IL BRIGANTAGGIO NEL MEZZOGIORNO AL MOMENTO DELL’UNIFICAZIONE ITALIANA CAP. II di G. SPADA
Lo storico Franco Molfese in una sua recente pubblicazione scrive: “Uno studio sul brigantaggio sviluppatosi nel Mezzogiorno al momento dell’unificazione, risulta arduo, non soltanto a causa della cortina di silenzio che la carità di patria volle stendere su esso, e su taluni punti in modo realmente impenetrabile, ma anche perchè uno studio del genere è costantemente esposto al pericolo di frammentarsi nell’analisi di un fenomeno complesso e confuso nelle sue manifestazioni, per alcuni versi ancora tanto oscuro, e che a prima vista sembra confermare la corrente convinzione che vi prevalga assolutamente l’elemento spontaneo, e quindi tutto sia frazionato, particolare, caotico” (1).
Ma aggiunge: “Uno studio su questo determinato brigantaggio non può, però, prescindere dal “momento” dell’unificazione italiana, perchè quel momento risulta il denominatore comune di quegli avvenimenti. Vogliamo dire che quegli avvenimenti si possono verificare in un determinato capovolgimento politico, e non solo politico; non prima, almeno in quella misura” (2). La tesi del Molfese, secondo cui il denominatore comune del fenomeno brigantesco è il momento dell’unificazione d’Italia è da ritenersi senz’altro una premessa fondamentale e sicura. Del resto, in ogni periodo di transizione, più o meno lungo, si verificano sempre, almeno fino ad oggi, avvenimenti fuori dell’ordinario, per il semplice motivo che in un periodo di transizione non tutto risulta controllabile, con tutta la buona volontà. Comunque il denominatore comune, cioè il “momento” dell’unificazione italiana, non dispensa dalla ricerca di cause specifiche di quegli avvenimenti; anche se proprio questa ricerca risulta assai ardua, almeno nel senso di cause che spieghino, o tentino di spiegare, globalmente gli avvenimenti stessi, cioè tutto il fenomeno brigantesco nel Mezzogiorno. E cominciamo con lo stabilire che cosa si intende per brigantaggio e briganti. “Venendo al concreto, continua sempre Molfese, i “cafoni” armati, e regolarmente inquadrati dai borbonici sono briganti? Ammesso che questi siano briganti, i “cafoni” armati e inquadrati dai liberali sono, anche essi, briganti? Sul piano pratico, dico sul modo di condurre la guerra, la differenza, una differenza sensibile, non esiste, tra i primi e i secondi” (3) Ancora: “gli arrivisti senza scrupoli, frutto di tutti i tempi di emergenza, che vissero in quel determinato periodo di emergenza, sfruttando quel periodo, si inserirono in quel periodo e rimasero brillantemente a galla, sono qualificabili come briganti?” (4). Questi interrogativi servono a spiegare certamente le espressioni “cortina di silenzio” e “carità di patria”, riscontrate nell’opera di Molfese. Noi tenteremo di rispondervi evidenziando i momenti più salienti e significativi del fenomeno brigantesco nel cerretese. E perciò cominciamo con lo stabilire che pur riservando la qualifica di brigante a chi si diede alla macchia, in compagnia più o meno numerosa e consistente, rubando, ricattando, proteggendo e, qualche volta, ammazzando, rimane sempre il problema delle cause, perchè il fenomeno, anche ristretto al brigante tecnico e classico, risultò imponente, nel Mezzogiorno, al tempo dell’unità. Nell’autunno del 1860 e nell’inverno 1861 in merito al brigantaggio meridionale, si verificarono avvenimenti che vanno serenamente valutati. Sempre Franco Molfese, con un certo tono di sentenza, tra le cause specifiche, sottolinea, come fondamentale, quella dello scioglimento dei volontari garibaldini. ” …… Anzitutto lo scioglimento dell’esercito meridionale garibaldino (5) Lasciando da parte il problema del perchè non si fosse arrivato alla fusione dell’esercito garibaldino con l’esercito regolare, oppure alla costituzione dell’esercito garibaldino come corpo autonomo a sè stante, almeno in via provvisoria, rimane il fatto concreto dello scioglimento, piuttosto rapido, di quelle forze per niente trascurabili come consistenza numerica, a parte l’ascendente di Garibaldi. Legare, però, come effetto certo di quella determinata causa, il brigantaggio del Mezzogiorno allo scioglimento dell’esercito meridionale garibaldino, ci sembra piuttosto azzardato. Non possiamo, infatti, affermare con certezza che senza lo scioglimento di quelle forze non avremmo avuto il brigantaggio nel Mezzogiorno. Un fattore da considerare, invece, con più attenzione è la questione sociale. Si tratta, anche in questo caso, di un fatto