IL 1799 Ideali ed eventi nel Salernitano (V) intervento di Giovanni Ruffo
IL CARDINALE FABRIZIO RUFFO:
L’UOMO, IL POLITICO, IL SANFEDISTA
Le notizie sulla nascita e sul casato del cardinale Fabrizio Ruffo sono note e dunque trascurerò di ricordarle.
Ricorderò soltanto che, a soli quattro anni d’età, la fa miglia lo mandò in casa del prozio Cardinale Tommaso, destinandolo alla carriera ecclesiastica.
Dirò ancora, trattandosi di notizia non conosciuta, che i Ruffo di Bagnara ambivano per uno dei loro cadetti una carriera, in seno alla Chiesa cattolica, priva per quanto possibile di ostacoli e senza limitazioni di sorta.
Al bambino fu dato come precettore il prelato Giovanni
Angelo Braschi, segretario del cardinale Tommaso.
Il Braschi, che nel 1775 salirà al Soglio di Pietro con il nome di Pio VI, seguì da vicino gli studi del suo pupillo che volle avere sempre a sé vicino.
Fabrizio Ruffo studiò con molto impegno nell’esclusivo collegio Clementino dei Padri Somaschi, ma, quando giunse il momento, non volle pronunciare i voti sacerdotali.
Ufficialmente si affermò che il giovane “non inclinava al sacerdozio”.
In verità il giovane diacono (tale rimase per tutta la vita, avendo pronunciato soltanto i voti minori) dichiarò e sostenne, contro le pressioni dei familiari e del suo precettore, che desiderava percorrere la carriera politica nel Regno della Chiesa (per la quale era stato meticolosamente preparato) senza i vincoli e le limitazioni che gli sarebbero derivati dagli ordini sacerdotali e dalla stretta osservanza del codice canonico.
Su quest’argomento ritornerò tra poco, quando accennerò al cardinale-uomo.
Nel 1785 il Pontefice Pio VI nominò il diacono Ruffo Tesoriere Generale della Reverenda Camera Apostolica, dimostrando la chiara volontà di portare a buon fine riforme che erano state affrontate, senza successo, da ben tre Pontefici.
Egli stesso, Pio VI, quando nel 1767 era stato Tesoriere sotto il pontificato di Clemente XIII, aveva tentato le stesse riforme senza poterle concludere
Quali erano le condizioni dello Stato pontificio nel 1785? Un autorevole economista di quel tempo così ne parla: “…Lo Stato della Chiesa era male organizzato, corroso da incolmabile debito pubblico, governato da un ceto oligarchico miope e geloso dei suoi privilegi, chiuso nel malcostume dell’abuso, estraneo a qualunque soffio di vita nuova. In queste condizioni neppure l’autorità del Pontefice, o anche l’energia di un abile ministro, sarebbero state sufficienti: occorreva per riuscire un completo risanamento dell’amministrazione, un rovesciamento di posizioni e di opinioni, una trasformazione di costumi e mentalità. È quello che Ruffo, chiamato a reggere la Tesoreria, tentò almeno in parte di fare… “.
Fabrizio Ruffo pone riparo alla disordinata ed inadeguata legislazione economica vigente nello Stato pontificio, adotta riforme razionali sulle quali articola e riordina anche la vita sociale.
Le sue leggi combattono e demoliscono il nepotismo dispotico e, in senso più esteso, il sopravvivere di tradizioni alle quali erano legate autonomie territoriali (Ferrara e Bologna), inammissibili privilegi e attività economiche paparassitarie (come quelle esercitate dai “protettori”), identificabili in singoli individui o in determinate comunità.
Le riforme di Ruffo, mentre riordinano e risanano le finanze pontificie, creano per il cittadino le basi politiche di un vivere più giusto e adeguato ai tempi, dando ad ogni classe sociale la possibilità di esprimersi e operare autonomamente o in sincronia con altri e, infine, a ogni uomo la possibilità di realizzarsi secondo le proprie capacità e prospettive.
