IL CONGRESSO DI PARIGI (1856)
CONFERENZA GIUSEPPE MASSARI
Signori,
Ricordare è vivere. Le nazioni presso le quali la facoltà della memoria declina sono come faci cui manca l’alimento, e che indarno resistono col pallido guizzo della incerta luce alla oscurità che fatalmente sovrasta. Perciò la tradizione è parte essenziale della vita delle nazioni, ed il culto di essa è pietà, è dovere, è necessità di esistenza.
Nessuna più erronea sentenza di quella che chiama felici i popoli i quali non hanno storia. Il commemorare gli eventi e gli uomini che più efficacemente hanno contribuito a restituire l’Italia a dignità di nazione non è dunque soltanto un puro diletto della mente od un nobile compiacimento del cuore, ma è l’affermazione non mai superflua della sicura fede, dei propositi fermi, e la dimostrazione della vita inestinguibile della patria italiana.
Venticinque anni or sono, proprio in questi giorni l’Italia mise il potente anelito della seconda vita. Per la prima volta il suo nome fu pronunziato nel consesso officiale dell’Europa: per la prima *volta furono narrati i suoi dolori, affermati i suoi diritti, annunziate le sue aspirazioni e fu chiesta giustizia: per la prima volta l’Europa fu persuasa che la così detta espressione geografica era la espressione non di una fantastica astrattezza ma di una realtà indiscutibile. Le pagine degli infausti trattati del 1815 erano in tal guisa lacerate e la mano che compiva la provvida opera di distruzione era quella di Camillo di Cavour.
Non fu caso, o signori: non fu benigno capriccio della volubile fortuna stanca o pentita dei suoi secolari rigori verso l’Italia: fu invece l’opera di quelle grandi forze morali che sono il genio e la volontà dell’uomo, di quelle forze cioè che per crescere di difficoltà e di ostacoli non vacillano nè piegano, ma ingagliardiscono e dalle difficoltà e dagli ostacoli attingono più viva la virtù del perseverare, ed il presagio della certa vittoria.
È una luminosa pagina di storia quella che questa sera rileggo a voi, o signori, ed a me stesso. È narrazione che vince al paragone ogni sublimità di poesia: è il ricordo del mopiento solenne nel quale mentre noi affettuosi figli piangevamo intorno alla diletta madre piagata a morte, e creduta estinta, sentimmo battere di bel nuovo nel suo cuore il palpito della vita e
balzammo ad un tratto dal lutto alla gioia, dalla disperazione per la morte alla esultanza per la risurrezione.
Parve allora a taluni e forse così parrà pure ora ad altri, che quel momento avesse a cagione un fortunato complesso di casi e di eventi. Parve e potrà ancora parere, ma cosi non fu. Quel momento fu laboriosamente e tenacemente preparato: fu la conseguenza di fortunati eventi senz’alcun dubbio, ma di eventi che il genio e la volontà degli uomini avevano indirizzato e fatto quanto era possibile perchè fossero fortunati. La caratteristica spiccata del Re Vittorio Emanuele e di tutti gli uomini che con l’opera e col consiglio lo aiutarono a menare a prospera fine l’impresa nazionale fu precisamente quella di chiudere l’animo ad ogni sgomento, e di contrapporre agli avversi eventi il virile proposito di mutarli in prosperi. La sera stessa della battaglia di Novara Vittorio Emanuele parlava con una fiducia, che parve e non era giovanile baldanza, dei migliori destini che aspettavano l’Italia: la dimane Cesare Balbo ricordava che il Piemonte non conchiudeva mai pace durevole con l’Austria, ma armistizi che durano dieci anni. Massimo d’Azeglio pensava ai mezzi di evitare quando si tornasse a tentare l’impresa, gli errori che l’avevano fatta fallire nel 1848: Camillo di Cavour affermava che fra breve si sarebbe ricominciato, ed i soldati di casa Savoia avrebbero novellamente valicato il Ticino: Alfonso Lamarmora presagiva nei suoi proclami i giorni migliori; Vincenzo Gioberti faceva stupire i francesi per la sicurezza con la quale parlava dell’Italia. Tanto che il signor Thiers, uso come era a non avere in pregio se non coloro che adorano il nume dei fatti compiuti ebbe a dire del nostro concittadino: «cet’imbecile d’abbè parle comme s’il avait gagné la bataille de Novare!» Il signor Thiers visse abbastanza por vedere con i propri occhi il risultamento degli ardiri magnanimi di quel glorioso insensato, e di tutta quella eletta schiera di uomini politici, di soldati, di patriotti, che non piegarono docili il capo alle ire della fortuna. E perciò, o signori, la dimane stessa della sanguinosa giornata di Novara incominciò quell’opera di apparecchio, per la quale abbiamo raggiunto la meta nazionale.