concreto, messo in evidenza, senza mezzi termini, da Francesco Saverio Nitti (6) Ma l’analisi del grande statista ha il torto di una polemica eccessiva, in cui, non di rado l’obiettività risulta assente. Premettiamo subito che il problema sociale esisteva nel Mezzogiorno, anche prima dell’autunno del 1860, e non aveva provocato quei fenomeni che provocò al momento dell’unità italiana. Non risulta, poi, ancora dimostrato che i briganti del Mezzogiorno fossero spinti alla macchia dallo stato di indigenza; risulta, anzi, che i poveri sono stati sempre gli ultimi a muoversi, specialmente nel Mezzogiorno. In ogni caso, il problema sociale non può essere trascurato, anche se non risulta dimostrabile un legame necessario tra brigantaggio e stato di indigenza. Come non può essere trascurato il fatto, importantissimo, “dimostrabile e dimostrato” che in determinati casi, “nello spingere i cafoni” al brigantaggio, non poco potè l’opera di sobillazione e di persuasione compiuta dai possidenti, sia per motivi politici, sia per torbidi disegni particolari (7).(E questo avvenne in maniera massiccia nel cerretese). Nè può essere ritenuto di secondaria importanza l’atteggiamento del clero. Il clero, specialmente l’alto clero del Mezzogiorno, non si manifestò entusiasta delle novità. Il tradizionale spirito di conservazione, ed una forte carenza di cultura spinsero il clero del Mezzogiorno, come sostiene sempre il Molfese, in larga maggioranza ad allearsi con la reazione. Non si può affermare però altrettanto per il Sannio e particolarmente per il cerretese (8). Tutto questo, comunque, non spiega il fenomeno del brigantaggio nel Mezzogiorno, come non lo spiega, sempre visto il problema globalmente, il movente politico. In conclusione, si ha l’impressione netta, che il fenomeno del brigantaggio nel Mezzogiorno sia frutto, più che di cause specifiche e determinate, di un complesso di circostanze che esplosero per la particolarità di un determinato “momento” della storia del Mezzogiorno d’Italia. Giustamente il Molfese stesso, nel brano già citato, parla del momento dell’unificazione. Questo momento si identifica, per il Mezzogiorno d’Italia almeno, con un vero terremoto politico, e non solo politico; questo momento, com’è noto, provocò reazioni assai varie e in non pochi scatenò gli istinti primordiali. Ad un certo momento, si verificò, insomma, una “vacatio legis” e fu proprio questa “vacatio legis” reale o presunta, a provocare manifestazioni abnormi che non si sarebbero verificate in tempi normali. Del resto la normalità dei tempi, più che la forza costituisce il rimedio sicuro a certi mali. Questo è anche il motivo per cui il brigantaggio meridionale, sembra sfuggire ad ogni tentativo di sintesi, come fenomeno sociale. Appunto perchè predomina l’istinto primordiale, che è spontaneo e personale, il brigantaggio appare “frazionato, particolare e caotico” (9). Si tenga presente, infine, che il momento dell’unificazione italiana, risulta per se stesso un fenomeno assai complesso; si vuoi dire che in quel momento, ogni elemento, anche quello che poteva sembrare marginale in se stesso e di secondaria importanza, diventò della massima importanza e decisivo, sempre però per quelle determinate persone istintive e primordiali. Piccoli dispetti, vecchi rancori, dissidi familiari, gelosie assopite, ma non morte, fame, sete di giustizia, antipatie, ambizioni, rancori: tutto contribuì, in quel determinato e delicato momento al dilagare del brigantaggio. Anche lo scioglimento delle forze garibaldine, solo in questo senso, può inserirsi tra le cause, per quanto questo elemento non abbia, considerato in se stesso, rapporti di parentela con il brigantaggio. Ma come ebbe inizio, quel delicato momento? In concreto, ci si chiede se sia possibile stabilire, con sicurezza, che una determinata politica e una determinata classe dirigente siano stati i fattori che hanno provocato la maturazione di quel momento, psicologicamente adatto alla manifestazione violenta di forze istintive e primordiali? Ci sembra difficile individuare, sempre con sicurezza, in una determinata e specifica ‘causa, il fattore chiave di quel momento storico e psicologico. Si rimane più vicini alla realtà e alla logica, se ci si limita a spiegare certi fenomeni non ordinari, facendo appello appunto alla eccezionalità di uno specifico periodo storico, cioè alla carica psicologica che solo quel determinato momento possiede. E’ chiaro, però, che se vi sono responsabilità di uomini e mentalità, come indiscutibilmente vi