldati, gendarmi e borghesi filo-francesi e anticlericali, penetrava negli appartamenti del Pontefice, il quale si era già alzato e insieme al cardinal Pacca e ad altri prelati aspettava sereno. Il Radet, quando fu al cospetto del Capo della Chiesa, in nome del governo imperiale invitò a rinunziare al potere temporale. A lui rispose Pio VII:
“Noi non possiamo né cedere né abbandonare quello che non ci appartiene. L’Imperatore potrà farci a pezzi, ma non potrà ottenere questo da noi. Dopo quanto abbiamo fatto per lui dovevamo attenderci una simile condotta ?”.
E quando il Radet gli comunicò l’ordine di arresto……. soggiunse: “Ecco la ricompensa che mi è riservata per quanto ho fatto per il vostro Imperatore. Ecco il premio per la mia grandissima condiscendenza verso di lui e verso la chiesa di Francia! Ma forse sotto tale riguardo sono stato colpevole dinanzi a Dio; e adesso che vuol punirmi mi sottometto a Lui con umiltà”. Pio VII chiese due ore di tempo, ma non gli furono concesse; espresse il desiderio di essere accompagnato da alcune persone di sua fiducia, ma soltanto la compagnia del cardinal Pacca gli fu accordata; allora il Pontefice prese un breviario e un Crocifisso e, montato in una carrozza….
… si mise sulla via dell’esilio.
I due illustri viaggiatori non possedevano che pochi quattrini e, avendo il cardinale osservato: “Viaggiamo proprio all’apostolica”, il Papa esclamò: “È ciò che mi resta del mio principato”.
Accompagnato dal Radet e da una scorta di gendarmeria, Pio VII fu condotto a Firenze, in quella Certosa che dieci anni prima aveva accolto Pio VI; poi a Genova, Alessandria, Torino, Grenoble, Valenza infine Avignone. Separato dal cardinal Pacca, che fu invece rinchiuso nel forte di Finestrelle. Ma con il passar del tempo il Papa in Francia iniziò a diventare un peso ingombrante, e fu ricondotto in Italia e, per Nizza, Monaco, Oneglia e Finale giunse il 17 agosto a Savona, dove, rigorosissimamente sorvegliato, dapprima era stato alloggiato nella casa del conte Egidio Sansoni, sindaco della città, poi si era stabilito nel palazzo vescovile, dove in apparenza era libero, ricevendo pellegrini, che da ogni parte accorrevano a vederlo, e dando udienza, ma in realtà era prigioniero, perché sempre sorveglialo da spie, da funzionari e da soldati; pur non mancandogli gli agi, l’Imperatore in persona aveva ordinato che fosse circondato.
Le apparenti cure che l’Imperatore aveva prestabilito per il Papa avevano un duplice scopo: mostrare al mondo cattolico che il Capo della Chiesa era circondato del massimo rispetto, e tentare di addolcire l’animo di Pio VII per potersi riconciliare con lui. Ma se il primo scopo si poteva con relativa facilità conseguire, impossibile era raggiungere il secondo, perché Napoleone, se da un canto faceva colmare d’ipocrite cortesie il Papa, dall’altro lo inaspriva sempre più con atti che menomavano quella stessa autorità spirituale che l’Imperatore aveva dichiarato di riconoscere nel Pontefice.
Ma le sofferenze del Papa non si conclusero in prigione. Il 17 febbraio 1810 Napoleone proclamava il diritto imperiale su Roma e sul suo territorio, che fu diviso in due dipartimenti, del Tevere e del Trasimeno. Roma era proclamata città libera e in questa doveva risiedere un principe consanguineo dell’Imperatore o un altro dignitario della sua corte; inoltre Napoleone, per solennizzare il suo decimo anno di regno, avrebbe ricevuto una nuova consacrazione in S. Pietro. L’erede del trono avrebbe portato il titolo di Re di Roma. Nel senatoconsulto inoltre si stabilì che i Papi, appena eletti, dovevano giurare rispetto alle quattro preposizioni gallicane del 1682, che erano estese a tutto l’impero. Inoltre, per trattare gli affari religiosi, Napoleone aveva costituito una commissione ecclesiastica composta dal cardinale MAURY, vescovo di Montefiascone, dal DE BARRAL, arcivescovo di Tours, dal CANAVERI, vescovo di Vercelli, dal DUVOISIN, vescovo di Nantes, dal FONTANA, generale dei Barnabiti, e dall’abate EMERY. A questa commissione l’Imperatore, nel gennaio del 1810, aveva proposto una serie di “questioni” intorno ai diritti imperiali di fronte alla Chiesa, ai rapporti dei vescovi con il Pontefice e alle proprie controversie con il Papa; inoltre aveva costituito una “Ufficialità diocesana metropolitana e primaziale”, che concesse all’Imperatore di annullare il suo matrimonio con Giuseppina, per sposare MARIA LUISA, figlia dell’imperatore d’Austria.