Pochi mesi prima di morire Vincenzo Gioberti aveva divulgato il Rinnovamento civile, che fu ad un tempo il codice ed il vaticinio dell’Italia nuova. Gioberti mori il 25 ottobre 1852, Camillo Cavour diventò primo ministro del Pie Vittorio Emanuele il 4 novembre successivo: il pensiero di Gioberti non scendeva con lui nel sepolcro, diventavi programma di governo nelle mani di Cavour. La morte non ebbe facoltà d’interrompere la continuità della tradizione nazionale.
Mediante l’opera di Massimo d’Azeglio e di Alfonso Lamarmora il Piemonte aveva in un triennio di raccoglimento operoso recato rimedio alle calamità che sono inevitabile retaggio della guerra, riordinata la finanza, agguerrito l’esercito, assodate le pubbliche libertà, acquistato in Europa credito e simpatia. E già era evidente la necessità di cose maggiori. Il d’Azeglio riconobbe che oramai compiuta la sua parte ne cominciava un’altra, e che la nuova parte doveva essere sostenuta dal conte Camillo, di Cavour; il quale difatti si accinse con cotesti intendimenti a indirizzare la cosa pubblica, ed a dare impulso vigoroso alla politica nazionale. Mentre tanti gratuitamente dubitavano di lui, e gli addebitavano la sfrenata ambizione di dominare, egli assumeva serenamente animoso la responsabilità delle pubbliche faccende, volgendo in mente grandiosi disegni e propositi audaci. Come Giulio Cesare prima di valicare il Rubicone altiora jam meditans et spei plenus: pieno di speranza, non di quella speranza inerte e vaga, che trae origine da uno spensierato fatalismo, ma di quella speranza virile ed operosa, che trae origine dalla robusta fede, e che le illusioni non acciecano ed i disinganni non turbano. Si: ebbe pre-, mura di diventare ministro. Non so se il potere parve a lui una croce: certo gli parve e nelle sue mani fu istrumento per fare l’Italia.
Fin dai primi giorni del suo ministero il conte di Cavour capacitandosi della condizione in cui versavano il Piemonte e la dinastia di Savoia, valutò rettamente la entità dell’ufficio che quel paese e quella dinastia erano chiamati a sostenere. La croce di Savoia, circondata dai tre italici colori, era il simbolo del riscatto nazionale: l’affermazione di una fede, una speranza, una promessa, e quindi un programma di governo. Fra uno Stato che dell’attuazione di quel programma faceva condizione di onore e di vita, e la dominazione forestiera in Italia non era possibilità di convivenza e neppure di coesistenza. O progredire o morire. Tale era il motto, tale il proposito. Ad affrettarne la pratica attuazione non doversi abbandonare in balia degli eventi, ma affrettarli, cogliere al volo i propizi, scongiurare gli avversi e se non altro mitigarne gli effetti. L’incalzare degli eventi è una frase più o meno esatta, e certamente nelle cose politiche è pur duopo far la dovuta parte agli eventi, che non dipendono dal volere degli uomini: ma ciò non vuol dire che il savio e vero uomo politico debba lasciarsi trarre a rimorchio dagli eventi e debba far fondamento sull’impreveduto. Il conte di Cavour non attinse mai le ispirazioni delle sue risoluzioni dalla considerazione dell’impreveduto nè si lasciò guidare dalla fatalità degli eventi: il suo intuito pratico lo premuniva contro i pericoli di una eccessiva fiducia, il suo genio gli faceva discernere la probabilità dell’avvenire: il suo fermo volere, la sua prudente temerità gli davano la forza di dominare gli eventi, e quando ciò non era possibile, di ricavarne la maggior somma di bene che fosse possibile rispetto allo scopo che si era prefisso raggiungere.