furono alla radice del fenomeno di cui ci occupiamo, non si può fare a meno di risalire a queste precise responsabilità; diversamente ogni spiegazione risulterebbe incompleta e confusa. Ma ritorniamo alle cause. Ritornando alle cause e, sempre rimanendo nell’argomento del caos e del brigantaggio nel Mezzogiorno, Tommaso Pedio, in un suo recente lavoro, vede, senza mezzi termini, all’origine di quel delicato momento storico, la politica sbagliata del governo piemontese. Anche il Pedio, a nostro modesto parere, non avrebbe dovuto circoscrivere solo in questo aspetto il fenomeno. Infatti, come andremo ad evidenziare, egli stesso fornisce elementi di conferma alla nostra tesi. Il Pedio sostiene: “La rapida trasformazione politica conseguita nel mezzogiorno d’Italia ad opera di una minoranza che ne ha affrettata la soluzione per impedire ripercussioni nella vita economica e sociale del paese, e l’atteggiamento assunto dal governo piemontese, che si avvale di uomini che non conoscono o hanno dimenticato quali siano le reali condizioni delle province meridionali, suscitano ovunque risentimenti e malcontenti, non solo negli esponenti della vecchia classe dirigente borbonica, ma anche tra gli stessi liberali” (10). Non tutti, forse, condivideranno il punto di vista di Tommaso Pedio, e sulla rapida trasformazione politica (conquista del mezzogiorno) e sull’incompetenza degli uomini che ottennero la fiducia del governo piemontese. Si tratta, infatti, di valutazioni personali (non certamente prive di fondamento) che possono anche non incontrare il favore di tutti. Bisogna, però, riconoscere che se l’unità d’Italia si fosse verificata dopo aver raggiunte l’unità di pensiero e di sentimento nella maggioranza degli italiani. e non prima, gli eventi avrebbero avuto un altro corso, e per il laicato e per il clero del mezzogiorno d’Italia. Per quanto riguarda, invece, l’incompetenza di determinati uomini e gli errori politici, il discorso è diverso, sempre, si capisce, in rapporto al caos e al brigantaggio nel mezzogiorno. Ebbene, cominciamo dalla considerazione che lo stesso Tommaso Pedio riconosce che “la situazione non si presenta identica in tutte le province continentali del mezzogiorno” (11). Le sue considerazioni, come èespressamente detto, si riferiscono alla sola Basilicata, alla quale il suo lavoro è dedicato. Restringendo il discorso alla Basilicata, il Pedio scrive che “i Piemontesi si ispirano ad una politica sostanzialmente conservatrice e, incuranti di quelli che sono i bisogni e le aspirazioni delle classi popolari, non si preoccupano di cattivarsi l’animo delle popolazioni contadine, alle quali sarebbe bastato il riconoscimento dei diritti sulle terre demaniali e la espropriazione e la quotizzazione di quelle usurpate” (12).Questa cosa, apparentemente semplice, non fu fatta, e quindi venne fuori il caos, brigantaggio compreso, almeno in Basilicata. Che cosa sarebbe successo, adottando, o meglio se i piemontesi avessero adottato quel provvedimento apparentemente semplice? Non lo sappiamo, semplicemente perchè quel provvedimento non fu adottato; per conseguenza, almeno per la Basilicata, il momento della unità d’Italia assunse quelle determinate caratteristiche e non altre. Ma a contraddire la tesi del Pedio si può ricordare, ad esempio, che Mons. Gennaro Acciardi, vescovo di Anglona e Tursi difficilmente si sarebbe lasciato convertire al nuovo corso dall’attuazione del provvedimento di cui sopra e da altri provvedimenti. Mons. Acciardi, infatti, aveva ispirata e benedetta, secondo quanto afferma lo stesso Pedio, la costituzione della “Setta del Sangue di Cristo”, i cui proseliti davano giuramento sopra un Cristo, una pistola e un pugnale, e promettevano la distruzione di tutti i liberali e la ripristinazione, sul trono di Napoli, della dinastia borbonica. E ciò, naturalmente, a prescindere da qualsiasi riforma che il nuovo governo si fosse apprestato ad introdurre in favore del Mezzogiorno, Basilicata compresa. Sicchè, sempre in riferimento alla Basilicata, non siamo in possesso di elementi concreti, per asserire che il riconoscimento dei diritti dei contadini sulle terre demaniali e la quotizzazione delle terre usurpate avrebbero eliminato alla radice la tendenza alla macchia; rimaniamo, infatti, nel campo delle ipotesi, a parte il fatto che non tutti i briganti furono contadini, e contadini bisognosi. Resta, però, sempre vero che anche il problema delle terre demaniali ebbe il suo peso, in quel determinato momento storico, rendendo quel momento, e