Questo matrimonio, che avvenne il 2 aprile, alienò maggiormente da Napoleone l’animo di Pio VII, in primo luogo perché una causa che spettava al Pontefice era stata giudicata da un tribunale ecclesiastico non autorizzato e riconosciuto, in secondo luogo perché 13 cardinali, non avendo voluto partecipare alla cerimonia religiosa delle nozze imperiali, furono privati della pensione e costretti a lasciare la porpora (il che valse loro il nome di “cardinali neri“: essi furono gli italiani CONSALVI, BRANCADORO, DI PIETRO, GABRIELLI, DELLA SOMAGLIA, MATTEI, OPIZZONI, PIGNATELLI, GALEFFI, LITTA, RUFFO, SCOTTI, SALUZZO) per essere relegati in varie città della Francia.
C’era infine la questione della nomina dei vescovi. Circa 20 ne aveva nominati Napoleone, ma Pio VII non voleva dare loro l’istituzione canonica. Tentò nel maggio il METTERNICH di riconciliare, per mezzo del Lebzeltern, Imperatore e Pontefice, ma non vi riuscì; il tentativo fu ripetuto nel luglio dai cardinali SPINA e CASELLI ma sempre con risultato negativo. Allora Napoleone invitò i vescovi da lui nominati a prender possesso delle loro diocesi; però, avendo Pio VII spedito un Breve in cui dichiarava intrusi i nuovi eletti, questi trovarono delle opposizioni da parte del clero delle diocesi loro assegnate, opposizioni che furono vinte con arresti e deportazioni. Più vivaci furono le opposizioni degli ecclesiastici dell’ex-Stato Romano al giuramento di fedeltà, ma non meno energici furono i provvedimenti di Napoleone, che soppresse 20 vescovadi, deportandone in Francia i titolari, e relegò nell’Italia settentrionale parecchie centinaia di parroci.
Dopo il breve incontro con i vescovi nominati da Napoleone, Pio VII fu trattato con molto rigore e senza consueti segni di onore; gli furono cambiati i domestici, non gli fu lasciata alcuna persona di fiducia, fu sottoposto alla sorveglianza più rigida e gli furono perfino tolti i libri e l’occorrente per scrivere.
Il 6 gennaio 1811, in una solenne udienza, il card. Maury lesse un “indirizzo” con il quale, commemorate le quattro proposizioni gallicane del 1682, affermava l’autorità dei capitoli ad eleggere i vescovi nominati dal sovrano. In tal modo il Pontefice era messo completamente in disparte! Tale indirizzo fu tuttavia approvato non solo da tutti i capitoli di Francia, ma anche da tutti, o quasi, quelli del Regno d’Italia: e questo forse avvenne non tanto per paura di rappresaglie da parte del governo, quanto per il prestigio straordinario che allora godeva l’Imperatore. Davanti a lui tutte le opposizioni avevano ceduto: dominatore dell’Europa, vincitore dei partiti politici che a gara lo esaltavano, egli aveva ai suoi piedi tutte le Chiese e ormai sperava di sottomettere anche il Papa.