Il problema che il conte di Cavour doveva intendere ed intendeva sciogliere era intricato ed irto di difficoltà: era mestieri contrastare gli influssi e la prevalenza austriaca nella penisola senza atteggiarsi a provocatore. Il Piemonte provocava l’Austria con la sua libertà ordinata, con la sua civile temperanza, con la sua bandiera: ma né poteva né doveva né volle giammai fare una politica provocatrice, poiché ben sapeva sarebbe giovata alla dominazione austriaca. E difatti quando ai 6 febbraio 1853 il partito aventato tentò in Milano un moto rivoluzionario, il governo piemontese si affrettò a biasimare energicamente quei fatti, ed a prendere i più severi provvedimenti per impedire che nel suo territorio si apparecchiassero tentativi di quel genere. Il governo austriaco invece stimò essere propizia l’occasione per sbarazzarsi del molesto Piemonte: fece come tutti i provocatori fanno: si disse cioè costretto dalla ragione di legittima difesa a premunirsi contro le insidie piemontesi, e decretò arbitrariamente il sequestro dei beni dei più cospicui patrizi lombardi ricoverati in Piemonte e che per legge erano diventati cittadini di quello Stato. L’ingiusto provvedimento era graveranno alle persone che ne vennero colpite, ma era anche maggiore ingiuria al Piemonte: ed il governo del Re Vittorio Emanuele risenti vivamente l’offesa recata alla sua indipendenza, alle sue prerogative, alla sua dignità, e fece udire la sua parola all’Europa, che l’accolse con manifesto favore.
Quel procedere del governo austriaco fu nuovo stimolo al conte di Cavour e lo infervorò nei suoi disegni. Il motto progredire o perire acquistava una più chiara e più incalzante evidenza. Le complicazioni orientali sopraggiunsero a buon punto a porgere la tanto desiderata e ricercata occasione di giovarsi del proficuo raccoglimento per passare al periodo di opere maggiori. Il concetto di stringere alleanza con le due potenze occidentali balenò senza indugio alla mente del conte di Cavour. Alla fine del 1853, quando non si parlava neppure della spedizione di Crimea, e non si sapeva dove e quando sarebbe scoppiata la guerra, egli già vagheggiava e maturava il grandioso disegno. Coloro i quali si immaginano di conoscere la storia dai documenti diplomatici officiali possono facilmente attribuirsi il vanto di sapere il vero e distribuire a loro talento la lode ed il biasimo: essi possono anche fare il tentativo di togliere al conte di Cavour il merito della gloriosa iniziativa ed accusarlo di aver voluto precipitare una risoluzione senza premunirsi con opportune cautele contro le avverse eventualità. Ma di cotesti apprezzamenti fallaci è superfluo darsi fastidio. Né postumi detrattori, né postumi collaboratori possono rapire al conte di Cavour il vanto di avere attuato e menato a compimento uno dei più grandi concetti politici dei tempi nostri, e di avere con ciò innalzata la causa italiana a dignità di causa d’ordine e di equilibrio europeo, e costretto il(7) mondo civile a considerare la unità italiana come una necessità, una difesa, una guarentigia di civiltà è di pace. Vittorio Emanuele con quel meraviglioso suo tatto politico, che l’istinto e le tradizioni della sua inclita stirpe rinvigorivano, e che la santa ambizione di creare una nazione rendeva fatidico, accolse premurosamente il concetto del suo ministro, lo secondò con tutta l’energia del suo volere e della sua autorità e ne assicurò l’attuazione. Lo scopo non fu raggiunto agevolmente; fu d’uopo vincere molte difficoltà, superare non lievi ostacoli, che derivavano dalle considerazioni di finanza, dalle preoccupazioni municipali e dal pensiero del grosso rischio che si correva, de’ terribili pericoli che si affrontavano. Il conte di Cavour tenne fermo e vinse la prova. Ebbe a strenui difensori i più illustri figli d’Italia ricoverati in Piemonte, e primi fra essi quei lombardi che erano stati direttamente colpiti dall’editto austriaco de’ sequestri. Immemori de’ proprii interessi, curanti solo di quelli della causa nazionale essi scongiuravano il conte di Cavour a non preoccuparsi menomamente di loro, a non stipulare a loro favore nessuna condizione, a pensare esclusivamente al Piemonte, poiché pensando ad esso pensava e provvedeva alle sorti d’Italia.