solo quel momento, delicato ed eccezionale. Precisamente con l’eccezionalità del momento dell’unità d’Italia è stato già detto, possiamo spiegare non pochi fenomeni fuori dall’ordinario. Pertanto, per quanto riguarda la Basilicata, l’alibi ufficiale è costituito senz’altro dal mancato riconoscimento dei diritti sulle terre demaniali. Allora si può concludere sostenendo che, in ogni regione del mezzogiorno d’Italia, una determinata causa assunse caratteri di vera drammaticità nel momento dell’unificazione, e solo in quel momento, precisandosi come un alibi e provocando il caos, brigantaggio compreso. Per quanto riguarda poi la fiducia che il nuovo governo diede ad uomini incompetenti è opportuno precisare che in tutto il mezzogiorno, salvo rare eccezioni, la maggioranza della vecchia classe dirigente borbonica riuscì a mantenersi a galla, ottenendo soprattutto fiducia dal nuovo governo piemontese. (E’ il caso del mandamento di Cerreto). Il problema sociale, invece, quale s’è già fatto cenno, merita un particolare esame, sia per l’importanza che ha in se stesso, nel contesto generale delle condizioni del mezzogiorno d’Italia, sia perchè Francesco Saverio Nitti, nei suoi “Scritti sulla questione meridionale” trova la spiegazione di ogni problema, e quindi anche del brigantaggio nel Mezzogiorno, appunto nel problema sociale, cioè nelle realtà socio-economiche del mezzogiorno d’Italia. Scrive il Nitti: “Le cause predisponenti del brigantaggio erano numerose: alcune sono scomparse, qualcuna ancora permane. La prima, la vera, la grande causa era la miseria” (13).Dopo aver ricordato che i signori feudali, esenti da tributi, forniti di innumerevoli diritti, e il clero (numerosissimo), alto e basso, facevano la parte del leone nel reddito, quasi esclusivamente agrario, il Nitti conclude: “Quale poteva essere la vita del popolo? Una vita grama e stentata; una vita di miserie e più ancora di depressione morale. In alcuni feudi i baroni erano implacabili nel pretendere che il molino fosse un loro monopolio; e il pane si cuoceva sotto la cenere ed era negato ai contadini (del mezzogiorno) ciò che hanno anche le popolazioni più misere e meno progredite” (14).Bisogna aggiungere, sempre secondo il Nitti, che quelle condizioni penose, ora descritte, risultavano inconcepibili senza un regime feudale. “Se pensate a ciò che è stata la feudalità nell’Italia meridionale, come vi si sia radicata per secoli e come, mutate le forme, in qualche provincia duri tuttavia, vi spiegherete lo svolgersi dell’espandersi del brigantaggio. Ma nulla vi contribuì di più della immoralità profonda della dominazione spagnuola, durata per sì lungo volgere di tempo” (15).Va subito sostenuto che è fondamentale insistere sulla necessità di circoscrivere il discorso sull’attività brigantesca manifestatasi al momento dell’unificazione italiana. Ogni regione ha caratteristiche proprie ed ogni brigante è inconfondibile con altri, perchè non esistono due anime uguali; esiste, però, un determinato momento, difficile ad individuarsi con esattezza, in cui regioni ed individui sembrano darsi una voce; ne nasce così un fenomeno comprensibile e spiegabile solo in quel determinato momento. Lo studio di una voce, di quel fenomeno, ha la sua importanza; Cosimo Giordano è una voce di quel determinato momento. Influì la ricchezza della borghesia e del clero feudale? Non è facile rispondere a queste domande; certamente però influì il momento dell’unità italiana. Senza quel momento, abbiamo detto e ripetiamo, Cosimo Giordano, caporale delle truppe borboniche, sarebbe rimasto nell’esercito, avrebbe fatto carriera e sarebbe morto dopo aver goduto onorata pensione, come tanti altri prima di lui. Non abbiamo parlato di povertà, parlando di Cosimo Giordano, perchè in questo fatto specifico non è il caso di parlare di spinta del bisogno; non si può però escludere il caso di gente spinta alla macchia dal bisogno. Lascia, però, perplessi l’affermazione che identifica, in linea generale, il sistema feudale spagnuolo con la miseria e con tutti i mali del mezzogiorno, brigantaggio compreso. Il sistema feudale è certamente un problema generale, ma non solo del mezzogiorno d’Italia: tutta l’Europa, per limitare il discorso all’Europa, si è identificata con quel sistema, per centinaia di anni. Anche la dominazione spagnuola è un problema generale del mezzogiorno, ma non solo del mezzogiorno. Ma a parte il fatto che si esce fuori dal tema, risulta assai arduo dimostrare che nel mezzogiorno d’Italia, almeno, si