IL BRIGANTAGGIO LUCANO (II)
Il brigantaggio postunitario nell’area del Vulture-Melfese (*)
Il brigantaggio postunitario fu, assieme alla “Questione Romana” e alla “Questione Veneta”, uno dei principali problemi che il governo di Torino si trovò ad affrontare all’indomani dell’Unità.
I moderati italiani non solo consideravano il brigantaggio un problema secondario, mentre la “Questione Romana” e l’armamento nazionale costituivano i problemi di massima urgenza da risolvere, (nota 1) ma avevano di esso una conoscenza approssimativa. Vi furono addirittura ufficiali dell’esercito italiano, inviati nel Mezzogiorno per combattere il brigantaggio, che non conoscevano il territorio su cui agivano, confondendo la Basilicata con l’Irpinia. (nota 2)
Il brigantaggio non era una novità nel Mezzogiorno, ma era un fenomeno endemico non solo del Mezzogiorno italiano, ma anche della Maremma, dell’Appennino Tosco-Emiliano, un fenomeno tipico di società agrarie arretrate e con forti tensioni sociali, “di società umane che si trovano tra la fase evolutiva dell’organizzazione tribale e familiare, e la società moderna, capitalista ed industriale, comprendendo però le fasi di disgregazione della società a base familiare, e quella a transizione al capitalismo agrario…la modernizzazione, cioè lo sviluppo economico, comunicazioni efficienti ed amministrazione pubblica, elimina le condizioni che favorivano la fioritura delle varie forme di banditismo”. (nota 3)
In queste società la vita del brigante rappresentava, per i più facinorosi e sediziosi, l’unica alternativa alla fame. Sono proprio costoro a costituire, sin dal VI secolo a.C., il “brigantaggio comune”, ossia piccole bande di delinquenti comuni dediti a rapinare i viandanti. A questo si associò, con il sorgere del sistema feudale, anche il cosiddetto “brigantaggio feudale”, costituito dagli eserciti personali del feudatario, (nota 4) e quello perpetrato dai numerosi eserciti mercenari presenti nella penisola italiana, per i quali il saccheggio faceva parte del normale costume di guerra e che doveva sorvolare con una certa facilità verso il brigantaggio vero o proprio, quando mancava loro un ingaggio da parte dei principi italiani. A nulla servirono le numerose prammatiche redatte nel Regno di Napoli (nel 1560, 1593, 1611 e nel 1638) semplicemente perché dovevano essere eseguite da coloro che fomentavano il brigantaggio, ossia i vari feudatari locali.
Nel Mezzogiorno ad aggravare la situazione contribuì la persistenza del feudalesimo fino al XIX secolo, il quale assieme all’estrema miseria dei contadini e alla particolare morfologia del paesaggio meridionale (montuoso, pieno di grotte e dirupi) concorreva ad alimentare il brigantaggio. Se poi a tutto ciò si aggiungevano le cause occasionali (carestie, cambi dinastici, invasioni) il brigantaggio, da piccole bande di ladroni da strada, diveniva anche un movimento politico e sociale. Erano proprio questi i momenti di maggior recrudescenza del brigantaggio, quando ai delinquenti comuni, cioè coloro che avevano accettato a priori la vita da brigante, spacciandola per la loro attività professionale, un mestiere come un altro, si aggiungevano migliaia di disperati che esercitavano già un altro mestiere, per la maggior parte contadini, e che erano stati costretti dagli eventi politici o economici ad accettare, a posteriori, quella vita.
Un esempio di “brigantaggio politico” fu l’esercito Sanfedista, pieno di ladroni da strada e di evasi, guidato da un cadetto di una nobile famiglia calabrese, il Cardinale Ruffo. A costui Ferdinando IV affidò nel 1799 la riconquista del suo regno, e, una volta sconfitti i francesi, lo stesso sovrano nominò generali i capibanda Pronio e Rodio, mentre nominò colonnelli e baroni, nonché pensionati e decorati dell’Ordine di Costantino, la massima onorificenza del regno, gli altri capibanda Frà Diavolo e Sciarpa.