Il conte di Cavour strinse i patti dell’alleanza senza apporre condizioni speciali, senza chiedere compensi. Mirando a conseguire lo scopo non volle intralciare la via con quelle vane formule diplomatiche, alle quali si fa dire ciò che si vuole, e che la vittoria avrebbe reso superflue e la sconfitta illusorie. Gli appunti che gli furono mossi a questo proposito si risolvono in una grandissima lode.
Il trattato fu conchiuso a di 10 gennaio 1855: dopo lunghi e solenni dibattimenti venne approvato dalle due Camere: nel mese di Aprile fu posto ad esecuzione. I soldati di casa Savoia partirono per lontani lidi non ignoti ai loro padri e già illustrati nelle passale età dalle gesta de’ loro maggiori. I primordi della spedizione di Crimea furono tetri e dolorosi: un vascello che recava approvviggionamenti e viveri, il Creso, bruciò nelle acque di Genova: nel giungere a Balaclava le truppe non trovarono facile accampamento, furono esposte alle intemperie, a’ miasmi, ad ogni maniera di disagio ed al ferale malore asiatico. Ufficiali e soldati furono esemplari nella gara del sagrifizio e dell’abnegazione; si ispirarono tutti all’esempio impareggiabile di virtù e di vero eroismo che porgeva il loro nobilissimo duce Alfonso Lamarmora, alla grandezza dell’ufficio ad essi affidato dal Re e dalla patria, al più puro al più elevato sentimento del dovere. Ed il giorno della meritata ricompensa venne: il giorno della battaglia e della vittoria. I soldati piemontesi furono degni, nel cimento, dei valorosi confederati, e de’ valorosi nemici. Un’altra volta in quelle lontane spiaggie la candida croce di Savoia fu simbolo di vittoria per la civiltà. Da Novara alla Cernaia! il primo e decisivo passo sulla via che condusse a Roma.
Cessato il fragore delle armi fu dato opera ai negoziati pacifici. Un congresso diplomatico fu all’uopo convocato a Parigi per deliberare sulle condizioni della pace, e per stipularne i capitoli, ed in esso erano rappresentate tutte le potenze che avevano preso parte alla guerra. Fra queste potenze tenne il suo posto il piccolo Piemonte. Era omaggio dovuto ad un Re che non aveva misurato la grandezza delle sue risoluzioni dalla ristrettezza dei confini del suo regno; era un diritto che il valore dell’esercito aveva conquistato. Nelle pratiche preliminari però l’ammissione de’ plenipotenziarii piemontesi al Congresso incontrò, come era da aspettarsi, risentite e telaci obiezioni; il governo austriaco, che durante il lungo conflitto era rimasto neutrale, ed il cui esercito era stato coi! le armi al braccio,, pretendeva assolutamente che il Piemonte il quale aveva avuto parte cosi efficace e così diretta nella guerra dovesse essere escluso dal congresso o tutt’al più ammesso a dire le sue ragioni in quelle speciali questioni che lo riguardavano. La strana pretensione era accolta dal ministro degli affari esteri del governo imperiale di Francia. Il conte di Cavour assumendo l’incarico di primo plenipotenziario piemontese dichiarò recisamente, che qualora i plenipotenziarii piemontesi non fossero per essere ammessi nel Congresso a condizioni assolutamente pari ed identiche a quelle dei plenipotenziarii degli altri stati egli avrebbe sdegnosamente protestato e si sarebbe astenuto dal partecipare in un modo qualsiasi alle riunioni ed ai lavori di quel consesso. Appunto perchè aveva usata la preveggenza di non stipulare i patti in anticipazione, il di lui linguaggio fu più spiccato ed ebbe maggiore efficacia. Il governo britannico riconobbe senz’altro il diritto del Piemonte e diede il più schietto appoggio alla onesta dimanda. L’imperatore Napoleone III, che allora come sempre era risoluto a giovare