Nelle riforme del Tesoriere Ruffo troviamo, dunque, l’attuazione pratica del pensiero di Gaetano Filangieri; lo riconosciamo nella riforma enfiteutica e ancora in quella delle dogane (1786) e nella riforma della Grascia di Roma, in occasione della quale il Tesoriere afferma che le leggi non possono essere condizionate dall’arbitrio di consuetudini e tradizioni, da cui traggono linfa privilegi e abusi che soffocano l’economia e ostacolano il progresso sociale che, com’ egli afferma nella relazione che accompagna la legge, “è inseparabile dalla pubblica opulenza”.
Tutto questo si può ricapitolare in poche parole: ogni privilegio (di casta o diverso che fosse) era ritenuto inammissibile e ogni individuo doveva avere la ·possibilità di rendere concrete le proprie umane aspirazioni.
Le riforme, che Fabrizio Ruffo promosse nello Stato pontificio, furono tanto cariche di contenuto politico, oltre che sociale, che scatenarono una tale reazione da parte del clero conservatore da costringere il Pontefice a rimuoverlo dall’incarico. Nel febbraio del 1794 è pubblicata la sua nomina a cardinale e in novembre, ultimate le consegne al suo successore nella carica di Tesoriere, lascia lo Stato pontificio e arriva a Napoli su invito di Ferdinando IV.
I limiti che il tema e l’occasione impongono, non mi consentono di trattare la figura del cardinale-uomo con dovizia di particolari, come meriterebbe.
L’uomo supera egregiamente il trauma creatogli dall’ambiente nel quale visse sin dalla più tenera età e si formò culturalmente e caratterialmente.
In quegli anni egli interruppe qualsiasi rapporto fisico con la sua famiglia: i genitori, i fratelli.
Come afferma Domenico De Maio nel suo studio sullo sviluppo pisicomentale del personaggio, che traggo dal Saggio ” Il Cardinale Fabrizio Ruffo tra psicologia e storia”: “Egli, ancora giovanissimo, si rese cosciente delle aspettative che gli altri ponevano in lui e le fece proprie. In altri termini si adeguò, facendo di necessità virtù”.
Ancora De Maio scrive: ”Comportamentalmente era un ribelle, che passava da una punizione all’altra, senza modificare punto le linee del suo carattere. La sua ubbidienza era totale solo quanto agli studi”.
Lo stesso studioso parla in questi temi del rifiuto che Fabrizio oppose ai voti sacerdotali:
“Attorno ai venti anni rifiuta di pronunciare i voti sacerdotali, ma anche di dedicarsi allo studio del diritto canonico, che considerava non solo la causa prima dell’immobilismo ecclesiastico, ma anche la remora più tenace, e pericolosa, per l’attuazione di quelle riforme il cui avvio sentiva sempre più pressante.
Questo «gran rifiuto», che avrebbe potuto precludergli la «corsa» al soglio pontificio coronò l’indipendenza ideologica di Ruffo e il rifiuto verso qualsiasi forma di obbedienza che non fosse in armonia con i propri principi: obbedienza, si, ma critica e convinta”.
Lo studio così conclude: “Nelle vicende che lo videro coinvolto, sempre da protagonista, il cardinale dimostrò saggezza ed equilibrio, ossia da uomo normale in armonia con La definizione datane da Freud: «L’individuo normale è una persona in grado di amare e lavorare». Nel caso del cardinale, «L’amare», ovviamente, è l’equivalente di «amore», che egli metteva in tutti i suoi progetti.
I fatti dimostrarono chiaramente che egli non cercò il potere, ma fu il Potere a cercare lui. Così per tutta la vita.
Ma il cardinale Ruffo era dotato anche, direi soprattutto, di carisma, non già nel senso inteso dalla Chiesa (di dono soprannaturale concesso dallo Spirito Santo per il bene generale di tutta la comunità ecclesiale).