Più numerosi furono i casi di “brigantaggio sociale”: nel 1585 il capobanda abruzzese Marco Sciarra non si limitava a ricattare i proprietari terrieri, ma adoperava “liberalità e magnificenza verso tutti quelli che lo seguivano, e creava magistrati, celebrava matrimoni tra i contadini e non violentava le loro donne, ottenendo in cambio fedeltà e copertura”; (nota 6) due secoli dopo fu il capobanda campano Angiolillo Del Duca che estorceva denaro ai ricchi feudatari comprava il grano ai poveri della zona; (nota 7) nel 1816 fu la volta del brigante pugliese Vardarelli, il quale vietò al barone locale di praticare l’usura a tassi elevati, eliminò le imposte e contemporaneamente distribuiva gratuitamente il sale e il pane ai braccianti delle masserie; (nota 8) nel 1848 il capobanda calabrese Talarico impose al barone di permettere gli usi civici ai contadini del posto. Talarico fu l’unico dei briganti sociali che riuscì a salvare la vita, perché, forte di cinquecento uomini, riuscì a far venire a patti con lui addirittura lo stesso re Ferdinando IV, ottenendo “la vita, la libertà, una pensione e il confino nell’isola più bella del regno, ossia Ischia”. (nota 9)
Non è un caso che il brigantaggio meridionale, in occasione di cambi dinastici, fu indirizzato, dietro promesse di terre e titoli onorari per i capibanda, dalla spodestata monarchia borbonica, verso un movimento politico, per poi disfarsene al suo ritorno (come avvenne nel 1799 e nel 1815), mentre il brigantaggio, in occasione di qualche carestia o epidemia, sposava la causa sociale, ossia le rivendicazioni dei contadini, per poter ricattare la monarchia borbonica e farla scendere a patti, come aveva fatto con successo Talarico.
La situazione di “anarchia sociale” in cui versava il Mezzogiorno durò fino al XIX secolo, quando i francesi abolirono il regime feudale e, successivamente, intrapresero una vera lotta ai “brigands”, indicando con questo termine i delinquenti comuni che avevano sposato la causa borbonica. Furono proprio i francesi a coniare per primi, nel 1810, il reato di brigantaggio, ossia “associazione di malfattori dedita ad attentare alla vita e alla proprietà altrui”, anche se poi in realtà la maggior parte di coloro che venivano definiti briganti erano, per la maggior parte, contadini che si davano alla macchia per sfuggire alle feroci repressioni francesi.Il brigantaggio, che più di ogni altro assunse enormi dimensioni (tanto da meritare l’appellativo di “Grande Brigantaggio”) fu quello postunitario. Esso durò cinque anni, dal 1861 al 1865, e, per le dimensioni assunte, divenne una vera e propria guerra civile tra esercito piemontese da una parte, e briganti dall’altra, dove però a subire le maggiori perdite fu l’inerme popolazione civile.
Per comprendere il brigantaggio postunitario bisogna partire anche stavolta da un cambio dinastico, i Savoia al posto dei Borboni, i quali assoggettarono l’intero Mezzogiorno al Regno di Sardegna. Il cambio dinastico comportò una serie di “cause immediate” (usando una frase del deputato Massari) che associate a quelle “predisponenti” generarono il brigantaggio. Tra le cause immediate vanno annoverate il vuoto di forze politiche e militari filopiemontesi, la linea politica antidemocratica (nota 10) e impopolare voluta dapprima dal Governo Prodittatoriale Lucano e, successivamente, dal governo di Torino (aumento del prezzo del pane, dell’olio e del sale, la coscrizione militare) tramite la Luogotenenza Napoletana; mentre tra le cause predisponenti vanno ricordate la secolare questione demaniale,(nota 11) i forti e laceranti contrasti sociali tra “cafoni e galantuomini”, la passività, la negligenza e la corruzione in cui versavano le autorità giudiziarie, amministrative e di polizia dell’intero Mezzogiorno.A tutto questo si aggiunse la presenza di numerosi comitati borbonici, specie in Basilicata (29 in tutta la regione) i quali iniziarono a contattare le bande di briganti preesistenti e ad assoldarle alla loro causa. Alla fine del gennaio 1861 i comitati borbonici del Vulture-Melfese contattarono Crocco e Mastronardi, che erano a capo di una banda composta da una decina di persone; costoro da allora iniziarono ad assoldare uomini per la causa borbonica. Per Crocco, un pastore di Rionero in Vulture che si era dato alla macchia per evitare l’arresto in seguito ai reati commessi sotto il regime borbonico, reati per i quali aveva ricevuto promesse di amnistia da parte del Governo Prodittatoriale Lucano, non fu difficile reclutare uomini, sfruttando il profondo malessere sociale dei contadini lucani (nel 1866 rimanevano da compiere operazioni demaniali in 108 comuni sui 124 dell’intera regione) e la coscrizione militare ripristinata dai piemontesi. Nella sola Basilicata ci furono oltre duemila renitenti alla leva sui 2.697 richiamati alle armi,(nota 12) mentre nel solo circondario di Melfi sui 505 briganti schedati ben 73 erano renitenti, oltre ai 79 sbandati.(nota 13)
