Il Brigantaggio post risorgimentale a Itri
Il brigantaggio post risorgimentale iniziato nel 1860 storicamente si è concluso alla fine del 1865, anche se rigurgiti si ebbero fino al 1870. Giuseppe Miozzi, però, nel volume “I carabinieri nella repressione del brigantaggio – ed. Funghi -1923 -Firenze”, divide quel periodo in due parti: “[…] fino al 1863 il brigantaggio politico, quello di delinquenza ordinaria fino al 1870”. Il brigantaggio successivo all’Unità d’Italia è considerato da alcuni storici come movimento di lotta sociale. La vendita dei terreni del demanio ai benestanti in parte del nord, unica risorsa dei contadini del sud, influì ad aggravare il malcontento dei meno abbienti.
La delusione fu tanta per coloro che avevano riposto fiducia nell’impresa garibaldina di poter occupare le terre demaniali. Si creò una situazione di malcontento della gente del sud, sul quale pesava anche la crisi economica dello Stato Sabaudo. Il pagamento di nuove tasse, quasi triplicate, rispetto a quelle imposte dai Borboni spinsero i più violenti tra i contadini a ribellarsi. La leva militare obbligatoria portò tanti a fuggire sui monti per sottrarsi all’obbligo di legge. Ci furono sindaci che, già fedeli ai Borboni, sposarono subito la nuova causa liberale. Questi commisero degli eccessi di cui uno si verificò dalle nostre parti ai danni di Giuseppe Conte, reazionario di Fondi, filo borbonico, perseguitato dal Sindaco Giuseppe Amante. Dario Lo Sordo, attento studioso del personaggio, autore di due saggi sul Conte, narra che questi finì alla macchia per l’atteggiamento persecutorio posto in essere dal primo cittadino fondano: “Alla famiglia Conte fece bruciare le messi, uccidere il bestiame, incarcerare familiari ed amici.” Narra ancora che: ” La sua banda era composta da ex soldati borbonici, di contadini e si nominò capo e si diede a girare per la selva di Fondi, per i monti […] Non fece parte della “Brigata volontari” costituita in Itri, composta di circa 1600 uomini e 40 cannoni, affidata al colonnello Teodoro Klitsche de Legrange, attestata nei dintorni di S. Germano”. Il Conte per la sua attività reazionaria fece uccidere tre sequestrati, su ordine del Comitato Borbonico di Terracina, li fece decapitare dai suoi uomini, benché i familiari avessero pagato il riscatto. […] “Per ordine del Comitato Borbonico di Roma quelli vanno ammazzati e le loro teste esposte al pubblico” disse ai suoi uomini. Le teste furono successivamente trovate lungo la Via Appia tra Itri e Fondi, sul ponte romano con tre cartelli con la scritta “Uccisi perché nemici della religione e del legittimo re”. Queste notizie sono frutto di meticolose ricerche che il Lo Sordo, studioso del brigantaggio locale (M.S. Biagio-Fondi), ha effettuato negli archivi dei comuni pontini e del frusinate e negli archivi di Stato. Il Conte come risulta dai documenti ritrovati, era tenuto in gran considerazione dalle Autorità Pontificie, le quali, dopo l’arresto ne chiesero l’immediata estradizione. Tutto questo avveniva nelle nostre zone dopo la caduta di Gaeta, avvenuta il 14 febbraio del 1861 con Francesco II che si rifugiò a Roma. E’ di quel periodo una disperata lotta dei contadini del mezzogiorno. La guerriglia sfociò in atti di brigantaggio; l’appropriarsi di beni altrui (benestanti) era una forma di rivincita verso lo Stato Unitario di cui i meridionali erano delusi; a nulla valsero i suggerimenti espressi dalla commissione parlamentare d’inchiesta nel 1863, che riconosceva il malessere e le sue fonti. Con l’aiuto del clero, i Borboni, cercarono di trasformare il brigantaggio in una generale insurrezione legittimista, per la riconquista del Regno di Napoli. Un proclama di re Francesco II che