IL BRIGANTAGGIO LUCANO (XI)
Lo stato d’assedio delle province meridionali
Nell’andamento del brigantaggio dall’inverno all’estate del 1863, si possono scorgere tre tendenze contraddittorie. Da un lato, il brigantaggio delle grandi bande a cavallo appare asceso al livello di una vera e propria guerriglia.
Le bande sono salde, stabili, agguerrite come non mai, coordinate per zone. Malgrado la presenza di enormi forze militari (un terzo dell’intera forza alle armi nelle sole province del Mezzogiorno continentale), e malgrado il crescente numero ed armamento delle guardie nazionali, le bande in questo periodo infliggono alle forze repressive sanguinosi e reiterati rovesci, che sono sempre il frutto di una superiore conoscenza del terreno e capacità di manovra. In pochi mesi il morale delle guardie nazionali subisce un vero tracollo e la lotta, almeno nelle regioni del grande brigantaggio, sembra quindi restringersi nuovamente fra l’esercito e i briganti. D’altro lato, però, l’urto aperto, frontale, contro le forze repressive dello Stato unitario, comporta un dissanguamento crescente per le bande. Cominciano infatti a cadere i migliori capibanda, con un ritmo che fa presagire l’ecatombe del periodo fra la fine del 1863 e il 1865. Infine, si avvertono i primi sintomi di un certo distacco fra bande di guerriglia e popolazioni contadine.
Talune bande non infieriscono più soltanto sui proprietari, sui liberali, sui traditori, ma, ciecamente, anche sui lavoratori. Il 2 giugno, presso Melfi, i briganti sorprendono una quindicina di giovani intenti ai lavori dei campi; uccidono gli uomini, violentano le donne. Il 31 giugno, presso Lavello, i briganti invadono la masseria Parasacco degli Aquilecchia; trucidano nove contadini e violentano molte donne. In luglio, la banda Tranchella sorprende e massacra otto contadini presso Castelluccio. Sarebbe cosa affrettata ed erronea dedurre da questi misfatti, che peraltro si intensificheranno nei mesi successivi, soprattutto ad opera del sanguinario Caruso, una generale tendenza delle masse contadine ad isolare i briganti. Però è certo che la graduale organizzazione della polizia, il sistema del tradimento autorizzato e rimunerato dalle autorità, come pure la pretesa dei briganti di impedire i lavori agricoli ovunque essi abbiano la forza per farlo e, oltre a ciò, le loro perlopiù indiscriminate distruzioni, cominciano ad assottigliare la base sociale che li sosteneva, respingendo via via sempre più larghi strati contadini. Per il momento, però, prevale ancora il terrore imposto dalla lotta armata dei briganti e dall’appoggio fornito loro dalle masse dei salariati. I colpi del brigantaggio scuotono lo Stato unitario nel Sud. Non è più possibile esitare e temporeggiare di fronte al flagello. Il governo dei moderati deve ormai passare all’offensiva generale. (F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, 1976)
Dopo lunghe ed aspre battaglie parlamentari in cui la sinistra cercò di impedire l’approvazione della legge Pica o, quantomeno di mitigarne i rigori, la legge fu infine approvata dai due rami del parlamento e promulgata il 15 agosto 1863.
Appena pubblicata la legge anti-brigantaggio, scattò il dispositivo che il governo era andato apprestando da mesi. Vennero dichiarate in “stato di brigantaggio” tutte le province del Mezzogiorno continentale ed istituiti i tribunali militari. Subito dopo venne pubblicato il regolamento di esecuzione della legge Pica per quel che concerneva l’invio al domicilio coatto. Alcuni anni più tardi, Pasquale Stanislao Mancini, rievocando l’operato di alcuni tribunali militari, disse di volersi astenere dal meglio precisare le critiche per non essere costretto a fare rivelazioni di cui l’Europa dovrebbe inorridire! Molti altri parlamentari, tra cui anche alcuni sostenitori della legge Pica e, addirittura, uno dei firmatari (Angelo Camerini) elevarono aspre critiche contro la giurisdizione militare ed i sui abusi.