verificarono quelle determinate manifestazioni sociali proprio in seguito a quel determinato sistema di governo. Scendendo a specificare, ci sembra eccessivo affermare col Nitti “che durante tutto il vicereame spagnuolo e il regno dei Borboni, il brigantaggio sia stato una delle parti più interessanti, se non la più interessante della storia meridionale”. “Era, il più delle volte, un vero malandrinaggio: contadini affamati, o perseguitati dalla cosiddetta giustizia baronale, si riunivano in bande, sceglievano un capo più intelligente, o più feroce, e si davano, come si diceva allora, alla campagna, per rubare e per uccidere. Se i capi erano, il più delle volte, persone nate a delinquere, i gregari, gli oscuri, erano sofferenti che avevan torti da vendicare, o contadini ridotti ad una vita quasi bestiale, e che desideravano, per qualche anno almeno, saziare la fame e vendicare le offese. E tutto incitava al brigantaggio” (16).Un lettore sprovveduto di cognizioni storiche del mezzogiorno d’Italia, potrebbe essere indotto a pensare che questa parte d’Italia sia stata la vera patria dei briganti, salvo la solita eccezione delle poche e immancabili persone per bene, che vivono e prosperano in tutti i regimi. Continua, infatti, il Nitti: “Province intere, per secoli, furono al di fuori di ogni legge, sotto la dominazione diretta o indiretta dei banditi, sotto la persecuzione di un ordine feudale, che era tanto più esigente in quanto i baroni solevano vivere in città” (17). Ma a proposito della pochezza e del piattume dei sovrani borbonici del mezzogiorno d’Italia, del sistema politico, causa della miseria, del brigantaggio e di tutti i mali del Mezzogiorno stesso, non si può evitare di mettere in rilievo un particolare, di non poca importanza, con cui il Nitti cade in una evidente contraddizione. Si tratta del re borbonico Ferdinando II (1830-59). Citiamo sempre dal Nitti: “Pochi principi italiani fecero il bene che egli fece. Mandò via dalla corte una turba infinita di parassiti e di intriganti: richiamò i generali migliori, anche di parte liberale, e licenziò gli inetti; ordinò le leve militari; fece costruire, primo in Italia, una strada ferrata, istituì il telegrafo, fece sorgere molte industrie, soprattutto quello di rifornimento dell’esercito, che era numerosissimo; ridusse notevolmente la lista civile; mitigò le imposte più gravi. Giovane, forte, scaltro, voleva fare da sè, ed era di una attività meravigliosa. Educato da preti e cattolicissimo egli stesso, osò, con grande ammirazione degli intelletti più liberi, resistere alle pretese del papato e abolire antichi usi, umilianti per la monarchia napoletana… E’ passato alla storia come “Re bomba” e non si ricordano di lui che il tradimento della Costituzione, le persecuzioni dei liberali, le repressioni di Sicilia, e le terribili lettere di Gladstone. Abbiamo troppo presto dimenticato che, durante quasi due terzi del suo regno, i liberali stessi lo chiamarono Tito e lo lodarono e lo esaltarono per le sue virtù e per il desiderio suo di riforme. Abbiamo troppo presto dimenticato il sollievo che le sue riforme finanziarie produssero nel popolo, e l’ardimento che egli dimostrò nel sopprimere vecchi abusi” (18). In parole povere, bisogna riconoscere che, a parte le ombre che non mancano mai, il lungo regno di Ferdinando Il, di cui il Nitti stesso, come si è visto, celebra una vera apologia, doveva costituire il clima meno adatto per esplosioni brigantesche, e, invece, le esplosioni ci furono. Solo un particolare può spiegare allora quelle esplosioni, almeno nella loro portata, e questo particolare, è il momento dell’unità cioè il momento del capovolgimento politico, e non solo politico, in Italia. Quando si verifica, o almeno si ha l’impressione che si verifichi, una carenza di autorità, e quindi di legge, prende sopravvento, in pochi per fortuna, la forza primitiva dell’istinto, ingigantita senza dubbio, da quelle cause esterne complesse e molteplici, di cui abbiamo fatto cenno. Certamente nel Mezzogiorno mancavano le strade, nel secolo scorso; questo fatto può senz’altro agevolare l’attività brigantesca, ma non provocarla. La costruzione di strade e di ferrovie, l’istruzione obbligatoria ed altri innegabili vantaggi, che nel secolo scorso mancavano, furono realmente fattori importanti, ma non la medicina che avrebbe eliminato tutti i mali della società; diversamente non potremmo spiegarci l’attività dei moderni briganti che assaltano banche, uffici postali e privati, nonostante i vantaggi di cui