Il cardinale, a nostro avviso, credeva nella Chiesa essenzialmente come istituzione sociale e politica il cui elemento religioso non sembra mai comparire nelle vicende della sua vita.
Il cardinale, aggiungiamo, forse non era nemmeno religioso”.
Queste e tante altre nuove acquisizioni danno una dimensione, alla figura del Cardinale Fabrizio Ruffo, del tutto diversa da quella sinora conosciuta; suggeriscono una revisione storica degli eventi del 1799 nel Regno di Napoli e ciò per meglio comprendere non soltanto la nascita del movimento sanfedista, ma anche e soprattutto l’ideale che lo generò e, nello stesso tempo, sostenne tanto particolare condottiero nella riconquista del regno attraverso una dolorosa guerra civile.
Diventa, infatti, ora meno accettabile che il ministro pontificio illuminato riformatore, ammiratore e seguace delle dottrine di Grimaldi, Galanti, Filangeri e Verri – indiscussi riformisti di quel fine secolo – possa essere identificabile nell’uomo che la storiografia corrente ci ha sempre presentato a capo delle bande sanfediste, nel 1799.
Il 1799, che al suo inizio vede la nascita della Repubblica napoletana e l’avvio della controrivoluzione sanfedista, al suo termine, il 18 brumaio (9 novembre), vedrà, in pratica, la fine della “fase democratica” della Rivoluzione francese.
Il potere democratico, detenuto dal Direttorio, passerà nelle mani del primo console Bonaparte e, appena da lì a quattro anni, in quelle della Monarchia assoluta dell’Imperatore Bonaparte.
Al contrario dei capi massa (Fra’ Diavolo, Sciarpa etc, insorti contro l’occupazione francese, incapaci di accorgersi e di presentire il mutare della realtà politica francese ed Europea) Fabrizio Ruffo sicuramente ebbe coscienza di quanto sarebbe successo in Francia da lì a non molto tempo e tale consapevolezza, altrettanto sicuramente, ebbe influenza, iniziando la marcia sanfedista, sul suo programma politico e sulla condotta di guerra.
Come la rivoluzione giacobina nasce a Napoli dal vuoto di potere, lasciato dalla precipitosa fuga del Re in Sicilia, così la controrivoluzione nasce dalla necessità di effettuare la riconquista del Regno con forze nazionali, nell’intento di evitare i danni materiali e politici che sarebbero stati causati dalla riconquista fatta dagli alleati dei Borboni: l’Inghilterra, la Russia, la Porta Ottomana.
Anche questo aspetto contribuisce a dare valore eccezionale ai citati due avvenimenti che sconvolsero e insanguinarono il Regno di Napoli sul finire del XVID secolo.
La comprensione di tali eventi, il giacobinismo e il sanfedismo, può avvenire – finalmente dopo duecento anni – soltanto attraverso una loro razionale interpretazione, assolutamente libera da condizionamenti e influenze ideologiche. La controrivoluzione sanfedista, che nel Regno di Napoli iniziò l’otto febbraio 1799, ebbe caratteristiche sostanzialmente diverse da simili insorgenze sorte in altre Regioni d’Italia occupate dai francesi.
In Calabria la reazione sanfedista non nacque per spontanea volontà popolare ma da un decreto reale ed ebbe, per questo, un condottiero che, avendo avuto la legittima mis sione dal capo dello Stato, aveva la veste legale e l’autorità di un generale messo a capo di un esercito regolare. A tale qualifica associava, in virtù dell’alter ego concessogli dal Sovrano, anche le prerogative politiche e amministrative di capo di governo.
Il capo sanfedista, inoltre, al contrario dei capi massa che operavano nelle altre regioni, per opporsi al nemico invasore assente in quella parte del Paese, non fu costretto dagli eventi a improvvisare la contro rivoluzione adottando le tecniche della guerriglia.