La procedura seguita nei giudizi militari fu estremamente disinvolta nel trattare complesse questioni giuridiche e, non di rado, causò irreparabili conseguenze. Generalmente, nei verbali dei dibattimenti venivano annotati solo le generalità dei testi a carico o a discarico ma non le loro deposizioni, talvolta i testi venivano immediatamente trasformati in imputati. Furono condannati a morte con la fucilazione, contrariamente a quanto stabiliva la legge, individui volontariamente presentatisi, minorenni non catturati in conflitto, persone non punibili per brigantaggio ma solo per reati comuni, mogli o compagne di briganti furono fucilate o condannate ai ferri a vita, fanciulle inferiori ai 12 anni, figlie di briganti, subirono condanne variabili dai 10 ai 15 anni. Il semplice sospetto di aver in qualche modo dato aiuto ai briganti venne punito con severità estrema come dimostra la sentenza quì riportata: 15 anni di carcere per aver dato del pane a una “comitiva armata” senza considerare che al malcapitato, se non avesse dato il pane, senz’altro gli sarebbe stata richiesta la vita!
Le persecuzioni e i rastrellamenti condotti senza controllo nei paesi e nelle campagne produssero varie decine di migliaia di denunciati e arrestati, esecuzioni sommarie ed ogni sorta di abuso sicchè, dopo il terrore imposto dai briganti sulle popolazioni inermi, si impose il terrore delle truppe piemontesi. I dati ufficiali parlano di 3.613 processi istruiti dall’agosto ’63 alla fine del ’64; nello stesso periodo e cioè nell’arco temporale di 495 giorni furono celebrati 2.217 processi e coinvolti 5.224 individui. Vale adire ogni giorno si celebravano circa cinque processi in cui, mediamente, il 20% si concludeva con una condanna, mentre la restante parte, pur venendo assolta dal reato di brigantaggio o manutengolismo, spesso veniva comunque avviata al domicilio coatto sulle isole.
Particolarmente spietati nella brutale azione di repressione furono gli ungheresi, truppe mercenarie al soldo del Piemonte per dare la caccia ai briganti. Essi lasciarono una scia di morte che non risparmiò donne, vecchi, bambini.
Emblematica l’azione del generale piemontese Enrico della Rocca il quale afferma: “Feci fucilare alcuni capi e pubblicai che la medesima sorte sarebbe toccata a coloro che si fossero opposti, armata mano, agli arresti. Erano tanti i ribelli che numerose furono anche le fucilazioni, e da Torino mi scrissero di moderare queste esecuzioni riducendole ai soli capi. Ma i miei Comandanti di distaccamento, che avevano riconosciuta la necessità dei primi provvedimenti, in certe regioni dove non era possibile governare se non incutendo terrore, vedendosi arrivare l’ordine di fucilare soltanto i capi telegrafavano con questa formula: « arrestati, armi in mano, nel luogo tale, tre, quattro, cinque capi di briganti ». Ed io rispondevo: « Fucilate, fucilateli tutti! ». Poco dopo il Fanti, a cui il numero dei capi parve straordinario, mi invitò a sospendere le fucilazioni e a trattenere prigionieri tutti gli arrestati. Le prigioni e le caserme rigurgitarono, il numero dei carcerati crebbe a dismisura… “.
Tutti i mezzi possibili o immaginabili furono adoperati nella feroce repressione, non ultimo quello di incoraggiare con allettanti promesse economiche o con la concessione di salvacondotti la delazione e il tradimento. In tutti i Comuni furono affissi manifesti con l’indicazione della taglia messa sulla testa dei capi banda, premi sostanziosi “saranno pagati in pronti contanti… a coloro che assicureranno in un modo qualunque alla giustizia” i briganti ritenuti più pericolosi. Il più noto dei “voltagabbana” fu il copobrigante di Atella, Giuseppe Caruso, che, in cambio dell’estinzione di tutti i reati commessi, giudò le truppe del generale Pallavicini in tutti i nascondigli della banda Crocco e contribuì, in modo determinante, all’annientamento della banda stessa.