disponiamo. Per spiegare il rincrudire, in determinati tempi, di forme criminose di attività, non rimane che fare appello alla caratteristica stessa dei tempi. Ma tornando al brigantaggio nel Mezzogiorno, il Nitti scrive ancora che “la violenza sessuale delle genti del Sud faceva il resto”. Ecco, comunque, in sintesi, secondo il Nitti le cause del brigantaggio meridionale: regime borbonico, miseria, analfabetismo, mancanza di strade e violenza sessuale delle genti del Mezzogiorno. Certamente non si può negare l’esistenza di abusi, in materia sessuale, e da parte di signori feudali e da parte di briganti. Se, però, il sesso (intendiamo la violenza sessuale delle genti del Sud) fosse messo da parte, almeno negli scritti seri, sarebbe certamente meglio non solo per noi creature umane del sud, ma soprattutto per la verità storica, che non apparirà mai evidente quando il metodo di indagine risulta totalmente sprovveduto di un criterio scientifico. D’altra parte non è ancora dimostrato che la violenza sessuale delle genti del Sud entri come componente fondamentale nell’esplosione brigantesca del Mezzogiorno al momento dell’unificazione italiana, anche perchè gli episodi briganteschi non furono caratterizzati da stupri, violenze e offese al pudore, salvo qualche rarissimo caso. Sicchè il “sesso” non è da ritenersi, neppure una delle cause marginali che alimentarono il fenomeno brigantesco. Rimane il problema dell’educazione e della formazione morale. Giustamente, il Nitti chiama in causa anche la Chiesa: “La religione, quando non era una superstizione, aveva il carattere dei luoghi: una religione dura paurosa, quasi crudele, mitigata solo dall’intervento del Protettore, un santo, cioè, per lo più patrono di un male grave e pronto più a punire che ad amare, più a vendicare che a perdonare” (19).Non so quanti studiosi di storia della Chiesa siano disposti a condividere il giudizio del Nitti, sempre sull’azione della Chiesa nel Mezzogiorno d’Italia; è però certo che il Nitti intendeva chiamare in causa anche la Chiesa per la sua parte di responsabilità nella formazione morale della società. Responsabile anche la Chiesa secondo il Nitti, ma non solo la Chiesa, aggiungiamo; responsabile soprattutto lo Stato. La sperequazione economica tra Nord e Sud la carenza quasi totale di qualsiasi politica scolastica nel Sud (e il Nitti non lo ignora) costituiscono uno sconcertante dato di fatto; le statistiche, i bilanci dello Stato, che sono l’anima degli scritti del Nitti, parlano un linguaggio assai chiaro. Comunque, il problema di maggiore rilievo, per Nitti, rimane sempre quello della indifferenza della Chiesa dinanzi alla formazione morale del cittadino. Noi ci rendiamo conto che senza questa formazione morale, che dovrebbe essere sempre al di sopra o almeno proporzionata al progresso materiale, lo stesso progresso materiale rimane un fatto avulso dalla crescita di tutto l’uomo (corpo ed anima). Concordiamo con Nitti; ma non possiamo ignorare che è lo Stato, e solo lo Stato, obbligato ad intervenire, con i suoi poteri ed i suoi strumenti, per garantire una formazione morale al cittadino; è compito e dovere primario dello Stato. Sicchè, possiamo riprovare la insensibilità della Chiesa, ma al tempo stesso condanniamo il delitto dello Stato, delitto di inadempienza gravissima, perchè resta sempre uno dei doveri essenziali dello Stato provvedere alla formazione morale dei suoi amministrati. Gl’italiani, ed i meridionali in particolare, erano solo dei sudditi e non dei “cittadini”. Da ciò si spiegano le condizioni di vera inciviltà baronale che caratterizzarono la vita del Mezzogiorno all’epoca del brigantaggio. Tutto il secondo volume degli “Scritti sulla questione meridionale” (20),invece, è dedicato al bilancio dello Stato, dal 1862 al 1896-97. Si tratta di un contributo assai prezioso per una storia dell’economia italiana nella seconda metà del secolo scorso, anche perchè il Nitti, grande statista, parla da competente e chiosa con equilibrio. Se il Nitti vivesse ancora, troverebbe certamente di che rallegrarsi, ma, forse, con stupore noterebbe il fatto che ancora oggi in tutti i programmi di governo si parla di divario tra Nord e Sud, di problema meridionale e di disuguaglianza dei cittadini. Se ci è consentita una digressione, questo vuoi dire allora che nelle cose di governo c’è un punto di partenza non un punto di arrivo e, quindi, spesso vi sono lunghe parentesi di riposo o di stagnazioni; il progresso non ammette punti di stasi o di riposo. Ma tornando all’analisi