In Calabria, privo com’era di tempo e di mezzi, il capo sanfedista ebbe. due sole necessità immediate: riunire una massa di volontari, reclutata attraverso bandi d’arruola mento, e dare agli accorsi un ideale che li determinasse a combattere e seguirlo.
Deriva di conseguenza che, una volta costituito l’esercito, avrebbe operato secondo un suo programma politico, al quale avrebbe adattato la condotta di guerra; ai primi accorsi avrebbe dato l’impronta del soldato e alla massa quella di un esercito regolare, come fece, in effetti.
Non poteva essere altrimenti: l’alter ego del Re, principe della Chiesa, non avrebbe potuto mettersi che alla testa di un esercito composto, per forza di circostanze, di volontari arruolati senza alcuna selezione, ma ordinato secondo le norme del diritto internazionale del tempo. Il nemico da combattere e scacciare dal Regno era l’esercito francese: sarebbe stato affrontato da un regolare esercito della nazione napoletana. I patrioti napoletani, a giudizio del Cardinale, si sarebbero alla fine in gran parte ravveduti. Quei pochi (o tanti) che si fossero opposti con le armi, sarebbero stati trattati come nemici.
Per non essere costretto a procurarsi i mezzi necessari al sostentamento dell’esercito operando secondo le regole della “guerra totale” (occorre rammentare che si combatteva una guerra civile) che prevedevano il diritto di preda e la lotta uomo contro uomo, promulgò delle leggi che, tra l’altro, gli consentivano la confisca delle rendite dei cittadini dimoranti in luoghi occupati dal nemico.
Il giorno stesso del suo arrivo in Calabria, a Capo Pezzo nei pressi dell’odierna Villa San Giovanni, indirizzò un proclama ai vescovi, ai parroci ed ai “governatori” delle comunità della Calabria, invitandoli a stimolare il popolo ad arruolarsi nell’esercito della Santa Fede.
Gli arruolati dovevano farsi cucire sul lato destro del cappello o berretta, che fosse, in maniera ben visibile, una Croce bianca. Egli stesso ne portava una identica cucita sul lato destro del suo copricapo.
Da Reggio arrivò il tenente D. Natale Perez de Vera con 42 soldati ben armati e a questi si unirono altri del disciolto esercito. Ben presto si arrivò al numero di 400 tra volontari e soldati del vecchio esercito.
Furono subito costituite tre compagnie di truppa regolare di 70 soldati cadauna. Questi soldati furono armati di fucili, mentre quei volontari che non ne avevano ebbero lance, fatte costruire sul posto.
Per quei soldati che ne erano privi, furono confezionate scarpe, vestiario di “arbasu” (albagie, specie di pesante tessuto grezzo e di colore nero, con il quale i contadini usavano confezionare i loro vestimenti) e paramani di panno rosso, per dare ai lancieri un qualche aspetto militare.
Fu subito creata un’amministrazione cui fu affidata la cassa militare, un Ispettore dell’esercito nella persona del- 1’Aiutante reale marchese Malaspina, fu conferito il grado di ufficiale a un selezionato numero di prescelti, per gli affari di Stato fu investito il consigliere Fiore e furono commesse, infine, le funzioni di commissario di guerra a D. Domenico Petromasi, con l’incarico di precedere la truppa per approntare vettovaglie, accampamento e quanto altro serviva a un esercito in marcia. Fu stabilito il soldo spettante ai vari gradi della truppa: i soldati avrebbero avuto 25 grana giornalieri, i caporali (uno ogni 15 soldati) 35 grana, i sergenti (uno ogni 30 soldati) 5 carlini.
Ai 150 armigeri, bene equipaggiati e armati, provenienti da Santa Eufemia di Sinopoli – antichissimo feudo di Casa Ruffo – furono affidati i compiti di guardia del corpo del Porporato e di polizia militare.
Con questo modesto contingente di truppe fu iniziata la marcia di riconquista verso Napoli.