incitava a combattere contro i piemontesi diede i suoi frutti. Gli insorti furono riforniti dal Comitato borbonico di Roma di armi, viveri, denaro; diversi generali, francesi e spagnoli li addestrarono nella guerriglia. Si costituirono bande con a capo briganti passati alla storia per il loro atteggiamento sanguinario come: Crocco, Schiavone, Caruso, Masini, “Ninco-Nanco”, Tortora. Il Cardinali nella sua opera in due volumi, “I Briganti e la Corte Pontificia”, pubblicata nel 1862 (in tempo reale), riporta dei capi banda sopra citati uno stralcio della Commissione per il brigantaggio meridionale istituita dal Parlamento Italiano. Per evitare che […] non sieno già le parole mie incomposte e che debbono risentire de’ vizi di una opera istorica contemporanea; ma sibbene le indagini autorevoli praticate dalla commissione […] pag. 433, <<Alcuni nomi de’ capi vengono segnalati per dimostrare la origine facinorosa de’ briganti ed escludere il brigantaggio politico che tutt’al più vive in Roma ne’ suoi dirigitori:>> <<Caruso di Torre Maggiore, era un pastore del principe di Sansevero; sostenuto in carcere per delitti comuni, ebbe agio di scappare e si diede in campagna. Ninco Nanco è un miserabile contadino di Avigliano, il quale custodiva private proprietà nel bosco di Lagopesole: fu condannato nel 1856 per omicidio, scappò dalle carceri nel 1860; andò a Napoli a presentarsi al generale Garibaldi; gli fu ingiunto di tornare in paese, ed allora si diede in campagna. Crocco, nativo di Rionero, era un vaccaro: fece parte dell’esercito borbonico; perseguitato dalla giustizia prima del 1860, in quel tempo si ebbe il torto di ammetterlo nelle file degl’insorti per la causa della libertà, e sperava l’impunità; ma quando seppe che gli spiccava contro il mandato di cattura, si diede a fare il reazionario ed il brigante. Arrestato e tradotto nelle carceri di Cerignola trovò mezzo di fuggire…Tortora, di Ripacandida, è uno sbandato >>. La legge Pica, dello stesso anno e norme successive, diedero la possibilità ai gen.li Cialdini e Pallavicini di sconfiggere il brigantaggio, adottando nel contempo, una repressione con metodi polizieschi, non solo contro i briganti, ma contro manutengoli e verso chiunque avesse avuto contatti anche indiretti con loro. Secondo i dati ufficiali i briganti uccisi in combattimento o passati per le armi al 31 dicembre 1865 furono 5212, quelli che si costituirono o arrestati circa 8500. Nel solo periodo 1° giugno -1861/31 dicembre 1865 furono fucilati o uccisi 14.000 briganti; spesso dei loro corpi, dopo essere stati torturati, veniva fatto scempio. Stessa sorte toccava alle brigantesse dopo aver subito violenze e torture. La cospirazione dei Borboni era definitivamente fallita. I reazionari persero aiuti e protezione, le bande imperversarono a loro piacimento senza più freni inibitori. Il popolo da sempre filo-borbonico, disorientato, poco capiva gli avvenimenti epocali che stava attraversando l’Italia. E’ vero che aveva visto nel movimento anti Sabaudo un barlume di speranza ma alla fine si rivoltò contro le stesse bande, considerando capi e componenti dei comuni delinquenti e contribuendo ad aiutare con delazioni la repressione che dalle nostre parti era comandata dal generale Govoni. Le vittime tra la popolazione furono tantissime. Alla fine, anche se a caro prezzo l’ordine fu ristabilito. In quel periodo gli itrani alla macchia erano tanti, il comune, pose una taglia di 3000 lire e una pensione di 300 lire sul capo brigante Pasquale D’Alena. Taglia e vitalizio, per l’entità della somma, danno l’idea della ferocia di questo capo banda. Briganti, luoghi, avvenimenti; metodi per combattere il fenomeno che da rivolta diventò, attività