sul brigantaggio del Mezzogiorno, ci sia permesso un rilievo sul piano del metodo. Non ci sembra metodo oggettivo (diciamo non sembra) fare emergere ad ogni costo il brigante da quel determinato ambiente sociale. Infatti pur riuscendo a spiegare (a giustificare mai) come da quel determinato ambiente (geografico, economico, politico) venga fuori un brigante o una intera banda di briganti proporremmo sempre un problema quasi insolubile: come cioè sia possibile, in quello stesso ambiente, l’esistenza del 99 e rotti per cento di creature umane, che rimangono a casa loro, lavorando, costruendo, soffrendo, senza pensare alla macchia. Si vuol dire che per vedere chiaro in un mistero, seguendo il metodo del Nitti sfoceremmo in un mistero ancora più oscuro. Perchè, in fondo, non si può non sottolineare che la realtà del brigante è anche una realtà misteriosa, come è misterioso l’animo umano. Dovremmo anche convincerci che il brigante, ovunque esso venga fuori, è sempre un anormale. Che sia ricco o povero, analfabeta o persona colta, nobile o plebeo, conta poco. Si tratti di mancanza di ogni formazione, oppure di un determinato tipo di educazione; si tratti di un refrattario ad ogni forma di controllo o di autocontrollo, conta poco. Dal punto di vista umano (e non va sottovalutato) si tratta semplicemente di un anormale, che approfitta di quel determinato momento, ritenuto favorevole, per dedicarsi a quelle attività, considerate confacenti alla propria personalità, o almeno valide a soddisfare pienamente i propri istinti. (Del resto qualsiasi scelta, nel momento in cui si effettua è sempre ritenuta da chi la compie in funzione della propria utilità). Pertanto non può passare inosservato il fatto che, in tutte le analisi del fenomeno, non è mai affiorato l’esame della componente psicologica. E invece ci sembra anche questa la via, per dare una spiegazione alle forme più tipiche di brigantaggio, (specialmente quelle dei giorni nostri). Vale la pena ripetere che rimangono esclusi, da questa categoria, i partigiani dei borboni e i partigiani dei liberali. Questi si chiamano e sono, partigiani di un’idea non briganti. Sull’analisi del Nitti insiste anche Rosario Villari ma è più evidente in quest’ultimo il tentativo dl far convergere, intorno alla questione sociale, cause di natura politica ed anche psicologica. (E lo riteniamo importante, almeno per quanto ci riguarda). Ebbene, il Villari scrive: “dall’ampia relazione di Giuseppe Massari sul brigantaggio abbiamo scelto il brano in cui si accenna, tra l’altro, alle condizioni sociali, da cui scaturirono le sollevazioni contadine e che favorirono il contributo popolare alla reazione borbonica dopo il 1860. “Il sorgere del brigantaggio è connesso, in qualche misura, con le difficoltà politiche incontrate dal governo nazionale nelle province meridionali con la debolezza dei legami che queste ebbero con la rivoluzione nazionale e che il contrasto tra democratici e moderati contribuì ad allentare ulteriormente” (22).Ma a che cosa furono dovute le difficoltà politiche del governo nazionale? A nostro avviso, la debolezza del nuovo governo nazionale nei confronti della vecchia classe dirigente borbonica, che restò quasi per intero a controllare il governo del mezzogiorno, anche dopo il 1860, si rivelò fatale. Gli avvenimenti di Cerreto ne rappresentano una lucida testimonianza. Il Villari, però, continua: “Al di là della disgregazione del tramonto del regime feudale, le masse contadine, non domate dal predominio dei galantuomini nè stabilmente inserite nel sistema che questi avevano creato conservavano intatta e minacciosa la loro forza di pressione. La crisi del ’60 doveva farla esplodere in quella guerra sociale che fu il brigantaggio (tale fu se non altro sotto l’aspetto del favore e del sostegno generale che incontrò nell’ambiente contadino), con il suo carattere disperato e barbarico che ne fa uno degli episodi più tragici e cupi della nostra storia nazionale, esito sanguinoso e anarchico di una mancata rivoluzione agraria. Il Mezzogiorno si presentava così con il suo vero volto, una società arretrata che non aveva ancora trovato le premesse del suo equilibrio, dominato da un profondo fermento e da una esigenza indistinta di trasformazione strutturale e di rinnovamento che non aveva possibilità di esprimersi e svolgersi positivamente nel corso della rivoluzione nazionale. Intrecciato con un grande avvenimento politico, il brigantaggio ebbe manifestazioni ed effetti molteplici, al di sotto dei quali è spesso