Prima di arrivare alla definizione della condotta in guerra mantenuta durante la riconquista del Regno, è utile conoscere quale fosse il concetto di scontro armato, ossia di guerra, che si aveva prima ed alla fine del secolo XVIII, epoca di nostro interesse. Sin dalla metà del XVII secolo, le guerre incominciarono a essere combattute da professionisti senza coinvolgimento diretto delle popolazioni civili (Grozio, giurista olandese, 1583-1645: “De jure praedae” “De jure belli ac pacis”).
I motivi che suggerirono l’adozione di tale risoluzione (Jus in bello) in campo internazionale furono tanti e quasi tutti compatibili con considerazioni d’ordine economico o di convenienza militare.
Nella dotta illustrazione che Antonio Cassese fa delle teorie di Grozio, si legge:
“Il nemico non è da considerare un avversario da elimi nare a tutti i costi, ma come un altro essere razionale, nei confronti del quale occorre rispettare un minimo di regole essenziali. Questo concetto appare chiaro, tra l’altro, là dove Grozio parla dell’obbligo di mantenere le promesse fatte al nemico, obbligo che a suo giudizio deriva dalla comunanza di ragione e di linguaggio, che lega i belligeranti nonostante la guerra”.
Poco più di 20 anni prima della rivoluzione francese, J. J. Rousseau, nel suo famoso “Contratto Sociale” del 1762, aveva teorizzato la scelta di guerra tra Stato e Stato che, secondo lui, le Nazioni avrebbero dovuto fare.
Secondo la teoria di Rousseau la guerra cessava d’essere una contrapposizione tra uomo e uomo.
Gli uomini sono nemici tra loro in quanto soldati: “Come difensori della patria e non come cittadini di essa”. Ne derivava di conseguenza che uno Stato non poteva avere come nemico se non un altro Stato e mai singoli uomini.
Con la rivoluzione francese si ritornò improvvisamente alla guerra totale, ossia a una clamorosa negazione delle teorie di Rousseau.
La filosofia rivoluzionaria imponeva, infatti, “che ogni cittadino fosse un patriota e un membro dell’esercito di leva” (che durava otto anni) e, di conseguenza, non erano più soltanto dei professionisti.
La guerra totale, che comportava la devastazione e la depredazione del territorio nemico, era stata retaggio precipuo delle orde barbariche.
Con la rivoluzione francese abbiamo visto che ritornò ad essere attuale.
Alla concezione “roussoniana” si ritornerà nel 1874 con la conferenza di Bruxelles e più ancora nel 1899 con la Conferenza dell’Aja, quando sarà codificato il “diritto internazionale bellico”.
Per dovere d’esattezza occorre osservare che, tramontando il XVIII secolo, per la guerra non esistevano norme codificate di diritto internazionale.
Esistevano piuttosto regole legate alla consuetudine, ossia alla tradizione (diritto tradizionale), che erano, di solito, ignorate o poco rispettate dai belligeranti e alle quali, talvolta, si faceva appello nel tentativo di evitare o limitare le più disastrose conseguenze della guerra.
Con tale premessa, ai nostri fini, i primi due quesiti da chiarire sono:
Quali dovevano essere i requisiti di una moltitudine di uomini in arme, per potere essere definita esercito?
E quali quelli degli uomini che lo componevano, per essere riconosciuti combattenti legittimi?
La risposta al primo interrogativo (che, però, è intimamente legata all’altro) è semplice e, nello stesso tempo, generica e si conosce da secoli:
“l’esercito regolare rappresenta la forza armata di uno Stato legittimamente istituita e organizzata per assicurare la difesa del paese e dei suoi interessi”.
La seconda risposta la fornisce Antonio Cassese, il quale afferma che nel diritto tradizionale era possibile trovare la definizione delle categorie dei combattenti legittimi.
Lo “status” di combattente legittimo era riconosciuto, oltre che agli eserciti regolari, anche a quelle milizie ed ai corpi di volontari che avessero avuto i seguenti requisiti:
- essere comandati da persona qualificata a rispondere per i suoi subordinati.
