I tragici fatti di Itri, del 1911, e gli errori di G. Antonio Stella di Alfredo Saccoccio
Il “Corriere della Sera” del 7 luglio 2011 pubblicò un pezzo a firma del noto editorialista Gian Antonio Stella, contenente molte inesattezze sui sanguinosi fatti di Itri, che tanta eco ebbero in Italia, conseguenza di uno stato intollerabile di cose, dovuto al contegno dell’elemento sardo, che, da parecchio tempo, per i lavori della direttissima Roma-Napoli, risiedeva nella cittadina aurunca. Questi operai isolani, indisciplinati, spavaldi ed arroganti, rifiuto della loro terra pur così fertile di anime buone e di forti intelligenze, vollero nel paese altrui esserne padroni e anziché mostrarsi grati verso coloro che gentilmente li ospitavano, assunsero l’atteggiamento di conquistatori.
Dall’epoca del loro arrivo, essi si resero protagonisti di continue rapine e di furti di bestiame, persino di galline, per affermare la loro superiorità. Spesso ad Itri, nel 1911, avvenivano attentati con la dinamite alle case, alcune delle quali furono scassinate. Gli attentati avvenivano continuamente. Lo dice il caporale dei Regi Carabinieri, Mignone, nell’udienza del 26 febbraio 1914. Dinamite reperibile solo nei cantieri, che costituivano per i minatori sardi il fastigio della potenza con cui affermare la loro superiorità di fronte al paese che li ospitava, di fronte ai tranquilli e laboriosi cittadini itrani. Alcuni di essi delimquono con una volontà rara: tre sardi scannarono e derubarono il carrettiere Michele Di Biase, un itrano universalmente stimato, padre di numerosa prole. Altri ferirono il contadino Antonio Del Bove, altri ancora dettero a due creaturine innocenti delle pasticche di sublimato, perché le ingoiassero come zuccherini. Mani sacrileghe sarde derubarono il santuario della Madonna della Civita.
La causa scatenante, un fatto che esacerbò l’intera cittadinanza fu poi che una donna itrana, in aperta campagna, fu violentata da cinque o sei sardi che avevano legato il marito ad un albero. La narratrice nuorese Grazia Deledda, Premio Nobel per la letteratura nel 1926, scaglia, nelle sue opere, pugnalate contro i costumi dei suoi corregionali. Ella, che contribuì alla conoscenza della Sardegna, gettando una luce particolare su un’isola arcaica e nel contempo misteriosa, con uomini piegati dalla sorte come “canne al vento”, è di una crudeltà e di una ferocia zoliana contro i sardi, di cui sciorina al sole, con spietatezza, direi con gusto matto, la miseria morale e la natura portata alla violenza. Siamo a soli due anni dai fatti di Itri.
Tralascio le considerazioni di Cicerone, che tacciava i sardi di allora di “ladroni vestiti di pelliccia”, di Strabone, di Lamarmora, di Joseph De Maistre, responsabile della cancelleria sabauda e dello scienziato francese Elisée Reclus, che deplorava come vergogna europea la condizione “leggendaria” della Sardegna. Per Gian Antonio Stella l’origine del dissidio tra la popolazione itrana e i sardi che lavoravano alla costruzione della ferrovia sarebbe dovuto al fatto che questi si sarebbero rifiutati di pagare la tangente alla camorra che regnava in Terra di Lavoro, di cui Itri ha fatto parte fino al 1927. Tutto ciò è diffamante. Da quale elemento egli ricavò questo affare del pizzo camorristico preteso dagli operai sardi ? Della camorra ad Itri non esisteva traccia di sorta, come testimoniò l’inchiesta fatta dai sardi, per cui l’asserzione diffamatoria è del tutto gratuita, senza alcun riscontro. Chi parla di camorra per la vicenda itrana, non adduce la mimima prova. Prima di lanciare una tale accusa, lo Stella avrebbe dovuto assicurarsi da quale regione e da quale scuola era venuta l’impresa appaltatrice Spadari Salvatore, che sottopagava gli operai sardi e non, i quali vivevano in modo promiscuo, in baracche malsane. L’editorialista del “Corriere della Sera” poi largheggiò sui morti e sui feriti. I dati ufficiali dicono tre morti, tre feriti molto gravi, più una ventina leggeri, invece della decina di morti e dei moltissimi feriti riportati dallo stesso nella sua prefazione al saggio di Antonio Budruni, dal titolo “I giorni del massacro. Itri 1911: la camorra contro gli operai sardi” (Carlo Delfino Editore, pp. 144, euro 15,90).