all’Italia, e ravvisava nel conte di Cavour l’uomo predestinato ad assicurare il trionfo della grande impresa, in un colloquio che ebbe col generale Lamarmora, il quale era stato chiamato a Parigi per porgere consiglio sulle cose militari diede l’assicurazione che, come sui campi di battaglia i soldati piemontesi erano stati a condizioni uguali a quelle degli altri combattenti così attorno al tappeto verde del consesso diplomatico i plenipotenziarii piemontesi sarebbero seduti accanto a quelli degli altri stati in condizioni assolutamente uguali ed identiche. Il ministro francese degli affari esteri fu costretto in obbedienza agli ordini del suo sovrano a mutare avviso; le prevenzioni dell’Austria non furono menate per buone, ed invece di essere esclusi dal congresso, i plenipotenziarii piemontesi furono chiamati a decidere con i loro, colleghi se convenisse oppure no ammettere i plenipotenziarii prussiani i quali diffatti non furono ammessi se non quando il congresso era già radunato, ed in virtù di una decisione del congresso medesimo alla quale il conte di Cavour ed il secondo plenipotenziario suo collega, il quale era il marchese Salvatore di Villamarina, diedero la loro adesione.
Il contegno del conte di Cavour nel pigliare posto fra i plenipotenziarii europei fu meravigliosamente abile e sagace. Egli ben comprendeva che l’autorità della sua parola e l’efficacia del suo intervento nelle discussioni e nelle deliberazioni non potevano dipendere dalla grandezza delle forze delle quali il suo governo ed il suo paese potevano disporre: e quindi si adoperò fin dal principio a conquistare con l’accorgimento e col tatto quell’autorità e quella efficacia. Il potente ingegno gli agevolò la via a; raggiungere l’intento: e riuscì a meraviglia. I suoi colleghi furono soggiogati dall’irresistibile fascino del suo ingegno: gli stessi plenipotenziarii austriaci, i quali naturalmente non erano proclivi a benignità a di lui riguardo, furono costretti dalla evidenza a rendergli giustizia. I plenipotenziarii russi, e segnatamente il principe Orloff, concepirono per lui una vera ammirazione, e gli usarono i più cortesi riguardi. A capo di pochi giorni il primo plenipotenziario del piccolo Piemonte teneva il primo posto nel consesso dei rappresentanti delle grandi potenze europee. Lo ascoltavano con deferenza, ne valutavano il parere; in alcune occasioni gli diedero l’incarico di compilare gli articoli del trattato, che fu poi la conclusione dei lavori del Congresso. Il*Congresso di Parigi compì davvero una grande opera di civiltà, ed a questa opera ebbe parte autorevole e decisiva il conte di Cavour. Egli non si lasciò sfuggire nessuna occasione di perorare la causa di ogni grande interesse della civiltà. Nella questione relativa alla libertà di navigazione del Danubio fece prevalere il suo avviso a vantaggio di quella libertà. Nei punti più controversi rispetto alle concessioni che si. richiedevano dalla Russia si diportò in guisa da non ferir mai le giuste suscettibilità de’ rappresentanti di quella potenza. Nella questione relativa all’ordinamento dei Principati danubiani (Moldavia e Valacchia) fu tra primi a svolgere il concetto della opportunità della riunione di quei due Principati in uno Stato solo: ed il Congresso diede a lui l’incarico di dettare gli articoli che si riferiscono a quella questione e che vennero inserite nel trattato. In questi giorni, o signori, è stato proclamato con l’adesione e col plauso dell’Europa il Regno di Rumenia. Il nuovo regno consacra un concetto del conte di Cavour. La Rumenia dovrà gratitudine eterna alla di lui memoria,, come quella di uno de’ suoi primi e maggiori benefattori.