Non a caso la reazione dell’aprile 1861, con cui iniziò il Grande Brigantaggio meridionale, ebbe inizio nella regione più arretrata e isolata dell’ex Regno di Napoli (la Basilicata appunto dove la prima strada rotabile toccò Potenza solo nel 1818, mentre nel 1861 su 124 comuni ben 91 erano sprovvisti di strade), dove erano proliferati molti comitati borbonici e vi era uno spaventoso vuoto di forze politiche e militari filopiemontesi. Nel circondario di Melfi all’inizio dell’aprile 1861 non era presente nessuna forza regolare; le uniche forze dell’ordine a disposizione erano una cinquantina di carabinieri (presenti solo in quattro dei nove centri di mandamento del circondario), (nota 14) e 4.759 militi ordinari, ma solamente iscritti sulla matricola, della Guardia Nazionale, oltre a 211 militi della Guardia Nazionale Mobile. In realtà gli effettivi della Guardia Nazionale erano qualche centinaio, male armati e, soprattutto, di dubbia fedeltà alla nuova monarchia.
Sfruttando queste favorevoli condizioni il 7 aprile Crocco, con oltre 500 briganti, diede inizio alla famosa “reazione del Melfese”, quando per circa dieci giorni rimase il padrone incontrastato del circondario di Melfi, uccidendo i liberali del posto, creando effimeri governi provvisori, elargendo anche (a Lavello) denaro dalla cassa comunale ai poveri del paese, ed ordinando di distribuire gratuitamente la farina alla cittadinanza di Melfi.
È proprio questo l’aspetto più interessante del brigantaggio, perché esso da grossa delinquenza associata divenne, molto astutamente, anche un vasto movimento sociale e politico. In fondo il brigante era, per i contadini meridionali, il parente o il vicino di casa datosi alla macchia per sfuggire alla fame o alla coscrizione militare, era uno di loro e rappresentava l’unico mezzo con il quale essi potevano vendicarsi dei torti e soprusi che subivano da secoli; pertanto non deve meravigliare se la popolazione meridionale si mostrò convivente con il brigantaggio, e ostile con l’esercito piemontese, il quale non solo non era del posto e non parlava la stessa lingua dei contadini meridionali, ma, soprattutto, veniva a ripristinare lo “status quo”, facendo così gli interessi dei soliti galantuomini.
La reazione del Melfese si fermò alle porte di Rionero (16-17 aprile), mentre la definitiva sconfitta del brigantaggio lucano, e più in generale dell’intero brigantaggio meridionale, avvenne nel novembre 1861, quando la scorreria di Crocco e Borjés si fermò dapprima a Vaglio (16 novembre) e, successivamente a Pietragalla (18 novembre).Con il ritiro di Borjés, un ufficiale catalano inviato dai Borboni nel Mezzogiorno per indirizzare le bande verso un movimento politico, si può considerare conclusa la parentesi politica del brigantaggio, ma non quella sociale perché rimanevano intatti gli squilibri sociali, l’estrema miseria dei contadini meridionali e la questione demaniale. Il Grande Brigantaggio imperversò per altri quattro anni sotto forma di grande delinquenza associata, spinta da quelle motivazioni sociali sopra citate, ricattando e commettendo grassazioni a danno dei proprietari terrieri della zona, non risparmiando nemmeno coloro che si professavano filoborbonici (i Fortunato e i Catena di Rionero, e i Saraceno di Atella). Si era creato infatti tra i briganti e quest’ultimi un geniale “patto di convivenza”, nel senso che le bande facevano pervenire a costoro le loro richieste di viveri, cavalli, biada, e questi si impegnavano a far trovare tutto l’occorrente nelle loro masserie. Dopo qualche giorno le bande simulavano di razziare le masserie dei proprietari filoborbonici, prendendosi tutto ciò che avevano ordinato, e il proprietario inoltrava la richiesta di sussidio alla Commissione Provinciale. Con questo geniale ed efficace sistema le bande continuavano a sopravvivere e i proprietari evitavano la distruzione delle loro masserie; l’unica parte a rimetterci era lo stato italiano, che si trovava paradossalmente a finanziare, in maniera indiretta, il brigantaggio.
