Il 1799 napoletano di Gianandrea de Antonellis

Il bicentenario è passato da un pò, ma si continua a ricordare, o meglio a celebrare, la Repubblica Napoletana del 1799. In effetti si è trattato di un evento importante – preludio al Risorgimento nazionale – che non è possibile trascurare; nello stesso tempo occorre sfuggire alle lusinghe della retorica, specialmente quando essa si ammanta di antica ampollosità antiborbonica (tipica del periodo sabaudo) e di nuova retorica pseudomeridionalista (propria dell’ideologia progressista). Discutiamone seriamente evitando i paletti dei pregiudizi e degli ideologismi.
Sotto il profilo sociale e culturale, gli avvenimenti che due secoli fa scossero l’Italia – non solo Napoli e il Mezzogiorno, ma anche Roma e il Papato, Milano e l’area cisalpina, Venezia e Firenze – costituiscono un’autentica pietra miliare per l’evoluzione politica dell’intera Nazione. In quel periodo si abbatterono definitivamente gli ultimi baluardi del feudalesimo: non si deve pensare in questo caso ad un crollare di catene che legano masse popolare, come da immagini retoriche, bensì ad un liberarsi dei feudatari dagli obblighi che erano loro imposti nei confronti della Corona e – mirabile auditu – della popolazione loro sottoposta (si pensi all’obbligo che il feudatario aveva di amministrare la giustizia oppure ai diritti di pascolo vigenti sulle loro terre). In altre parole, i proprietari terrieri di origine feudale vogliono trasformarsi in possidenti borghesi, senza obblighi di alcun tipo verso il Re o verso i loro sudditi. Culturalmente, con la diffusione dell’Enciclopedia e della cultura laica che la sottende, si assiste ad un attacco, per il momento sul versante scientifico, poi anche su quello politico, alla Chiesa. In tutta Europa nascono circoli massonici e a Napoli essi vengono favoriti addirittura dalla Regina Maria Carolina (sorella di Maria Antonietta, Regina di Francia e ghigliottinata assieme al marito Luigi XVI dai tribunali della rivoluzione francese durante il “Terrore”).
La cultura laica attacca, sempre a Napoli, la Chiesa su un punto particolare: il “Privilegio della Chinea”, risalente al XIII secolo e che stabiliva il vassallaggio del Regno di Napoli al Papato. Esso consisteva in una donazione annua di una cavalla bianca riccamente bardata e carica di oro: facendo leva su interessi economici, i circoli massonici sferrarono una campagna affinché tale privilegio venisse abolito. Tra gli altri, in questa querelle che assunse a tratti toni di una volgarità sconcertante, si distinse Eleonora Pimentel Fonseca, una cortigiana che, presi i panni di guardia del Trono, attaccò l’Altare, pronta a cambiare bersaglio non appena ne avesse avuta l’occasione. Re Ferdinando, educato a regnare senza dover governare, si disinteressò della questione; la Regina Maria Carolina, donna molto volitiva, dimostrò un iniziale apprezzamento.
Dopo il “Terrore” la posizione della Corona, ovviamente, cambiò: vennero chiusi (ufficialmente) i circoli massonici e vennero arrestati i giacobini che avevano manifestato simpatie repubblicane quando alcune navi francesi erano entrate nel porto di Napoli. L’episodio si concluse con la condanna a morte di tre giovani, poco più che adolescenti: i primi “martiri” (ripensiamo per un momento alle migliaia e migliaia che persero la testa sotto la ghigliottina e che non furono mai definiti “martiri”).
Nel 1798 la situazione si fa più seria per lo stato napoletano: dopo la sfortunata (per non dire farsesca) spedizione borbonica per liberare Roma (novembre), che rivela appieno la totale incapacità dello stato maggiore dell’esercito napoletano, alla discesa dell’armata francese non si trova di meglio che opporre la fuga (!). Peraltro l’esercito avrà modo di dimostrarsi assai valente quando sarà ben comandato (per esempio da Murat), ma solitamente venne criminalmente affidato a generali incapaci quando non corrotti (e nel 1860 se ne vedranno le conseguenze…), Mentre la corte si trasferisce nella seconda capitale del Regno, Palermo, Napoli viene difesa solamente da una improvvisata armata fatta di popolani dello strato più semplice, i cosiddetti lazzari. Costoro impongono al governo della città, che vorrebbe addirittura distruggere la flotta, con la scusa di non farla cadere nelle mani francesi (!), il duca Gaetano Pignatelli, scelto come simbolo di fedeltà alla Corona a causa delle sue origini nobili; quindi rifiutano di scendere a patti con i Francesi e respingono senza mezzi termini i delegati venuti a riscuotere il tributo concordato con gli imbelli rappresentanti napoletani.