Il trattato di pace fu definitivamente conchiuso il giorno 30 marzo 1856. I trattati del 1815 erano irrevocabilmente esautorati. Ma, a giudizio del conte di Cavour, l’opera non poteva ritenersi compiuta, se il Congresso si fosse disciolto senza discorrere delle cose italiane. Egli che quando fu stipulato il trattato di alleanza fra il Piemonte e le potenze Occidentali usò la preveggenza di non richiedere a quelle due potenze l’inserzione nel trattato di nessuna clausola speciale, la quale implicasse un impegno qualsiasi, si giovò appunto della considerazione di quella sua preveggenza per richiedere al Congresso di rivolgere l’attenzione alle cose italiane e di udirlo. La premura dimostrata nel porgere alla Francia ed all’Inghilterra un concorso disinteressato ed incondizionato conferiva al conte di Cavour autorità maggiore nel fare, a guerra finita ed a pace conchiusa, quella richiesta; e le potenze, appunto perchè non erano vincolate da nessuna condizione scritta e prestabilita, sentivano crescere il debito di onore che, ricercando ed accettando la cooperazione del Piemonte, avevano contratto.
Se però era evidente, che il Congresso avrebbe deferito al giusto desiderio del conte di Cavour, era del pari non meno evidente, che i termini nei quali la questione sarebbe stata enunciata dovevano essere tali da non urtare le suscettività diplomatiche, e da non dare appiglio ai rappresentanti dell’Austria di invocare a loro favore le prescrizioni dei trattati, e di trincerarsi dietro il diritto che ogni Stato ha di provvedere come meglio stima, al componimento delle sue questioni interne. Il governo austriaco considerava naturalmente come legittima la sua dominazione nella Lombardia e nella Venezia, ed avrebbe avuto bel gioco qualora i plenipotenziarii piemontesi avessero tentato di porre la questione sulla legittimità di quella dominazione. La posizione del conte di Cavour era oltre ogni dire difficile e delicata i doveva mirare a quel determinato scopo, ed appunto perchè anzitutto si preoccupava della necessità di raggiungerlo non doveva esprimerlo. Il suo discorso fu un vero capolavoro dt franchezza e di accorgimento, di fermezza diplomatica e di oculata schiettezza. I protocolli del Congresso, nei quali fu sommariamente riferito porgono una assai pallida immagine di quel discorso, ed io non so che cosa sia succeduto degli appunti che egli medesimo scrisse, e che soli potrebbero forse dare di esso un concetto meno inadequato. Il conte di Cavour toccò proprio quel punto della questione che era vulnerabile anche mantenendosi nei limiti della più meticolosa osservanza verso le formule, le convenzioni, le consuetudini diplomatiche, e verso lo spirito e la lettera di quei trattati, che voleva cancellati e distrutti: il punto, cioè della illegittimità dell’intervento austriaco nelle provincie dell’Italia centrale, che allora facevano parte dello Stato Pontificio. Non parlò di Milano né di Venezia, persuaso che gli avrebbero subito chiuso la bocca con l’apparenza, se non altro, dell’ossequio dovuto ai trattati vigenti: parlò di Bologna e di Ancona, perchè anche al punto di vista di quei trattati la occupazione Austriaca nelle Legazioni e nelle Marche non poteva essere considerata come legale e legittima. Per conoscere meglio i particolari della questione, ed agguerrirsi con ricca suppellettile di-buone e calzanti ragioni egli volle essere confortato dai lumi e dai consigli delle persone che avevano più chiara e più esatta contezza della vera condizione delle cose, ed all’uopo invitò a recarsi presso di lui a Parigi un personaggio, alla cui modestia non chieggo licenza di profferire il nome, perchè ciò mi è imposto dall’ossequio alla verità storica, l’illustre presidente di quest’assemblea, l’onorevole Marco Minghetti: e questi com’ era dover suo tenne l’invito, e fin d’allora ebbe il giusto vanto di essere lo strenuo e degno collaboratore del conte di Cavour.