Il 5 marzo 1811, la Commissione ecclesiastica, da lui interrogata, espresse il parere che, allorché fossero disgraziatamente rotte le comunicazioni fra il Papa e i fedeli, i vescovi potessero dare le solite dispense concesse dalla S. Sede. La Chiesa di Francia poteva provvedere da sé alla propria conservazione, facendo a meno dell’investitura pontificia dei vescovi. Proponevano un concilio nazionale e le deliberazioni uscite da questo, ratificate dall’Imperatore, si dovevano presentare all’approvazione del Papa. Se questi si rifiutava di sanzionarle, i vincoli con la Santa Sede potevano essere finalmente spezzati. Napoleone, assai soddisfatto di questa risposta, non si contentò: egli non era re di Francia, ne era l’Imperatore, e perciò avrebbe preferito un Concilio Ecumenico canonicamente raccolto dal Papa. Infatti, non voleva diventare il capo della Chiesa francese, bensì essere l’arbitro dell’intera Chiesa Cattolica. Mandò allora a Savona, nel maggio 1811, un arcivescovo e due vescovi con un indirizzo firmato da tutto l’alto clero residente a Parigi. Pio VII, assediato e insidiato da ogni parte, finì con il fare qualche concessione, soprattutto per paura che dal concilio uscissero, insieme con lo scisma, mali maggiori. Pertanto prometteva di dare l’istituzione ai vescovi nominati secondo le forme del Concordato, il quale era esteso a Parma e alla Toscana, e inoltre dichiarava che, se dopo sei mesi non avesse ancora concesso le bolle d’investitura agli ecclesiastici scelti dall’Imperatore, il metropolitano della Chiesa vacante o, mancando questo, il vescovo più anziano della provincia, sarebbe stato autorizzato a concedere lui stesso le bolle medesime in “nome del Papa”.
Queste ultime parole miravano a salvare il principio della supremazia pontificia almeno sulla Chiesa, anche se, di fatto, il Papa rinunciava ad ogni sua autorità, dal momento che, né sceglieva i vescovi, né poteva negare loro l’investitura. L’importanza di simili concessioni non sfuggì a Pio VII, il quale dichiarò di aver fatto questo passo “nella speranza soltanto che queste (le concessioni) avrebbero preparato la via agli accomodamenti che avrebbero ristabilito l’ordine e la pace della Chiesa restituendo alla Santa Sede la libertà, l’indipendenza e la dignità che a lei conveniva”.
Questa riserva naturalmente non piacque a Napoleone, tanto più che Pio VII, timoroso di aver compromesso gli interessi supremi della Chiesa, andava ripetendo in alcune lettere al card. Fesch che le concessioni fatte sulla nomina dei vescovi s’intendevano nulle se l’Imperatore non restituiva al Papa, i suoi Stati e la sua libertà. Perciò il Concilio, che era stato convocato con lettera del 25 aprile, si raccolse ugualmente (17 giugno 1811).
Napoleone voleva che Pio VII capitolasse senza condizioni, sottomettendosi nel medesimo tempo all’autorità imperiale e a quella del Concilio. Furono 95 i vescovi partecipanti al Concilio di Parigi, e furono anche presenti, come commissari imperiali, BIGOT di PRÉAMENEAU, ministro dei culti, e il MARESCALCHI, ministro del Regno d’Italia, i quali, fin dall’inizio, riuscirono a capire come i convenuti non erano per nulla disposti ad accettar senza discutere tutto ciò che voleva l’Imperatore. All’approvazione del Concilio fu dai commissari imperiali proposto un decreto, il quale stabiliva che le nomine dei vescovi dovevano farsi secondo le forme del Concordato e che l’istituzione canonica, se il Pontefice non la concedeva entro sei mesi, doveva esser data dal metropolita.
Come si vede, erano le concessioni verbali fatte da Pio VII, ma non si faceva parola della fondamentale condizione voluta dal Papa che cioè i metropoliti avrebbero dato l’investitura in suo nome. Il concilio, a maggioranza, rifiutò di approvare il decreto senza l’autorizzazione scritta del Pontefice, e Napoleone ne rimase così indignato che ordinò l’arresto di tre vescovi e lo scioglimento del Concilio (12 luglio). Ma ciò che l’Imperatore non aveva potuto ottenere dal Concilio, l’ottennero i ministri del culto dai singoli membri dello stesso, i quali posero la loro firma al decreto, confermando la verità di quanto il cardinal Maury aveva detto: “il vino non buono in botte riesce meglio in bottiglie”. Dopo di ciò il Concilio fu convocato di nuovo (3 agosto), il decreto fu nuovamente proposto all’approvazione e di 80 vescovi presenti soltanto 10 votarono contro.