- portare un segno distintivo fisso, riconoscibile a distanza.
- essere armati in maniera manifestamente visibile.
- operare in guerra secondo le leggi e le usanze belliche.
Ciò posto, si può affermare con certezza che il cardinale Ruffo si era preoccupato di dare ordinamento e consistenza d’esercito alle “masse” raccolte in quei primi giorni.
Resta da accertare se il comportamento durante la marcia di riconquista fu conforme alle leggi e alle usanze belliche.
Ci sono soltanto due occasioni che offrono elementi di giudizio: Altamura e Napoli.
Ad Altamura fu giocoforza concedere il sacco, ma fu imposto che si facesse secondo le leggi della guerra non totale. Petromasi scrive testualmente ” […] Altamura fu presa interamente colle armi; per cui il saccheggio fu dovuto al nemico secondo le leggi di guera, e in certo determinato
tempo […]”.
Ma si andò anche oltre, a ulteriore dimostrazione del ri fiuto della guerra totale.
Fu lasciata aperta e agibile una – sola porta attraverso la quale era possibile uscire d’Altamura.
Questa porta fu posta sotto la sorveglianza dello speciale corpo a cavallo, che abbiamo visto avere compiti anche di “polizia militare”. I predatori, altamurani stessi o pugliesi arrivati il giorno prima con De Cesare o, in massima parte, abitanti dei paesi vicini, furono costretti, armata manu, a lasciare in un apposito luogo tutto ciò che di “solido” (mobili, quadri, argenti etc.) era asportato dalla città.
Gli altamurani potettero così recuperare, nei giorni che seguirono, parecchi valori di loro proprietà.
Occorre qui notare che l’assedio e l’espugnazione d’Altamura costituirono la prima diretta esperienza di guerra del Porporato. Egli, infatti, non era stato presente all’assedio e conquista di Cotrone (come allora si chiamava l’odierna Crotone). Certamente per questo il sacco di Cotrone era stato condotto senza altro controllo che non fosse quello che gli stessi crotoniati seppero imporre (Gaetano Cingari, “Giacobini e sanfedisti in Calabria”).
Ad Altamura fu assolto così anche il quarto e ultimo requisito che un esercito doveva possedere: “Operare in guerra secondo le leggi e le usanze belliche”.
A tutti è noto come il Cardinale Fabrizio Ruffo si comportò a Napoli con i vinti repubblicani.
Disattendendo precisi ordini del Re, concesse ai soccombenti patti di resa che, oltre a liberarli dell’infamante marchio di ribelli, li trasformava:
- in belligeranti,
- in soldati di un esercito regolare che scendeva a patti di resa mantenendo la propria capacità offensiva,
- in esercito di una Nazione cui dava riconoscimento internazionale.
Fece tanto, pur essendo consapevole del pericolo mortale cui esponeva se stesso e del danno che sarebbe derivato alla sua famiglia.
Il Re aveva ordinato d’arrestarlo e Nelson proponeva addirittura di impiccarlo. Se tali ordini non ebbero conseguenze, fu per la paura che l’esercito calabrese, al Cardinale fedelissimo, in quel momento incuteva agli inglesi e allo stesso Monarca.
Nessuno, sino a quel momento, aveva fatto e dato tanto alla Repubblica napoletana, quanto le dava – nientemeno che in nome del Re e dei suoi alleati in guerra – il sanfedista vincitore; tanto meno i francesi che l’avevano tenuta a battesimo.
I rappresentanti del governo repubblicano, quando andarono a Parigi, non furono neppure ricevuti dal Direttorio.
Ruffo continuò ad opporsi agli ordini reali e a Nelson, anche dopo che fu privato della qualifica di Vicario Generale.
Gli furono lasciati soltanto compiti amministrativi, che erano subordinati all’approvazione di una Giunta nominata dall’ammiraglio inglese.