Quando, il 20 gennaio, le truppe francesi giungono alle porte di Napoli, mentre l’esercito regolare si dilegua, i popolani oppongono all’invasore una strenua difesa, durata tre giorni e costata almeno cinquemila morti (ma alcune fonti giungono ad affermare quindicimila). Mentre essi combattono nelle vie, dall’alto del Castel Sant’Elmo la guarnigione militare, che ha innalzato una tricolore bandiera repubblicana, cannoneggia i suoi concittadini che combattono contro un esercito straniero (tipico comportamento da “patrioti”).
Il 23 gennaio viene proclamata (o imposta) dal generale Championnet la repubblica napoletana (e non partenopea, come usualmente si scrive): naturalmente la presidenza è affidata ad un francese. Francesi erano pure i preposti ad altre importanti cariche (segreteria del governo, ministeri della guerra e della polizia, naturalmente del tesoro, oltre ai commissari civili). Molti di questi personaggi avevano il compito di depredare quanto più possibile il popolo “liberato”, tanto che perfino il Monitore napolitano, l’organo ufficiale della repubblica giacobina, fondato e diretto dalla onnipresente Eleonora Pimentel, definì uno di questi “uomo di audace ruberia”. Ogni commento è superfluo. Si conferma la politica francese, fatta sempre e comunque di continue spoliazioni a danno dei popoli liberati.
Intanto, fin dalla fine di gennaio, il cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara, nominato dal Re suo Vicario Generale, organizza una spedizione militare contro l’invasore: a marzo avanza in Calabria, mentre in Abruzzo, Puglia e Lucania si verificano episodi di insorgenza spontanea. La sua avanzata vede ingrossare di giorno in giorno le file di quella che viene denominata “Armata della Santa Fede”, posta sotto la protezione di S. Antonio da Padova (S. Gennaro era stato declassato da Generalissimo in quanto aveva compiuto il miracolo all’arrivo dei Francesi, segno di benevolenza divina nei confronti degli invasori, ma mezzo per evitare che sul clero napoletano ricadesse la feroce vendetta giacobina… del resto, anche all’entrata di Garibaldi si sarebbe comportato nello stesso modo).
La repubblica dura solo cinque mesi (23 gennaio – 26 giugno 1799): in questo periodo, oltre a lunghe e superflue discussioni sui principi, tanto care ai circoli intellettuali, vengono prese decisioni pratiche di corposa vacuità: sfogliando gli atti governativi si incontrano “inviti a dare disposizioni sulla messa dei Padri Paolotti”, “l’abbuono di uno stipendio all’ex segretario della Camera di Santa Chiara”, le disposizione sulla divisa dei giudici del tribunale e della corte criminale. Tutto ciò mentre Ruffo era alle porte della città. A proposito del Cardinale, va sottolineato che le riforme che il governo repubblicano tralasciava, occupato come era a statuire sul “cappello tondo colla penna nera” (ma, naturalmente, con fettuccia tricolore) dei giudici, venivano attuate dal porporato titolare della chiesa di S. Sofia a Benevento e Intendente degli opifici di San Leucio di Caserta. Questa ultima carica faceva sì che Ruffo, a differenza degli intellettuali napoletani, avesse diretta contezza del mondo del lavoro meccanico; così, mentre i “patrioti” e i Francesi avevano usato ed abusato del sistema delle requisizioni, egli rispettava la povera gente e procedette alla confisca delle rendite dei proprietari che non risiedevano nelle loro terre (iniziando con quelle del fratello). Al posto di innalzare alberi della libertà e di imporre (pena la morte) l’uso delle coccarde tricolori, portava una libertà effettiva, fatta di concrete iniziative per migliorare la realtà economica e sociale del paese.
I quarantamila uomini della Armata della Santa Fede, male armati, ma disposti a tutto, erano stati via via affiancati da truppe regolari borboniche (circa 30.000 uomini), russi (1.000), turco-albanesi (1.100), oltre a reggimenti portoghesi, romani, toscani ed alla flotta inglese (47 navi). Mentre essi erano momentaneamente fermati all’altezza del forte di Vigliena (ove vi fu un episodio simile a quello di Pietro Micca, che però studi molto recenti tendono a considerare inventato, perché i resti del forte non fanno supporre una distruzione dovuta a deflagrazione interna), il governo giacobino sembrava impazzito: ai numerosi massacri che contraddistinsero la sua breve durata (si parla anche di otto-diecimila morti in soli cinque mesi) si aggiunse un episodio agghiacciante, quello dei fratelli Baccher.