In tal guisa nell’adunanza del Congresso di Parigi del giorno 8 aprile 1856 il conte dì Cavour pose in evidenza le condizioni dolorosamente eccezionali nelle quali versava l’Italia, i danni che derivavano dalla signoria e prevalenza austriaca, i pericoli che cotesta condizione di cose suscitava alla pace dell’Europa ed alla civiltà, i pretesti che essa porgeva ai fautori di rivoluzione, e la necessità di rimuovere quei pericoli, di distruggere quei pretesti e di assicurare la tranquillità e l’equilibrio dell’Europa facendo ragione alle giuste doglianze dell’Italia ed alle sue oneste aspirazioni. Da quel giorno la causa italiana era affermata come causa di civiltà, di ordine, dì pace: il suo trionfo era _ assicurato, era ridotto ad una questione di tempo. La partecipazione del Piemonte all’alleanza anglo-francese sortiva l’effetto, al quale mirava il sommo statista che la ideò. Come aveva ragione, o signori, Carlo Poerio allorché, ragionando alcuni anni dopo di quel fatto, narrava: «Quando mi pervenne nella galera dove ero condannato a vivere la notizia della conchiusione dell’alleanza fra il Piemonte e le potenze dell’Occidente sentii alleggerire il peso delle catene, che mi avvincevano». L’intuito dell’eroico prigioniero divinava la mente del grande statista, e precorreva col patriottico antivedere le conseguenze benefiche del di lui disegno.
L’annunzio dell’adunanza del Congresso si diffuse rapidamente in tutti i canti della nostra penisola, e fu un plauso universale. La intiepidita fede fu ravvivata: le più care speranze in un prossimo migliore avvenire rinacquero: gli occhi di tutti gli Italiani si rivolsero fiduciosi più che mai al candido astro, che si era levato dalle falde delle Alpi, e irradiava la serena sua luce su tutto l’italico firmamento. Furono commossi e sdegnati i dominatori stranieri, ed i principi fedifraghi, e presentirono l’estremo fato che ad essi sovrastava.
Il conte di Cavour diede contezza alle due Camere del Parlamento subalpino dell’opera sua nel Congresso: riscosse il plauso universale; le due Assemblee, smettendo ogni dissidio di parte, sanzionarono unanimi gli atti del glorioso plenipotenziario.
Da tutte le parti d’Italia gli pervennero manifestazioni di affetto, di stima, di entusiastica riconoscenza. I Toscani gli offersero il proprio busto in marmo, sotto il quale, per suggerimento di Vincenzo Salvagnoli, stava scritto: Colui che la difese a viso aperto. Fra le tante medaglie in oro che vennero fatte coniare dalle città italiane primeggiava quella inviata da Napoli. Su di una faccia recava l’effigie dell’illustre statista: sull’altra una ghirlanda nel centro della quale si leggevano senz’altro le parole 8 aprile 1856.
In quelle tre parole è una storia, è un dramma, è un’epopea. Guai alla patria nostra, signori, se mai — Iddio sperda l’augurio — sopraggiungesse un giorno nel quale gl’italiani non sapessero più leggere nel libro di quella istoria, non sentissero entusiasmo per lo svolgimento di quel dramma, non meravigliassero alla grandezza di quell’epopea.
Camillo di Cavour fu il genio che cercò e trovò una patria agli Italiani, ed alla santa impresa fece eoo perare tutte le forze della civiltà.
Come si solleva l’animo, come si dilata il cuore, come si respira meglio innalzandosi alla contemplazione di quella sublime figura di uomo di Stato e di patriota, circondata da tanta luce di ingegno e di cuore!
Molto è stato detto e scritto su di lui: nessuno ile ha scolpito con fedeltà maggiore la effigie nobilissima, come uno scrittore inglese, le cui parole io vi leggo, dolente di non potere, traducendole, ritrarre la efficacia che hanno nella loro lingua: «Cavour, dice lo scrittore, non aveva nessuna delle qualità che una trista esperienza ci ha insegnato a considerare come la lega inevitabile della grandezza: non aveva né gli artifizi teatrali di Chatham, né la fredda e crudele impassibilità ai gemiti’ ed alle lagrime di Richelieu; né il cinico disprezzo per i principii di Federico; né la ributtante ipocrisia di Cromwell, né il desolante egoismo di Napoleone. La sua ambizione, fatta dalla più pura e più sacra stoffa, era immersa e dimenticata nel suo patriottismo. La sua arte di uomo di Stato era la ragione e la verità poste in azione. E perciò il suo esempio è di un valore inestimabile. Grazie ad esso si può sciogliere il momentoso problema: è la grandezza irrimediabilmente incompatibile con la bontà? Gli uomini più savii, più brillanti debbono essere invariabilmente i più astuti’ od i peggiori? D’ora in poi, e per tutto il tempo avvenire, quando siano ripetute coteste interrogazioni, la risposta decisiva è pronta. Il filosofo che studia la storia, il moralista, il filantropo tutti coloro che pensano bene e desiderano pensar meglio della loro specie non hanno a fare altro se non pronunciare il nome di Cavour.»