Giovò egualmente ai patrioti rinchiusi, sotto la minaccia dei cannoni inglesi, nelle stive delle polacche ancorate nel golfo.
Ben cinquecento, dei mille e trecento di quegli infelici, furono strappati alla regia vendetta.
Otto anni dopo, scrivendo al suo amico Nicolai in un momento di grande angustia, il Cardinale così si esprimeva a proposito di quella sua vittoria:
” […] Chi difende il suo Paese, che ha l’autorità e la legittima missione, non è stato mai avuto dalle nazioni civilizzate come un miserabile, né ha avuto niente da vergognarsi, né l’avrà presso gli uomini sensati Che più? Come ho io usato della mia vittoria? Chi noi sa? Eppure quattro falliti democratici di nome, poiché non ne hanno la virtù ed il disinteresse, mi perseguitano perché l’ho difesi e risparmiai […]”.
Per far bene comprendere il contenuto e l’importanza del trattato di resa concesso da Ruffo ai vinti repubblicani è opportuno mettere in luce quale fosse, nei confronti delle leggi internazionali, la posizione dei repubblicani napoletani rinchiusi a combattere nei castelli.
Cassese precisa che tutte le norme, relative alla lotta tra il Governo legittimo e gli insorti, hanno una caratteristica essenziale in comune: “Non concedono ai ribelli lo Status di combattenti legittimi. Agli occhi del governo contro il quale lottano, come per gli stati terzi, i ribelli rimangono criminali che violano il diritto penale interno. Di conseguenza, se catturati, non godono dello Status di prigionieri di guerra, ma possono essere processati e condannati per il mero fatto di avere preso le armi contro le autorità centrali”.
Per i cittadini insorti contro il legittimo Governo del proprio Paese, esistevano regole particolari, quando si fosse voluto trasformare la loro condizione di rivoltosi in quella di combattenti:
1°) “gli insorti potevano essere elevati al rango di legittimi combattenti solo se il Governo, contro il quale si erano sollevati, cosi avesse deciso, concedendo loro il cosiddetto riconoscimento di belligeranza”.
E ancora:
2°) “Un Governo, quando stipulava con i ribelli accordi internazionali, li legittimava sul piano giuridico”.
Fu, dunque, precisa volontà del condottiero vincitore concedere tanti vantaggi agli sconfitti, come si legge nel terzo articolo del trattato di resa:
“Le guarnigioni usciranno cogli onori militari, armi, bagagli, tamburo baderete, bandiere spiegate, micce accese, e ciascuna con due pezzi di artiglieria Esse deporranno le armi sul lido”.
Considerata la capitale importanza della concessione, la stessa non poteva essere frutto d’improvvisazione o suggerita da motivi legati alle circostanze.
Doveva di necessità far parte integrante di un preciso di segno a lungo meditato.
Carica com’era di capitali pericoli, poteva identificarsi soltanto in un alto ideale, nutrito da chi quei patti concedeva:
Rappacificare la Nazione facendo dei vinti e dei vincitori i liberi cittadini di uno Stato Monarchico costituzionale, con a capo il principe ereditario.
Se fu veramente questo l’ideale che mosse Fabrizio Cardinal Ruffo alla riconquista del Regno, gli storici che non ne sono convinti hanno il dovere di accertarlo attraverso nuovi studi e ricerche. Non è ammissibile che tale proposta sia rigettata a priori, basandosi su vecchi studi e su “viziate” conclusioni storiografiche che hanno perso freschezza; come fuori d’ogni “regola” sarebbe rifiutarla senza dare una diversa, documentata interpretazione del sanfedismo e del pensiero politico del suo condottiero.
Giovanni Ruffo
Saggista
Rigraziamo il Prof. Fernando Di Mieri per averci dato l’onore di pubblicare un lavoro di grande spessore storico culturale e sempre più attuale, ringraziamo il Preside del Re Vincenzo Giannone che ha curato la trascrizione e l’impaginazione