Solo dopo la reazione dell’aprile si decise lo stanziamento di un battaglione di bersaglieri (265 uomini) a Rionero, e uno squadrone di cavalleggeri (60 uomini) a Lavello, sufficienti a riportare l’ordine nei paesi sconvolti dai briganti, ma non a combattere il brigantaggio. Solo con l’istituzione della Zona Militare di Melfi-Bovino-Lacedonia (1 luglio 1864) furono dislocati nel circondario di Melfi un battaglione di fanteria, quattro di bersaglieri (il 6°, 10, 16° e il 35°) e due squadroni di cavalleggeri di Montebello, in tutto circa 2.100 uomini.(nota 15)
La stessa Guardia Nazionale, (nota 16) ossia l’unica forza repressiva locale a disposizione dei galantuomini liberali, era piena di elementi borbonici, male armata (in tutto il circondario di Melfi i fucili a disposizione erano 1.184 per 4.759 militi ordinari e 1.040 di riserva), (nota 17) e penalizzata, quella ordinaria, dal proprio ordinamento interno che non gli consentiva di uscire fuori dal proprio territorio comunale, era stata accusata più volte di collusione con le bande (quella di Muro Lucano e di San Fele). La svolta avvenne nell’inverno1861-62 con l’arrivo del capitano De Giorgio, inviato dal maggiore Montemajor a riorganizzare la Guardia Nazionale nel circondario di Melfi. Da questa data in poi la Guardia Nazionale e la Guardia Nazionale Mobile,(nota 18) sostituita dal settembre 1863 dalle nuove squadriglie di volontari, si dimostrò zelante, salvo qualche eccezione (quella di Barile nel marzo 1864), nella lotta al brigantaggio, riportando, fino al giugno 1865, quindici vittime.
A livello locale, data l’assenza di efficaci provvedimenti politici e militari, ricrearono spontaneamente degli organismi (il Comitato di Mutua Difesa contro il brigantaggio e la Commissione Provinciale per il brigantaggio) per combattere, tramite la sottoscrizione di “offerte di denaro e di uomini armati”, il brigantaggio.
In effetti il governo italiano non solo sottovalutò inizialmente il brigantaggio, considerato come un movimento legittimista (nota 22) e perciò risolvibile con l’uso della forza, ma, dopo le prime preoccupanti relazioni dei prefetti meridionali al Ministro degli Interni sull’ordine pubblico, cercò di tenere all’oscuro il Parlamento sulla guerra civile che si stava combattendo nelle province meridionali, continuando ad illudersi che il brigantaggio fosse un problema di natura prettamente militare. Sotto quest’ottica va vista l’instaurazione dello stato d’assedio nell’intero Mezzogiorno (20 agosto-16 novembre 1862), adottato apparentemente per prevenire un’agitazione garibaldina (il 28 giugno Garibaldi era sbarcato a Palermo per reclutare volontari pe rl apresa di Roma), ma praticamente per legalizzare uno stato di fatto, ossia la feroce ed indiscriminata repressione militare dell’esercito nei confronti dei briganti, della popolazione contadina e dei democratici.