Traditi da Luisa Sanfelice (un’altra delle “eroine” o “martiri” della repubblica) Gennaro e Gerardo Baccher (fratelli del beato Placido Baccher, particolarmente venerato a Napoli), assieme ad altri cinque mancati congiurati vennero fucilati nello stesso giorno in cui Ruffo entrava nella capitale. Nonostante la logica suggerisse un atto di clemenza, i giacobini napoletani, assetati di sangue come i loro compagni dei tribunali parigini, infierirono sadicamente sui condannati e li torturarono psicologicamente, inscenando varie finte fucilazioni prima di ucciderli.
Come si vede, il comunismo non ha inventato alcunché.
Data l’atmosfera di distruzione (ed anche di autodistruzione) che caratterizzò gli ultimi giorni della repubblica (da notare che i “liberatori” francesi si defilarono lasciando i “fratelli oppressi” in balia degli “esecrati tiranni”) non dovrebbe stupire la reazione borbonica, peraltro contenuta a “soli” centoventi condanne a morte: indubbiamente poche, tenuto conto del tradimento di molti dei condannati, legati alla dinastia napoletana da un giuramento di fedeltà in qualità di magistrati, ministri o militari e, soprattutto, delle molte migliaia di morti causate dalla loro politica. Invece, quei centoventi rischiano di assurgere agli onori degli altari, ricoperti dall’aureola di una santità laica e insigniti della palma del martirio. Martirio peraltro cercato, perché essi ebbero la brillante idea di consegnarsi a Nelson anziché a Ruffo, che disprezzavano in quanto sacerdote. Mal per loro, perché l’ammiraglio inglese promise loro di portarli salvi al di fuori di Napoli: mantenne la promessa e li imbarcò sicuri; ma poi, una volta in mare aperto, fece ritorno nella capitale e li consegnò alla giustizia (le preghiere di clemenza di Ruffo rimasero inascoltate).
Il resto è noto: le nobili ed altere teste che caddero; la sfilza di impiccagioni dei vari notabili (ivi compresi un vescovo e qualche prete apostata) e della protofemminista Eleonora Pimentel; la farsa inscenata da Luisa Sanfelice (che dopo aver tradito l’ingenuo spasimante Baccher cercò di scampare alla forca fingendosi incinta); le attuali geremiadi su un episodio che avrebbe – a dire della critica progressista – distrutto la classe borghese napoletana impedendone uno sviluppo coerente con il resto d’Europa. A parte quest’ultima discutibilissima affermazione, vale la pena di ricordare che i compianti “martiri” erano legati a filo più o meno doppio alla monarchia borbonica (cortigiani come la Pimentel, militari come Caracciolo, nobili come Serra di Cassano, togati come Pagano o Cirillo) e che da che mondo è mondo la Storia condanna i traditori con l’esilio o la morte. La Francia rivoluzionaria, cui i giacobini napoletani si ispiravano, non fu particolarmente clemente nei confronti degli insorti vandeani… Pietà per queste figure? La migliore risposta è stata data dal Principe di Canosa che aprì il suo I pifferi di montagna con il seguente sonetto:
Tra i compassi e le squadre all’aer scuro
S’aduna ancora un empio stuol proscritto,
e in sua malvagia fedeltà securo
al Ciel fa guerra ed all’uman diritto.
Or con l’immondo gregge di Epicuro
Il nome di virtù dona al delitto;
or bugiardo indovin tenta il futuro
colle nefande cabale d’Egitto.
Tremate, o Regi, di mia voce al suono;
ecco la belva, che dagli antri Stigj
viene ad urtar con dieci corna il Trono.
Cada il velo feral dei suoi prestigj!
E se vi parla al cor pace, o perdono,
mirate il sangue che inondò Parigi.
Il Principe scriveva per difendere la propria opera di capo della polizia, contraria alla politica dell’amalgama, finalizzata al reintegro dei funzionari giacobini e liberali nella burocrazia borbonica durante la Restaurazione; ma le sue parole possono essere utilizzate come risposta a chi sta cercando di beatificare i centoventi “patrioti” che nel 1799 vendettero la patria allo straniero: “E se vi parla al cor pace, o perdono, mirate il sangue che inondò Parigi”.