IL BRIGANTAGGIO LUCANO (VIII)
Il “pentito” Giuseppe Caruso
Il capobanda Giuseppe Caruso nato ad Atella il 18 dicembre 1816, era un guardiano campestre dei Saraceno, grossi proprietari terrieri che capeggiavano in Atella il comitato legittimista, a cui fu molto legato, tanto da partecipare ai moti dell’aprile 1861 e a costituire una banda di atellani, agendo prevalentemente nella valle dell’Ofanto (dalla Rendina a Pescopagano).
Fu assieme a Coppa e a Ninco Nanco uno dei più feroci luogotenenti di Crocco. Partecipó con Crocco al sacco di Ruvo, con Borjés nella scorreria del novembre 1861, svernó con Crocco nell’inverno 1861-62, e nel marzo 1862 seguí Crocco nel bosco di Policoro. Il suo primo scontro lo ebbe il 4 aprile 1862 sulle rive dell’Ofanto sempre assieme a Crocco, mentre due giorni più tardi solo con la sua banda si scontró presso Muro Lucano con delle truppe regolari, uccidendo nove fanti. Nell’agosto 1862 partecipó assieme a Crocco alle trattative di resa con il delegato di P.S. di Rionero, Vespasiano De Luca: ai briganti si prometteva salva la vita e sarebbero stati giudicati da un tribunale civile e non militare, mentre per i capi, stimati in una decina, si prometteva il confino in un’isola a scelta del governo. Tuttavia quelle trattative non andarono a buon esito e Caruso, come gli altri briganti, continuó a scorrere la campagna. Il 6 settembre Caruso, Crocco e 200 briganti, in contrada Catapane (in agro di Melfi) assalirono una masseria e derubarono dieci tomoli di biada per i cavalli, dieci panni del valore di venti ducati e venti grani. Nella stessa contrada anche Caruso partecipó al massacro dei 15 cavalleggeri di Saluzzo (12 marzo 1863) e nel luglio stesso al massacro di altri 21 cavalleggeri, alla Rendina (tra Melfi e Lavello). Fu il suo ultimo reato, perché durante le trattative del settembre 1863, si costituí a Rionero il 14 settembre, al generale Fontana, dietro la pressione esercitata dai Saraceno. Nel suo interrogatorio nelle carceri di Potenza, Caruso svelò le convivenze tra autorità locali e briganti, come il sindaco e il cancelliere di Ruvo che somministravano, durante lo stato d’assedio, il pane alla banda Mazzarella per dieci piastre alla settimana, oppure a Ripacandida, dove «eccetto San Donato, sono tutti, chi più, chi meno, manutengoli di briganti».
Caruso spiegò che il motivo, per cui si diede alla macchia, fu di fuggire alle accuse di aver sparato contro la G.N. ad Atella, nell’aprile 1861, accusa per la quale rischiava la fucilazione. Caruso doveva rispondere, in base ai capi di imputazione raccolti dal giudice mandamentale di Rionero, davanti al Tribunale di Guerra di Potenza, di cinque grassazioni, un attentato di cospirazione e formazione di banda armata, un incendio volontario, ed una tentata estorsione.
Con sentenza del 5 ottobre 1863 il Tribunale Militare di Potenza lo condannò a soli sette anni di carcere, così come aveva chiesto il suo difensore, per «la buona condotta antecedente dell’imputato, nonché il suo continuo desiderio di costituirsi, mai appagato perché fu sempre distolto, e considerata la vita brigantesca scevra di quei delitti di sangue che generalmente si accompagna, colpevole solo di delitti antecedenti alla legge del 15 agosto 1863».
Sempre su consiglio dei Saraceno Caruso decise di collaborare con il generale Pallavicini divenendo, per questo, il primo «pentito» d’Italia.
Il primo marzo 1864 Caruso, con il consenso del prefetto Veglio e del capitano dei Carabinieri di Potenza, De Vico, uscì dalle carceri di Potenza e assieme allo stesso De Vico, sorpresero Crocco, Tortora e altri trenta briganti nel bosco di Bucito. Lo stesso Caruso uccise due briganti, mentre consegnò un terzo brigante al presidio militare di Rionero.
Con la costituzione della Zona Militare di Melfi-Lacedonia e Bovino ad opera del generale Pallavicini, dal 1° luglio 1864 al 18 marzo 1865, Caruso fu messo a disposizione, a partire dall’8 luglio, del Pallavicini, il quale nella persecuzione del brigantaggio lo destinava a varie compagnie di bersaglieri.
Il 7 aprile 1864 il direttore delle carceri di Potenza chiedeva la grazia sovrana per Caruso presso il regio Governo «per i servigi offerti e quelli che potrebbe rendere nella persecuzione del brigantaggio».
A questa ne seguirono altre due domande di grazia; una, datata 7 giugno 1864, inviata dal sindaco di Atella, non senza pressione dei Saraceno, al re Vittorio Emanuele II, e l’altra, datata 14 settembre 1864, inviata sempre dalla giunta comunale di Atella, stavolta al Ministero degli Interni, dove si chiedeva una pensione annua per il Caruso e la grazia «per tutti i servigi finora prestati alla patria nella distruzione del brigantaggio…per le generose promesse di compenso fattegli da tutte le Autorità della provincia, che finora hanno pieno il suo cuore di brillanti speranze. Somme generose gli si promisero specie per gli ultimi quattro briganti rinvenuti e sacrificati nella grotta della Frasca di Melfi, dove Caruso pagava l’azzardo, rimanendo vittima suo fratello, Michele, la cui vedova aspetta il promesso sussidio assieme al figlio dodicenne giacenti nella miseria…»”. Il 7 novembre 1864 il re Vittorio Emanuele II gli concedeva la grazia sovrana.
Proprio grazie alle preziose informazioni di Caruso, Pallavicini stroncherà il grande brigantaggio nel Vulture-Melfese, mentre il guardiano dei Saraceno, sempre grazie alla loro intercessione, sarà nominato brigadiere, a sessantasei anni, delle guardie forestali di Monticchio, dietro la raccomandazione del generale Pallavicini, e gli sarà assegnato una pensione vitalizia. I benefici della sua collaborazione non finirono, perché Caruso venne autorizzato, per ragioni di sicurezza pubblica e per la propria difesa personale a portare armi da fuoco, in quanto veniva autorizzato a presiedere l’ordine pubblico del suo paese.
fonte
http://www.archeopolis.it/Pubblica/genzano/brigantaggio/index.htm?caruso.htm&2