Una delegazione, fra cui era il cardinale FABRIZIO RUFFO, si recò subito a Savona e indusse Pio VII ad approvare, con qualche lieve modificazione, il decreto; ma il Pontefice, dietro consiglio del cardinale Spina, per non riconoscere la legittimità del Concilio ed affermare di fronte ad esso la sua superiorità, diede l’approvazione sotto forma di Breve indirizzato ai vescovi riuniti a Parigi e nello stesso aggiunse le parole “in nome del Papa” a quell’articolo con il quale si concedeva ai metropoliti di dare l’investitura. Il principio era salvo.
Dopo il concilio di Parigi Pio VII continuò a rimanere a Savona, segregato e sorvegliato come prima, fino a quando Napoleone, sia per timore che riuscisse a fuggire con l’aiuto degli Inglesi, sia per poterlo meglio piegare alla sua volontà, ordinò che fosse condotto a FOINTAINBLEAU nella massima segretezza. La notte dall’8 al 9 giugno del 1812 fu fatto travestire da prete e con la scorta di un cameriere, del medico Porta e del capitano Lagorse, per Novi, Alessandria e Susa, giunse il 12 al Moncenisio. Qui dovette fermarsi tre giorni perché ammalato (non dimentichiamo che ha 72 anni!) e fu richiesta l’opera di un chirurgo di Lanslebourg, un certo CLAROZ, il quale, quando la sera del 15 giugnio il Pontefice si rimise in viaggio, lo accompagnò fino a Fontainebleau, dove il 19 giugno Pio VII giunse, in modo alquanto diverso da quello in cui vi era arrivato otto anni prima.
Dopo qualche giorno ebbe inizio la campagna di Russia: per Napoleone fu un disastro;
l’inizio della fine era cominciata.
Nel 1813 Napoleone tentò nuove trattative con il Papa. Furono deliberati 11 articoli per un nuovo Concordato (di Fointanbleau, 25 gennaio 1813) …..
… in cui si prevedeva che il Papa avrebbe avuto la sua sede in Italia o in Francia con un appannaggio annuale di 2.000.000 di franchi, che avrebbe conferito l’istituzione canonica dei vescovi secondo le disposizioni del Concilio parigino, mantenendo, però, il pieno diritto solo per i 6 vescovi suburbicari del Lazio e per altri 10 da specificarsi, mentre tutti gli altri vescovi dell’Impero sarebbero stati nominati dall’Imperatore. Ulteriori pretese furono respinte tenacemente da Pio che aderì a quelle citate solo a causa di aperte minacce che contribuirono a peggiorare il suo stato di prostrazione fisica.
Mentre Napoleone faceva solennizzare con un Te Deum in tutte le chiese la conclusione della pace e la pubblicava come CONCORDATO DI FOINTANBLEAU, il Papa attorno al quale si erano adunati i cardinali ora divenuti liberi, era tormentato da gravi ansie di coscienza, specialmente per la rinuncia indiretta allo Stato Pontificio. Perciò in uno scritto autografo del 23 marzo 1813, scomparso dagli archivi francesi e riapparso solo nel 1962, ritirò le concessioni fatte e invitò l’Imperatore a intavolare nuove trattative.
Non fu necessario perchè la potenza di Napoleone si andava sfasciando repentinamente fino al punto in cui, il 6 aprile 1814, abdicò in favore di suo figlio rinunciando alla totalità dei suoi poteri.
Con un Breve del 4 maggio 1814, inviato a Cesena, Pio VII diceva ai Romani che “nutriva ardente brama di migliorarne le sorti e stringerli al seno, come un tenero padre stringe con trasporto i figli amorosi dopo lungo ed amaro pellegrinaggio” ed annunziava loro l’arrivo del cardinale Rivarola. Questi – secondo quel che il Breve diceva – doveva riprendere per il Pontefice e “rispettivamente per la Santa Sede Apostolica, tanto in Roma quanto nelle province, col mezzo di altri subalterni delegati, dal Papa prescelti, l’esercizio della sua sovranità temporale legata con vincoli tanto essenziali con la sua indipendente supremazia. Egli procederà di concerto con una commissione di stato, dal Papa nominata, alla formazione di un governo interino, e darà tutte quelle disposizioni le quali potranno condurre, per quanto le circostanze lo permettono, alla felicità dei fedelissimi sudditi”.