Per i giornali di Roma e di Napoli, gli itrani, in aiuto dei quali si unirono altri operai dei paesi limitrofi, vittime di varie rappresaglie, uccisero “per legittima difesa”. E fu una sorta di Vespri Siciliani, in difesa della vita, dell’onore, della proprietà. Gian Antonio Stella sosteneva la ripetitività di alcuni mali che ci affliggono facendo analogie con gli episodi di Castel Volturno e di Rosarno. La rivolta in Itri fu, invece, “lo scoppio della legittima difesa privata dopo un lungo periodo di compressione morale, in un momento di pericolo, derivante dalla mancanza di difesa da parte della forza pubblica”, che poteva contare su pochssimi effettivi. Compressione morale, pericolo imminente”. Il 27 ottobre 1910 è una data da ricordare per la tragedia di Itri. E’ la data del primo allarme che l’autorità locale, il sindaco Gennaro Burali D’Arezzo ( e non Gennaro D’Arezzo come riportato dallo Stella) fa giungere al sottoprefetto di Formia. Egli denunzia appunto quello stato di compressione morale, di cui parlò il prof. Pietro Fedele, storico medioevalista, a proposito di un caso di violenza specifico, esercitata sulle autorità e sulla forza pubblica da parte di un consistente nucleo di sardi, i quali pretesero, a dispetto dei regolamenti, dell’igiene, della prudenza e delle disposizioni impartite dalle competenti autorità, che si rendessero solenni onoranze funebri, in chiesa e per le vie, alla salma di un disgraziato operaio morto di malattia infettiva e contagiosa. Il 14 marzo 1911 il sindaco si rivolge al prefetto della provincia di Terra di Lavoro denunziando quello stato di compressione morale in genere e poi una serie di aggressioni e di provocazioni. Il primo cittadino itrano scrive ancora l’8 maggio dello stesso anno un altro rapporto al prefetto , in cui dice che ormai i fatti si ripetevano frequentemente. I sardi continuavano nelle loro gesta contro le donne e contro gli averi degli itrani. Nella criminosa indifferenza dei governanti, sordi alle continue richieste di intervento (il Ministro dell’Interno, On. Giolitti, non istituì alcuna delegazione distaccata ad Itri né inviò alcun funzionario di P: S.) , allora, gli itrani, esasperati ed impauriti dal pericolo incombente, suonarono le campane in difesa della vita. Fischiò per le vie cittadine il vento dell’ira repressa per mesi, facendo tabula rasa di tutti i poteri inibitorii. La folla non sa, la folla in delirio è cieca, lanciata a colpire, a ferire, a liberare il paese dal terrore e dall’obbrobrio. La folla è come l’onda, cieca e mobile come l’onda. Bastano delle nuvolette nel cielo per farla infuriare. Non è delinquente perché, per essere delinquente, dovrebbe essere responsabile e per essere responsabile dovrebbe avere coscienza. Ora dov’è la coscienza della folla?
Rammentiamo che il processo, trasferito, per legittima suspicione, dal Tribunale di Cassino a quello di Napoli, andò avanti, presso la Corte d’Assise del capoluogo campano, dal dicembre del 1913 al al 28 maggio 1914 . “I giurati – come sostenuto dall’avv. Angelo de Stefamo – respinsero ogni ipotesi di responsabilità per tutti e trentatré i giudicabili e li mandarono assolti, mentre nove contumaci erano stati condannati, il primo giorno del dibattimento, ciascuno a 30 anni di reclusione”. Circa trecento furono i testimoni. Le deposizioni più importanti e decisive furono quelle di Pietro Fedele, dell’Università di Torino, del Vicario, Mons. Fedele, del Cav. Paone, del notaio Pennacchia, dei Cavalieri Bonelli ed Amante.
Alfredo Saccoccio