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I tre enigmi di Giacomo

Posted by on Nov 27, 2017

I tre enigmi di Giacomo

È colpa della sua Lettera se la Merkel e i banchieri ci tengono per le palle?

 Naturalmente non abbiamo nessuna certezza che l’Epistola di San Giacomo Apostolo sia davvero sua. Sua di chi, poi? Di Giacomo il fratello di Gesù (o il cugino?), di Giacomo il minore apostolo, di Giacomo il Giusto forse vescovo di Gerusalemme? Di uno solo dei tre, o di due? Vi risparmio l’infinito dibattito tra chi sostiene che l’attribuzione a Giacomo sia soltanto un espediente dell’autore per conferire maggiore importanza alle sue parole, e chi ritiene che tutto sommato la lettera potrebbe anche essere stata scritta nel primo secolo da un ebreo che masticasse un po’ di greco. Il testo non è neanche particolarmente giudaizzante: certo, contiene riferimenti a personaggi poco noti dell’Antico Testamento (Raab la meretrice!), ma più che al Levitico sembra richiamarsi al buonsenso. Dopo aver letto Paolo è acqua fresca, insomma. Il passo più famoso – quello che più facilmente faceva infuriare Lutero – è 2,14-18:

Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in sé stessa. Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede.

A me è sempre piaciuta tantissimo, quell’esortazione ai limiti della sgarberia: hai fede? Mostramela. Io non so se ce l’ho, ma guarda le mie opere: quelle esistono, si possono toccare. Qualcuno ha voluto trovare in questi versetti una critica neanche velata alla dottrina di Paolo sulla salvezza per mezzo della fede. Per Paolo gli uomini (tutti, non solo gli ebrei) erano peccatori, finché Cristo non li aveva salvati: bastava credere in lui, bastava avere fede, e tutto sarebbe andato a posto. Inoltre i tempi stavano per finire, quindi non aveva molto senso occuparsi di cose troppo terrene. Per la verità Paolo era tutto meno che un guru ieratico e sfaticato (continuava a mantenersi fabbricando tende), e lui stesso talvolta si lamentava dell’inerzia di alcune comunità cristiane.

Giacomo ha la stessa preoccupazione: si fa presto a dire fede, ma di cos’è fatta la fede? Puoi mostrarmi la tua fede senza neanche un’opera? Possiamo pensare che in un contesto ebraico le “opere” consistessero soprattutto nel rispetto formale di una serie di precetti, ma col tempo il testo ha assunto un valore universale: la fede si esprime attraverso le opere di bene. Niente opere, niente fede. Lutero non ci voleva credere. “Lettera di paglia”, la chiamava. Al di là dei suoi scrupoli da filologo, basta conoscerlo un po’ per capire che si trattava per lui della paginetta più indigesta del Nuovo Testamento. Dopo che Paolo ha insistito, per più di una dozzina di lettere, nella giustificazione mediante la fede, cosa viene a dirci questo cosiddetto Giacomo? Che la fede si mostra attraverso le opere? Ma a chi la dobbiamo mostrare? L’unico a cui interessa è Quello che ce l’ha donata. E quindi quali opere: l’obolo di San Pietro? Vogliamo costruire chiese sempre più grandi e addobbate? Vogliamo coprire di un altro po’ di ori e di argenti i sacerdoti della grande Babilonia? Vogliamo mettere all’incanto un altro po’ di indulgenze? Lutero tolse la lettera dal suo canone. Robaccia buona a far ingrassare i papi e i papisti.

Qualche secolo più tardi Max Weber, cercando di capire perché il capitalismo sia nato in certe zone dell’Europa (i Paesi Bassi, l’Inghilterra) giunge a un’ipotesi arcinota, anche se contro-intuitiva: è stato il protestantesimo, la dottrina della giustificazione mediante la fede. Nella sua versione hard, quella di Calvino, secondo il quale il cristiano è predestinato alla nascita. Io perlomeno la trovo contro-intuitiva perché la prima volta che ne ho sentito parlare ho pensato che essere calvinisti fosse una pacchia: Dio ti ha già salvato, quindi puoi fare quel che ti pare, compreso un bel niente. Dove si vede che è inutile versare il calvinismo in una botte cattolica. Oppure Weber si sbaglia (tuttora se ne discute): se Calvino invece di Ginevra avesse predicato a Milazzo, non ne avrebbe comunque cavato fuori nessun embrione di capitalismo. Chi lo sa.

Però la sua ipotesi è quantomeno ingegnosa. I calvinisti, spiega, si ritrovano soli davanti a Dio, senza nessun intermediario: chi assicura loro di essere i prescelti? Il segno della grazia è il successo professionale, che si raggiunge attraverso il duro lavoro. Fin qui nulla di nuovo, anche la borghesia italiana sin dal medioevo dei comuni aveva trovato nel lavoro una strada verso l’auto-affermazione. E infatti in Italia il capitalismo moderno stava quasi per nascere. Cosa lo aveva bloccato? La necessità di mostrare le opere. Il mecenatismo. La beneficenza. Ma anche soltanto il lusso, lo sfoggio dei propri beni, la corsa verso l’alto delle famiglie che aveva portato cittadine ancora minuscole a coprirsi di inutili torri. Opere. Bisognava fare opere. Senza le opere, non sei nessuno. C’è scritto nella Bibbia. La Bibbia dei cattolici.

Nelle Bibbie dei protestanti no, non c’è scritto. I calvinisti lavorano duro, ma che se ne fanno dei loro guadagni? Il mecenatismo è una distrazione da papisti decadenti. La beneficenza è un modo per mantenere i poveracci, che sono poveracci perché Dio non li ha scelti, pussa via. Il lusso viene da Satana. E quindi, insomma, Dio ci benedice con somme sempre più alte di liquido, ma dove le mettiamo? Le reinvestiamo. Non abbiamo scelta, tutti i sistemi per spenderlo sono demoniaci, non ci resta che… inventare il capitalismo moderno. Per Weber, perlomeno, le cose erano andate così. La sua ipotesi è stata smontata più volte. Ma resta una bella storia da raccontare, proprio come le misteriose vite dei Santi. Alla prossima.

Leonardo Tondelli

fonte

ilblog.it

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