L’11 maggio il Rivarola assumeva il governo dei dipartimenti (del Tevere e del Trasimeno) e due giorni dopo pubblicava un editto con il quale dichiarava abolito il codice napoleonico, civile, commerciale, penale e di procedura; richiamava in vigore l’antica legislazione civile, criminale e giudiziaria, sopprimeva i diritti di registro, la carta bollata e il demanio e sospendeva fino ad ulteriore determinazione i diritti feudali. Per provvedere temporaneamente agli affari urgenti dello stato il Rivarola nominò una commissione di governo che fu composta da mons. RUSCONI, cui fu affidata l’amministrazione dell’Archiginnasio, della Sapienza, dell’Università Gregoriana, delle altre scuole e biblioteche, delle poste, delle antichità e dell’edilizia; di mons. SANSEVERINO, che fu preposto alla guerra, alla marina, alle acque, alle strade, agli archivi e alla zecca; di mons. PEDICINI e di mons. BARBERI, cui fu data la cura degli affari ecclesiastici della sacra consulta e delle santità, e di mons. CRISTALDI, incaricato agli affari del buongoverno e della beneficenza.
Il cav. GIUSTINIANI fu eletto governatore di Roma e presidente delle carceri, il marchese ERCOLANI tesoriere generale, il conte PARISANI direttore dell’annona e della grascia.
Il 24 maggio 1814, da Savona, Pio VII fece il suo solenne ingresso a Roma.
E questa volta Napoleone non potè che restare a guardare durante il suo forzato soggiorno all’Isola d’Elba (maggio 1814 – marzo 1815), fantasmatico sovrano dell’isola su cui ripristinerà una pallida imitazione della sua passata corte.
Un breve sussulto si ebbe quando, sfuggendo alla sorveglianza inglese, Napoleone riuscì a rientrare in Francia nel marzo 1815 dove, sostenuto dai liberali, tentò di instaurare un secondo ma breve Regno, conosciuto con il nome di “Regno dei Cento Giorni”. Il Papa dovette rifugiarsi per breve tempo a Genova. La nuova e riconquistata gloria non durerà a lungo: presto le illusioni di ripresa verranno cancellate dal disastro seguito alla battaglia di Waterloo, ancora una volta contro gli inglesi. La storia si ripete, dunque, e Napoleone deve nuovamente abdicare al suo ripristinato ruolo di Imperatore il 22 Giugno 1815.
Unico vincitore morale sul geniale eroe della storia mondiale fu Pio VII che, il giorno dopo, concedeva un generale perdono con un bando in cui, però, vi erano anche enunciate parole di ammonimento: “La giustizia reclami la punizione di chi si era reso disubbidiente alle istruzioni ed ai decreti del Capo visibile della Chiesa e infedele ai doveri verso il legittimo sovrano; ma la pietà alzando più potente la voce fa tacere il meritato rigore della legge. Ora non potendo il Santo Padre resistere agli impulsi del suo animo pietosissimo, condona generosamente ai suoi sudditi ogni pena corporale fossero incorso per infedeltà al pontificio governo; ma protesta peraltro che se taluno si abbandonasse a nuova colpa consimile, cesserebbero per lui i benigni effetti di questo perdono e si riunirebbero a suo carico insieme con i nuovi anche i passati trascorsi, né potrebbe andare esente dalla severità del meritato castigo”.
Ormai in mano agli inglesi, questi assegnarono a Napoleone come prigione la lontana isola di Sant’Elena, dove prima di spegnersi il 5 maggio 1821, evocherà spesso con nostalgia la sua isola natale, la Corsica. Il suo rammarico, confidato alle poche persone che gli erano rimaste vicine, era quello di aver trascurato la sua terra, troppo occupato in guerre ed imprese.