I democratici proposero più volte al governo, ma invano, la costituzione di una Commissione d’Inchiesta sulle condizioni del Mezzogiorno, e tentarono anche di impegnarlo in un dibattito parlamentare. Nemmeno la stesura di un Memorandum sul Mezzogiorno (giugno 1862), da parte dei democratici, riuscì ad abbattere il vergognoso muro di silenzio imposto dal governo sulla situazione delle province meridionali. Tuttavia nemmeno i democratici riuscivano ad individuare completamente le cause strutturali che avevano alimentato e alimentavano il brigantaggio. Nel Memorandum essi insistevano sul fatto che il brigantaggio fosse la logica conseguenza della politica attuata dai moderati (Cavour e Ricasoli) nel Mezzogiorno, una politica discriminatrice verso i democratici e di conciliazione verso gli elementi borbonici. Per stroncare il brigantaggio i democratici proponevano di affidare il compito a Garibaldi, l’unico che aveva una certa stima nel Mezzogiorno, ed ad i suoi volontari, e parallelamente epurare tutte le amministrazioni meridionali e la Guardia Nazionale dagli elementi filoborbonici. Infine si proponeva una saggia politica di lavori pubblici per attenuare la fortissima disoccupazione meridionale.Della secolare “questione demaniale” i democratici non accennavano minimamente, eppure era proprio questa la causa per la quale molti contadini abbandonavano la misera e durissima vita dei campi ed andavano ad ingrossare continuamente le bande dei briganti. Massari nella sua relazione spiegò i motivi che spingevano tanti contadini a darsi alla macchia: “il contadino non ha nessun vincolo che lo stringa alla terra, la sua condizione è quella del vero nullatenente, che vive di rapina…La vita del brigante abbonda di attrattive per il povero contadino, il quale ponendola a confronto con la vita stentata e misera che egli è condannato a menare, non inferisce certo dal paragone conseguenze propizie all’ordine sociale…e il fascino della tentazione a male operare è irresistibile…Là invece dove le relazioni tra il proprietario e il contadino sono migliori ivi il brigantaggio può allettare i facinorosi, che non mancano in nessuna parte del mondo, ma non può gettare radici profonde ed è con maggior agevolezza distrutto…I baroni non ci sono più ma la tradizione dei loro soprusi e delle loro prepotenze non è ancora totalmente distrutta, e in parecchie località l’attuale proprietario non cessa dal rappresentare agli occhi del contadino l’antico signore feudale. Il contadino sa che le sue fatiche non gli fruttano benessere e né prosperità, sa che il prodotto della terra innaffiata dal suo sudore non sarà suo, si vede e si sente condannato a perpetua miseria, e l’istinto della vendetta sorge spontaneo nell’animo suo”. (nota 23)
Altrettanto emblematica fu la descrizione che Pani Rossi, consigliere di prefettura di Potenza dal 1861 al 1865, fece della Basilicata del suo tempo: “i mali della plebe sono così antichi…, dove la falce della morte miete più di quel che le fonti della vita riproducono…, dove i beni sono privilegi di pochissimi e i più non hanno né tetto, né capanna, né aratro e indumenti…, dove il potere dei più forti schiaccia chi sta sotto, dove la giustizia non ha fastigi di culto, non atterrisce il reo e assicura l’innocente…, dove ogni cimento del suolo è una tana propizia (al brigante), ogni selva un ricovero…là c’è il brigante e vi perdura, si rintana, se è inseguito, nelle più fitte boscaglie; muore l’uno, l’altro succede, è leva perenne compiuta via via che perdurano le cagioni per cui l’uomo di plebe si versa armato nei campi”.(nota 24)
Lo stesso prefetto di Potenza, De Rolland, già dal 18 maggio 1861, in un telegramma al Dicastero degli Interni della Luogotenenza Napoletana, annunciava che: “le piaccia fare nuove istanze al commissario regio per la ripartizione dei demani. Le popolazioni reclamano. Necessita iniziare una volta per tutte queste questioni urgentissime”. (nota 25)
Più esplicito fu sempre il prefetto nel dicembre 1861 al Ministro degli Interni: “la rivoluzione liberale per rendersi amica la plebe, tra le tante promesse fattele, accampò l’imminente spartizione dei demani,…ma la lentezza delle operazioni demaniali e le tristi insinuazioni dei tristi hanno indotto la plebe a dubitare delle istituzioni del governo, e il richiamo degli sbandati l’hanno disingannata sulle esagerate promesse. I reazionari poi fanno, in nome di Francesco II, le più strane promesse e le masse, sempre credule, vi prestano fede. Queste sono le cause principali per cui la plebe si mostra propensa ai briganti,…l’annunzio dell’imminente ritorno di Francesco II e lo sbarco di 10.000 borbonici sono arti scaltre dei reazionari, che approfittano dell’ignoranza delle masse per farne sicuro strumento dei loro rei disegni”.(nota 26)
La costituzione di una Commissione d’Inchiesta sul brigantaggio, già proposta nel marzo 1862 dal deputato democratico Ricciardi, fu decisa dal nuovo governo Farini, anche dietro l’insistenza del generale La Marmora, il generale che controllava l’intero Mezzogiorno. I risultati a cui giunse la Commissione d’Inchiesta svelarono che il brigantaggio non era solo grossa delinquenza organizzata, ma anche la logica conseguenza della politica antidemocratica e antipopolare attuata dai moderati nel Mezzogiorno. Tra i rimedi che proponeva questa commissione c’era l’immediata quotizzazione dei demani, l’epurazione degli elementi filoborbonici da tutte le cariche pubbliche (sindaci, capitano della Guardia Nazionale, giudici), una saggia politica di lavori pubblici che attenuasse la fortissima disoccupazione meridionale, e, la costituzione di una speciale commissione parlamentare che indagasse più a fondo sui problemi del Mezzogiorno.