Signori,
I limiti che questa commemorazione non mi consento di oltrepassare, mi tolgono dal discorrervi delle vicende italiane successive al Congresso di Parigi, e di dimostrarvi come ciascuna di esse fu la esplicazione logica e naturale dei principii enunciati al cospetto dell’Europa dal conte di Cavour, e come egli in tutti gli alti della sua politica svolgendo sempre i suoi concetti ed attagliandogli alle considerazioni della opportunità, ma non mutandoli mai guidò securo ed audace i passi degli Italiani, come la fiammeggiante colonna che rischiarava i passi d’Israele nelle sue peregrinazioni verso la terra promessa, e per lui la terra promessa era quest’alma Roma, dove grazie a lui siam giunti noi, dov’egli anelava alla gloria di firmare i capitoli del trattato di pace fra la religione e la civiltà. Ma non voglio porre termine al mio dire senza fare un’ultima considerazione.
Nel Congresso di Parigi il conte di Cavour vagheggiò più che mai il disegno di attirare la Prussia nell’alleanza occidentale, e di accattivare alla causa italiana il favore di quella potenza, della quale egli divinava l’avvenire. Sul finire del 1858 fece d’accordo con l’imperatore Napoleone III un tentativo diretto presso il governo prussiano. Non si sgomentò per la ripulsa, rinnovò il tentativo nel 1861, e, discorrendo alla Camera dei deputati della questione veneta, presagì che la nobile nazione germanica avrebbe pure un giorno abbandonata la vieta politica, secondo la quale la linea del Reno si difendeva su quella del Po, e non avrebbe più consentito a farsi complice della dominazione forestiera in Italia. Il generale Alfonso Lamarmora ebbe il meritato onore di attuare quel concetto. Dieci anni, dopo il giorno 8 aprile 1856, vale a dire il giorno 8 aprile 1866, i patti dell’alleanza italo-prussiana erano conchiusi a Berlino. Quanta eloquenza, o signori, in queste date ed in questa fausta coincidenza, la quale quasi si direbbe voglia attestare che la civiltà germanica non volle lasciare alla civiltà latina il vanto esclusivo di porgere il suo concorso al trionfo della causa italiana. Ma le alleanze e gli aiuti del mondo civile non sarebbero stati ottenuti, se l’Italia col suo contegno savio, risoluto, prudente non avesse saputo dimostrare che li meritava. E questa dimostrazione fu data dal conte di Cavour nel giorno 8 aprile 1856. Allora e poi egli non cessò dal confermare quella dimostrazione con gli atti della sua politica, che gli Italiani mirabilmente compresero e vigorosamente secondarono. Nel fare l’Italia egli sapeva di compiere non solo una grandiosa impresa patriottica ed una grande opera di ci* viltà, ma anche un’azione sommamente virtuosa. Tant’è,, o signori, noi possiamo dire con giusto orgoglio che la bellezza morale del nostro rinnovamento nazionale pareggia se non supera la sua grandezza come il maggiore evento della civiltà moderna. La persuasione di questo fatto deve mantener salda la nostra fede, e darci sicurtà che la Provvidenza non permetterà mai che l’insipienza degli uomini e i capricci della fortuna abbiano facoltà di distruggere questo portento che si chiama l’Italia. La virtù vive e fa vivere le nazioni: le crea, le conserva, le fa prosperare. Le nazioni che hanno il culto del vero, del bello, del buono, del genio, della virtù possono, come disse Gioberti, ammalare, morire non mai.
E l’Italia non morrà.
CONFERENZA
dell’On. Oomm. GIUSEPPE MASSARI
(10 Aprile 1881)
ROMA
TOPOGRAFIA DELL’ OPINIONE
1881
fonte
https://www.eleaml.org/ne/stampa/1881-MASSARI-Congresso-Parigi-1856-conferenza-2022.html