Col suo ritorno a Roma Pio VII volle cancellare dal suo Stato ogni traccia del governo napoleonico, ed anziché dedicarsi, come mons. GIUSEPPE ANTONIO SALA lo esortava, alla “grande opera di quella universale riforma, che Iddio vuole da noi e che tutti i buoni ardentemente sospirano”, rimise in vigore tutto quel che cinque anni di dominazione francese avevano fatto dimenticare. Così il 30 luglio erano rimessi in vita i diritti feudali e il 7 agosto, con la famosa bolla “Sollicitudo omnium“, era ristabilito in tutto il mondo cattolico l’Ordine dei Gesuiti, che lo stesso Pontefice, con Breve del 7 marzo 1801, aveva ristabilito solo nell’impero Russo e, con Breve del 30 luglio 1804, nei regni di Napoli e Sicilia.
Al CONGRESSO DI VIENNA (22 settembre 1814 – 10 giugno 1815) l’abilità diplomatica del Consalvi, ridivenuto segretario di stato, riusci ad ottenere, nel giugno 1815, la restituzione dello Stato Pontificio “Non è certamente – concludeva la nota – per spirito di dominazione (crede averne date sufficienti attestazioni) che il Santo Padre richieda che la Santa Sede sia reintegrata nella totalità dei suoi possessi. Il Santo Padre obbligato dai suoi più stretti doveri, come amministratore del Patrimonio di San Pietro e per i giuramenti solenni da lui fatti, a conservarlo, a difenderlo, a recuperarlo”.
Ritornato a Roma, il CONSALVI riprese le redini dello stato, cercò di inaugurare un governo giusto ed onesto e di attuare alcuni necessari provvedimenti – era imprudenza chiamarli riforme – date le mutate condizioni della popolazione. Molti furono gli ostacoli incontrati e non tutti fu in grado di superarli, tuttavia riuscì col Motuproprio del 6 luglio 1816 a metter su un ordinamento amministrativo e giudiziario, che nonostante le sue imperfezioni, segnava un progresso non lieve sulle legislazioni precedenti. Purtroppo l’Austria, e lo stesso Stato Pontificio non apprezzò molto la sua opera. Nel preambolo del Motuproprio sono esposti i motivi che consigliarono il governo pontificio a dare allo Stato quel nuovo ordinamento: “Se pertanto in una gran parte dei domini, distaccati da lungo tempo dal pontificio governo, il ripristinamento degli antichi metodi si rende pressoché impossibile, o tale, almeno, che non possa ottenersi senza un notabile disgusto o incomodo delle popolazioni, diviene indispensabile, per l’integrità del corpo e per la riunione di tutte le membra, lo stabilimento di un sistema che tutte le comprenda nella medesima uniformità“.
Lo Stato pontificio fu diviso in 20 “province”: 5 (Roma con la Comarca, Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì) governate da cardinali legati e perciò dette “legazioni”; le altre 15 da monsignori delegati e dette quindi “delegazioni”. Ogni provincia era suddivisa in “mandamenti” detti “governi”, retti da un governatore di nomina regia; ogni governo comprendeva parecchi “comuni” amministrati da “Consigli Comunali”. Questi, per la prima volta, erano nominati dai Cardinali Legati o dai Monsignori Delegati fra i professionisti, il clero, i possidenti, i negozianti e gli uomini di lettere; essi stessi, in seguito, rinnovavano annualmente un quinto dei loro membri, confermando gli uscenti o sostituendoli con nuovi eletti. Da un elenco di nomi proposti dai Consigli Comunali, i Legati e i Delegati sceglievano i membri delle “Magistrature Municipali”, che si componevano di quattro o sei “anziani” e di un capitano detto nelle città “gonfaloniere” e nei paesi “priore”. Un “senatore” ed otto “conservatori” tenevano l’amministrazione municipale di Roma; i membri del Consiglio comunale di Bologna, in numero di 48, erano chiamati “probiviri” e in mezzo ad essi era scelta la magistratura, composta di un senatore e sei conservatori.