Le conclusioni della nuova Commissione d’Inchiesta sul Brigantaggio furono affidate ad un esponente moderato filogovernativo, Massari, il quale nella sua lunga relazione si soffermò sulle “cause predisponesti e su quelle immediate” che alimentavano il brigantaggio. Tra le prime Massari rilevava la misera condizione sociale del contadino meridionale, il passato malgoverno borbonico che aveva lasciato la popolazione meridionale nell’ignoranza, nella superstizione e nella mancanza assoluta di leggi e della giustizia, il forte retaggio feudale che plasmava ancora la società meridionale, e le condizioni geofisiche del territorio meridionale, pieno di grotte, dirupi, boschi e con pochissime vie di comunicazione. Tra le cause immediate l’esponente abruzzese citava il cambio dinastico, il decreto di Francesco II che liberava tutti i detenuti dalle carceri, lo scioglimento dell’esercito borbonico che lasciò migliaia di persone (gli sbandati) senza un lavoro, e la coscrizione militare che spinse tanti giovani (i renitenti) a darsi alla macchia.Dalle cause che alimentavano il brigantaggio Massari passò alle responsabilità delle autorità (dai Governi Prodittatoriali alle quattro Luogotenenze Napoletane), alla negligenza della magistratura, della Guardia Nazionale e della polizia nella lotta al brigantaggio, alla benevolenza del clero verso le bande. L’unica parte ad essere apprezzata da Massari fu l’esercito, degno di ammirazione ed affetto, perché esso operava con “nemici crudeli e codardi che non combattevano mai in campo aperto”; però degli eccidi compiuti dall’esercito piemontese (nota 27) Massari preferì non parlarne, affinché non si gettasse discredito sulle forze armate. Infine egli presentò il progetto della Commissione d’Inchiesta per reprimere il brigantaggio, imperniato su tre punti fondamentali: la creazione delle Giunte Provinciali di Pubblica Sicurezza per l’assegnazione del domicilio coatto ad oziosi e vagabondi, l’istituzione dei Tribunali Militari al posto di quelli ordinari per giudicare i rei di brigantaggio, e la diminuzione di due gradi della pena per tutti coloro che si fossero presentati ad un mese della pubblicazione della legge.
Il dibattito alla Camera dei Deputati, riunita per l’occasione in seduta segreta per ascoltare le relazioni della Commissione d’Inchiesta sul brigantaggio, durò per ben tre giorni, dal 3 al 5 maggio 1863, e alla fine la maggioranza governativa vietò la pubblicazione immediata della relazione Massari, che sarà pubblicata solo il 19 agosto e tagliata di sei punti.