puramente criminale. Forte fu l’impegno dei sindaci dei comuni delle zone interessate nel combattere il banditismo. Ma Itri non deve essere considerato solo come crocevia di ritrovo e rifugio di briganti; sarebbe far torto a chi si batté con coraggio perché la popolazione si sentisse sicura e difesa dallo stato di costrizione creatosi con la presenza delle bande di delinquenti che infestavano gli ausoni e gli aurunci. Il sindaco Gennaro Bonelli è uno di questi, una figura che dovrebbe essere ricordata alle nuove generazioni (intitolandogli una strada o una piazza), per il coraggio e la dirittura morale nella lotta al brigantaggio. Il suo apporto nel combatterlo non fu solo di facciata, perché interveniva in prima persona negli scontri a fuoco non solo a Itri, ma in tutto l’attuale sud pontino. Un episodio su tutti fu l’arresto del brigante Pietro Garofalo di Selvacava (Fr) e della sua compagna. Garofalo era capo di una banda e fu catturato nel territorio di Campodimele grazie ad un piano ben congegnato e coordinato dal sindaco Bonelli. Nelle sue memorie il Ten. Miozzi racconta l’azione coordinata dal Bonelli con i carabinieri della stazione di Itri e Formia, con l’ausilio di un drappello di guardie nazionali. Nella notte tra il 29 e 30 marzo, il sindaco fece irruzione con i militi nell’abitazione di un suo confidente, tale Costantino Pecchia, il quale aveva dato di proposito alloggio al brigante. La cattura avvenne dopo uno scontro a fuoco senza vittime. Il Miozzi racconta che l’unico a rimetterci, in tutti i sensi, fu il Pecchia al quale il brigante Garofalo, benché immobilizzato, staccò il naso con un morso mentre lo incrociava. Non solo il naso ci rimise ma, racconta il Col. Palmaccio biografo del Bonelli, il Pecchia fu arrestato per ordine del Pretore di Fondi, fu sospeso il pagamento in suo favore della taglia di tremila lire che pendeva sulla testa del brigante per l’avvenuta cattura. Quale fu il motivo di tanto? Il Palmaccio afferma che il Pretore fosse geloso del sindaco per la cattura del Garofalo e lo colpì indirettamente arrestando il suo confidente. Il Bonelli non accettò la situazione creatasi dando le dimissioni da primo cittadino. Il Gen.le Pallavicini che comandava le truppe per la repressione del brigantaggio, a conoscenza del valore del sindaco e della sua preziosa collaborazione, intervenne in prima persona con una lettera datata 8 maggio 1869: […] <<non posso che deplorare come per un malinteso debbasi privare un paese di un così distinto funzionario>>. Il sindaco ritirò le dimissioni solo dopo la scarcerazione del Pecchia. Bonelli difese il buon nome d’Itri anche quando le autorità cercarono di chiudere il Santuario della Civita perché, si disse, rifugio di briganti. Una figura certamente di primo piano, nella storia itrana. Le onorificenze non mancarono per lui: due medaglie al valor civile e l’ordine di Cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzàro. In verità poca cosa, per quello che aveva fatto per la sua terra. Il XX settembre 1870, i bersaglieri entrarono a Porta Pia, il sogno di Francesco II di riconquistare il trono era svanito; lui partì per la Francia e Pio IX si ritirò nei palazzi vaticani. Roma era finalmente italiana e di lì a poco capitale, il sogno di Cavour si era realizzato. Personaggi, avvenimenti, storie, storia. Un periodo burrascoso e tragico che coinvolse Itri. Non manca niente per ripartire da questa città e andare indietro nel tempo; anche con la memoria, a quando le mamme evocavano, per impaurire i figli, Mammone o paragonarli per certi spavaldi atteggiamenti, a Gasbarrone dopo tanti anni dalla fine del brigantaggio.
fonte
da: http://www.visitaitri.it/Museo Notizi Nuova_pagina_3.htm