L’ordinamento giudiziario fu il seguente: i governatori avevano le funzioni di giudici di pace in tutto lo Stato, due a Roma, uno a Macerata e uno a Bologna; vi erano infine due tribunali supremi, quello della Segnatura, per le cause penali e quello della Sacra Rota per le cause civili. Accanto a questi tribunali funzionavano i tribunali ecclesiastici, del Campidoglio, della Congregazione dei vescovi, della dataria, della congregazione del buon governo, della camera, dell’uditore, del tesoriere, degli assessori comunali, del presidente della grascia, del giudice dei mercenari, dei giudici dell’annona, dei giudici dell’agricoltura, del cardinal vicario, dei commissari della fabbrica di S. Pietro. Fu prescritto l’uso della lingua italiana affinché i litiganti potessero “conoscere lo stato e l’andamento dei loro affari”, fu ammesso il confronto dei testimoni davanti ai giudici, s’istituirono giudici processanti e l’avvocato dei poveri, fu abolita la tortura, ma si conservarono le giurisdizioni eccezionali dell’Inquisizione, della Congregazione dei Vescovi, del Prefetto dei palazzi apostolici.
Basi fondamentali della parte legislativa furono il privilegio agnatizio nella successione, la perpetua minorità della donna, il ripristinamento dei fidecommissi, la facoltà di farne di nuovi e di istituire la causa pia. Nelle Marche e nelle Romagne furono abolite le giurisdizioni baronali; nelle altre province furono lasciate, ma essendosi fatto obbligo ai feudatari di sostenere tutte le spese occorrenti all’amministrazione della giustizia, quasi tutti i baroni rinunziarono e la giurisdizione baronale rimase di fatto soppressa in quasi tutto lo stato.
Perché le imposte fossero ripartite più equamente si stabilì il rinnovo del catasto rustico e urbano, e perché il pubblico denaro fosse meglio amministrato si ordinò che ogni anno, non più tardi del primo d’aprile, tutti gli amministratori delle finanze pubbliche rendessero conto al Tesoriere generale e che questi, entro il primo di giugno presentasse i conti verificati alla Camera Apostolica. Infine si prometteva la pubblicazione dei nuovi codici.
Nello stesso tempo venivano regolarizzate le relazioni della Curia con gli Stati europei mediante la conclusione di Concordati con il Piemonte (1817), la Baviera (1817), la Russia per la Polonia (1817), le Due Sicilie (1818), la Prussia (1821), mentre, per quel che riguarda la Francia si tornava al Concordato del 1801. Pio VII diede, infine, nuovi impulsi all’opera missionaria riorganizzando la Congregazione di Propaganda Fide e la penetrazione cattolica nel Medio ed Estremo Oriente.
Ma l’Italia e l’Europa intera erano profondamente cambiate; venti liberali spiravano sempre più impetuosi. Nello Stato Pontificio, dopo il fallito tentativo rivoluzionario di Macerata (1816-1817) subito represso salle truppe papaline, il movimento settario aveva avuto un periodo di rallentamento, ma ben presto le società segrete avevano ripreso la loro attività. Fino al 1817, infatti, pare che i settari più forti erano stati i “Guelfi”, ma nell’ottobre di quell’anno si fusero con i “Carbonari” in una società sola mediante la cosiddetta “Costituzione latina” escogitata da COSTANTINO MUNARI e adottata dai settari di Romagna in un convegno tenuto nel palazzo Ercolani di Bologna. Allora la propaganda settaria s’intensificò così tanto che pochi mesi dopo, sotto la protezione di cardinali reazionari quali il RUSCONI, l’ALBANI e il CASTIGLIONI, si costituì, con un programma ferocemente reazionario, la setta dei “Sanfedisti“.