Il 15 agosto 1863 veniva pubblicata la legge-stralcio Pica, che ricalcava le conclusioni a cui era arrivata la Commissione d’Inchiesta, ossia l’istituzione dei Tribunali Militari e delle Giunte Provinciali, mentre per la diminuzione della pena la legge prevedeva uno sconto fino a tre gradi. Con la legge Pica si legalizzò praticamente la prassi precedente, ossia i giudizi e le fucilazioni sommarie, attraverso il passaggio di giurisdizione dalla lenta e corrotta magistratura ordinaria a quella militare spietata. La legge Pica fu parzialmente modificata il 7 febbraio 1864 con la nuova legge sul brigantaggio voluta dal ministro degli Interni, Peruzzi. Le uniche differenze riguardavano il diritto degli imputati di farsi difendere da legali non militari, il diritto dei complici di ricorrere presso il Tribunale Supremo di Guerra per l’annullamento della sentenza “per incompetenza di materia”, l’aumento del domicilio coatto da uno a due anni, e l’istituzione di una pena accessoria al domicilio coatto. Questa nuova legge durò fino al 31 dicembre 1865 e portò alla fine del Grande Brigantaggio, travalicando anche lo stesso Statuto Albertino (articolo 71), (nota 28) ma non dei problemi di fondo da cui esso era scaturito.
Fu proprio con la legislazione speciale (legge Pica e legge Peruzzi) che il Grande Brigantaggio nel Vulture-Melfese si avviò ad un rapido declino. Già nel giugno 1863 veniva meno uno dei più feroci capibanda, Giovanni Fortunato, alias Coppa, ucciso da un uomo della sua banda, Tinna,(nota 29) che poi prese il suo posto a capo di essa. Poi fu la volta delle prime presentazioni volontarie dei capibanda (Caruso e Tinna nel settembre 1863), intimoriti dalla legislazione speciale e consapevoli ormai che la guerra, iniziata nell’aprile 1861, era ormai persa. Nel marzo 1864 il brigantaggio lucano accusò una grossa perdita, ossia la morte, in circostanze sospette, di Ninco Nanco,(nota 30) uno dei luogotenenti più fedeli di Crocco, a cui seguì, nel maggio dello stesso anno, la morte di un altro capobanda, Malacarne di Melfi. Nel luglio toccò allo stesso Crocco fuggire dal Vulture-Melfese, per non cadere nelle mani della forza pubblica, abilmente guidate dal pentito Caruso.
Con il ritiro di Crocco nello Stato Pontificio(nota 32) alle bande del Vulture-Melfese non rimaneva altro che costituirsi, per evitare di cadere, ora più facilmente, in qualche conflitto con le forze regolari. A settembre toccò a Tortora costituirsi, mentre nel febbraio 1865 si costituirono Gioseffi (il 3), Totaro (il 9) e Volonnino (il 26).
Le ultime bande rimaste furono quelle di Pio Masiello, distrutta nel giugno 1865,37 e quella di Ingiongiolo distrutta nell’ottobre 1866.
Con il ritiro di Crocco può dirsi concluso il Grande Brigantaggio del Vulture-Melfese, un fenomeno caratterizzato da più fasi, nelle quali esso tentò di mascherare la sua natura delinquenziale, sotto forma di movimento sociale, fatte eccezione per le due parentesi di Lavello e Melfi nell’aprile 1861, e politico.
Il brigantaggio, costituito inizialmente dalla piccola banda Crocco, fu assoldato dai Comitati borbonici della zona, ma finita la reazione esso continuò ad essere, e non poteva essere altrimenti dato che i briganti costituitisi dopo la reazione dell’aprile e durante il 1861 erano stati quasi tutti fucilati, (nota 39) grossa delinquenza associata. Con Borjés si tentò per l’ultima volta di spodestare la monarchia spagnola dal regno di Napoli, ma la strenua resistenza dei cittadini di Vaglio e Pietragalla fece svanire definitivamente il piano legittimista.
Dal novembre 1861 al giugno 1861 1865 il brigantaggio fu grossa delinquenza associata perché le sue fila venivano continuamente ingrossate da nuovi adepti, spinti alla macchia dalla fame e dalla renitenza alla leva. Esso fu sconfitto solo grazie ad una legislazione speciale, la quale però non risolse, e non poteva risolverli, i problemi di fondo da cui era scaturito (estrema miseria dei contadini meridionali, forti contrasti sociali, l’irrisolta questione demaniale e la coscrizione militare). Ai contadini meridionali, sconfitto il brigantaggio, non rimaneva che un’altra via per evitare la fame: l’emigrazione. (nota 40)
fonte
http://www.archeopolis.it/Pubblica/genzano/brigantaggio/index.htm?grande_brigantaggio.htm&2