riconoscibile, però, questo suo più profondo significato” (23).Ma del Cerretese (è questo che interessa) si possono elencare quanti cardatori di lana vi fossero nel 1860, quanti artisti di maioliche, quanti cultori di bachi da seta, quanti uliveti, quanti vigneti, quante e quali famiglie nobili, quale cultura e quale tendenza o fede politica vi predominasse. Pertanto, l’ambiente si presentava come una vera oasi di benessere, dove il lavoro ferveva e garantiva una certa tranquillità a tutti. Ed allora come spiegare, e molto meno giustificare, che da quel determinato ambiente sia venuto fuori l’ex caporale borbonico, Cosimo Giordano, di professione brigante? Anche la protezione di qualche famiglia notabile del luogo (come andremo ad evidenziare) è cosa da non sottovalutare, anche se non spiega, però, la causa del fenomeno Giordano – brigante. Bisogna semplicemente concludere, per quanto interessa noi, che Cosimo Giordano è un anormale, che approfitta del momento di vera, o presunta, carenza di autorità per scegliere la via della macchia, certamente più faticosa di quella di caporale, di cardatore di lana, di contadino, ma più confacente ai suoi istinti primordiali; che il brigantaggio cerretese, nel suo insieme, nacque da un complesso di circostanze, che trovarono in un particolare momento, e solo in quel momento, (la crisi del 1860) una formidabile sollecitazione ed un alibi. Tra quelle circostanze, come andremo ad esporre, si inserì anche la lotta che sostennero i più importanti uomini del circondano contro l’annessione alla istituenda provincia di Benevento e che vide il trionfo del trasformismo politico e la mortificazione di ogni coerenza. In quella lotta si evidenziarono tutte le carenze, le contraddizioni e le delusioni di un periodo storico; in quella lotta si scontrarono in particolare due uomini politici, Salvatore Pacelli e Michele Ungaro, i quali rappresentarono, soprattutto, due mentalità e due tendenze nel primo doloroso cammino dell’Italia unita.
NOTE |
(1) – MOLFESE F., Storia del brigantaggio dopo l’unità. Milano, 1966, pp. 1 55.(2) – MOLFESE F., Op. cit., pag. 2.(3) – MOLFESE F., op. cit., pp. 75 SS.(4) – MOLFESE F., op. cit., pp. 77 SS.(5) – MOLFESE F., op. cit., pag. 21 SS.(6) – NITTI F.S., Scritti sulla questione meridionale. Bari 1958, voi. 1, pag. 520.(7) – MOLFESE F., op. cit., pag. 120.(8) – A Cerreto esisteva già un seminario di studi teologici, umanistici e filosofici che ebbe il suo massimo splendore con Mons. Sodo dal 1853 in poi.(9) – Sotto questo aspetto non diversamente si verificarono le cose nel Cerretese, campo di azione del brigante Cosimo Giordano. Cosimo Giordano è da considerarsi un primitivo, che, in quel particolare momento e solo per quel particolare momento, sceglie l’avventura della macchia anzichè quella del lavoro. Se non si fosse verificato quel particolare momento, il Giordano sarebbe rimasto nell’esercito borbonico, del quale era caporale. Appunto perché un primitivo, il Giordano presenta poche luci e tante ombre. Si fa notare che i racconti popolari, ai quali si fa riferimento, hanno il valore di racconti popolari; sono, però, sempre utili, se ci mettono in grado di integrare e arricchire la figura che si vuoi descrivere, almeno nei lineamenti essenziali.(10) – PEDIO T., Vita politica in Italia meridionale. Potenza 1966, p. 99.(11) – PEDIO T., op. cit., pag. 77.(12) – PEDIO T., op. cit., pag. 99.(13) – NITTI F.S., Saggi sulla storia del mezzogiorno. Vol I Emigrazione e lavoro, Bari, 1958.(14) – NITTI F.S., op. cit, pag. 49.(15) – NITTI F.S., op. cit., pag. 45.(16) – NITTI F.S., op. cit., pag. 44.(17) – NITTI F.S., op. cit., pag. 46.(18) – NITTI F.S., op. cit., pagg. 79-80.(19) – NITTI F.S., op. cit., pag. 53.(20) – NITTI F.S., op. cit., pag. 53.(21) – NITTI F.S,, op. eit., pagg. 137 segg.(22) – VILLARI R., Il Sud nella Storia d’Italia. Bari ’65, cap. 11, pag. 19.(23) – VILLARI R., Il Sud nella Storia & Italia. Cap. II. (MASSARI G.: Il brigantaggio). Bari 1961 |
fonte
http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Storia/Local/Cerreto/Capitolo_02.htm
A mio avviso a favorire il brigantaggio all’epoca della occupazione del Regno Due Sicilie sicuramente fu la violenta calata garibaldesca/savoiarda, che espose le popolazioni a sorprusi di ogni genere venendo loro a mancare improvvisamente i riferimenti superiori e in un certo senso protettivi, sia che fossero i proprietari delle terre che lavoravano che i Pievani o religiosi di riferimento… e fu una tragedia nella tragedia! caterina ossi