Il cardinale Consalvi sorvegliava con grande diligenza l’attività delle sette liberali, ma più che su queste, da lui ritenute non pericolose, vigilava (e a ragione) sull’Austria della quale conosceva le mire sulle Legazioni; infatti, scoppiata la rivoluzione di Napoli, si dichiaravò contrario all’intervento austriaco nel Regno delle Due Sicilie ed opponeva un reciso rifiuto al Metternich il quale chiedeva che gli eserciti austriaci presidiassero lo Stato Pontificio. Ma intanto Pontecorvo e Benevento si ribellarono costituendosi in governi indipendenti, e in tutto lo Stato i settari si agitarono, destando grande preoccupazione nel governo pontificio, il quale, intensificò la vigilanza, riuscendo nell’ottobre del 1820 ad arrestare, a Macerata e in altre città delle Marche, una decina di persone, di cui cinque, e cioè ALESSANDRO CELLINI, LIVIO AURISPA, ANTONIO FIORETTI, BENEDETTO ILARI E GIUSEPPE PASSINI, furono poi condannati ad alcuni anni di segregazione nella fortezza di Civitacastellana.
Questi arresti crearono lo scompiglio fra i rivoluzionari marchigiani; alcuni si rifugiarono in Abruzzo e vi costituirono la “Legione romana” comandata dal maceratese VINCENZO PANNELLI, la quale, nel febbraio del 1821, con il proposito di indurre i sudditi del Pontefice ad insorgere, si spinse fino a Ripatransone, in provincia di Ascoli, ma, non sostenuta dalle popolazioni ed affrontata dalle truppe pontificie, si disperse. Dei legionari, alcuni furono fatti prigionieri subito, altri, fra cui il Pannelli, furono catturati a Messina, dove erano riparati, e consegnati al governo papale; altri riuscirono a mettersi in salvo.
Intanto nelle Romagne l’attività delle sette era tale ed i delitti di sangue erano tanti che il cardinale Consalvi, temendo che l’Austria, preoccupata dell’esistenza di società segrete ai confini del Lombardo-Veneto, occupasse le Legazioni, ordinò ai cardinali SANSEVERINO e RUSCONI, legati delle province di Forlì e di Ravenna, di cacciare o di confinare (e non di ammazzare) i liberali più impetuosi. I due legati eseguirono gli ordini senza misura e discernimento provocando una vivissima agitazione nelle Romagne, che trovò perfino eco sdegnato nella stampa estera e suggerì al cardinal Consalvi una lettera al Sanseverino datata 1 agosto 1821: “Tutti gli esiliati o gli arrestati esclamano tutti contro la tirannia e l’abuso della forza. Tutti dicono d’avere almeno il diritto di essere sentiti e di discolparsi costituendosi in un forte. Come negarsi a tale giusta istanza? O almeno, come lusingarsi che ad altri entri nella testa che si possa saltar sopra ad ogni forma e ad ogni regola? […] Dividendo il futuro dal passato, il partito da prendersi per il futuro non è difficile, astenendosi cioè (salvo il caso che i cattivi esigano provvidenze contro i loro portamenti) astenendosi dico, almeno per ora, da nuovi arresti e nuovi colpi. Ma quanto al passato, lì sta la difficoltà, non essendo possibile di mantenere fermi tanti numerosi arresti e tante procedure e dovendosi badar bene, dall’altra parte, a non svistare, non disgustare, infine a non urtare con tutti gli altri”.
Il 13 settembre del 1821, Pio VII, sollecitato da alcuni sovrani e specialmente da Francesco I, lanciava contro tutti i settari e in particolar modo contro i Carbonari, con la bolla “Ecclesiam a Jesu”, la scomunica; ma né questa né le proscrizioni e gli arresti valsero a scoraggiare i settari, anzi inasprirono maggiormente i loro animi e si ebbe una lotta silenziosa, ma feroce tra liberali e “Sanfedisti“, che fu la causa di un iniquo spargimento di sangue. I disordini andavano di giorno in giorno aumentando e le sette, invano perseguitate, acquisivano vigore.
E fu proprio in questo clima di disagio generale che Pio VII si spense, stremato dalle fatiche, il 20 agosto del 1823, all’età di 81 anni, dopo 23 anni e mezzo di pontificato. Ci piace ricordarlo con le sue stesse parole (Etsi longissimo, Breve del 1816): “Noi siamo rappresentanti di Colui che è il Dio della pace e che, nascendo per redimere il genere umano dalla tirannide del demonio, volle annunciare la pace agli uomini; abbiamo creduto che questo sia proprio di quella funzione apostolica che, sebbene senza merito, esercitiamo”.
Biografia curata da Pasquale Giaquinto