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IL CONTRABBANDO NEL REGNO DI NAPOLI SECONDO LA DOTTRINA DEL XVII SECOLO di DI PAOLO MELCHIORRE (II)

Posted by on Giu 23, 2021

IL CONTRABBANDO NEL REGNO DI NAPOLI SECONDO LA DOTTRINA DEL XVII SECOLO di DI PAOLO MELCHIORRE (II)

5. Il sequestro delle merci esportabili legalmente insieme con le merci vietate.

Nel caso i contrabbandieri fossero catturati in flagrante mentre trasportavano merci cui era consentita l’estrazione insieme con altre proibite, le cose che il diritto permetteva di esportare a seconda delle condizioni del fatto e la prassi.

Trattandosi, infatti, di delitto per la cui gravità erano sancite pene corporali, il sequestro dell’illecito comprendeva anche il lecito.

Così se i contrabbandieri erano stati colti presso i confini del regno mentre esportavano monete d’oro e d’argento che era permesso dalle regie prammatiche esportare, come ad esempio monete papali, insieme con monete proibite, quali le monete regie; le monete permesse dovevano essere sequestrate con le vietate, in quanto la pena imposta dalle prammatiche per questo delitto era la pena capitale, che comportava come conseguenza la confisca di tutti i beni del reo.

Invece, se erano stati presi mentre portavano merci lecite insieme con merci per la cui esportazione dovevano essere assolte le regie imposizioni, “li Regi diricti”, come occorreva per l’estrazione della lana o dello zafferano, senza che queste fossero state corrisposte, poiché la pena legale imposta era la perdita delle merci tassate, il lecito non veniva confiscato con l’illecito. Né andavano sequestrati i muli o le imbarcazioni che erano servite per il trasporto.

Se i diritti regi erano stati versati solo per una parte del carico, doveva essere sequestrato il doppio del quantitativo non coperto da licenza. Comunque, il giudice valutate varie circostanze quali il luogo dove era stato sorpreso il carico, la distanza dai confini e la qualità delle persone che lo trasportavano, poteva ammettere queste ad una tollerabile composizione.

La nave caricata con una quantità maggiore di vino rispetto a quella consentita, che non si era allontanata dal porto; né il cui proprietario aveva effettuato dolosamente il carico, non era interamente confiscata, ma veniva sequestrata solo la quantità eccessiva di vino. Trattandosi invece di maggiore quantità di frumenti, la confisca si estendeva a tutta la nave, essendo questo delitto equiparato a quello gravissimo di “Lesa Maestà.

Non andavano sequestrate le anfore recanti vino annacquato, condotte senza licenza, quando l’acqua prevaleva sul vino.

6. Il delitto di contrabbando commesso dai minori o da stranieri.

Non erano considerati dalle disposizioni degli statuti che proibivano le esportazioni illecite, né dal diritto comune, i minori. Quindi essi erano esclusi dalle pene previste dalle regie prammatiche, purché però, non avessero agito di proposito o con dolo contro la determinazione delle stesse prammatiche.

In questo caso il delitto non era scusabile ed essi dovevano essere puniti, anche se in maniera più mite rispetto a quanto stabilito dalle pene statuarie.

Se non interveniva il dolo, essi avevano trenta giorni di tempo per corrispondere i diritti di gabella, dopo di che erano soccorsi dal rimedio della “restitutio in integrum”.

Il dolo non era presunto ma doveva essere provato da colui che si fondava sullo stesso, con congetture e circostanze evidenti.

Esso era dimostrato dalla stessa estrazione vietata, quando il minore era in grado di valutare il profitto non solo derivato dal mancato pagamento del dazio, ma anche dalla vendita a prezzo più alto delle cose esportate fuori dal regno.

Spettava all’arbitrio del giudice, che si basava sulle circostanze del fatto e sulla qualità delle persone, stabilire se dalle congetture e dalle presunzioni fosse provato il dolo.

Allo stesso modo si procedeva in caso di estrazione vietata commessa da muti e sordi, per cui solo dopo che fosse stato dimostrato il dolo, essi potevano essere puniti.

Per quanto riguarda stranieri che fossero stati colti mentre trasportavano merci proibite dagli statuti o per la cui estrazione dovevano essere assolti i regi diritti, fuori dal regno, la manata conoscenza degli stessi statuti agiva da causa che escludeva l’applicazione della pena.

Questa norma, però, per la comune opinione, andava variamente applicata a seconda dei casi prospettati.

Così nel caso di estrazione di merci per cui le regie prammatiche prevedevano pene corporali, l’ignoranza dello straniero era presunta, a meno che questi avesse stabilmente dimora nel regno

Quindi perché lo straniero potesse essere punito bisognava dimostrare la sua conoscenza degli statuti.

Anche nel caso di esportazione di merci per cui erano previste pene pecuniarie insieme con il sequestro delle stesse merci, l’ignoranza dello straniero era presunta; in questo caso, però, si supponeva la conoscenza delle leggi oltre che per il forestiero che avesse dimora stabile nel regno, anche per colui che abitasse fuori del regno, ma in una località vicina ai suoi confini.

Trattandosi di merci per la cui estrazione era stabilito dal diritto municipale il pagamento di una gabella, l’ignoranza non agiva da scusante, e quindi le merci andavano confiscate a beneficio del regio fisco, se non fossero stati corrisposti i diritti regi.

In ogni caso, però, per la pubblica utilità, gli stranieri erano compresi nei bandi che punivano l’estrazione illecita di frumento od armi.

Infine, gli stranieri che fossero agricoltori o coloni nel regno potevano esportare la parte di prodotti che spettava loro, senza contravvenire a regi bandi.

7- Mandanti, consensienti, fautori, complici nel delitto di contrabbando

Erano compresi nelle prammatiche che proibivano il contrabbando, non solo coloro che attuavano materialmente il delitto, ma anche quelli in nome dei quali veniva effettuata l’estrazione illecita e coloro che in qualsiasi modo la favorivano.

Quindi il crimine andava provato anche ei confronti di mandanti, consenzienti, fautori, prestanti aiuto, che se riconosciuti colpevoli dovevano essere puniti con la stessa pena sancita contro i principali estraenti.

Così recitavano infatti una prammatica vietante l’estrazione di vettovaglie pubblicata nel 1797: «…s’intendano di essere incorsi non solo quelli ad instantia, e in nome dei quali si estraessero li grani, e altre vettovaglie, ma anco li vaticali, servitori, famegli, padroni di vascelli, ed altri complici e fautori, che scientemente esequissero simili estrattioni e contrabanni…!»; ed una dello stesso anno sull’esportazione di monete d’oro e d’argento: «…che la pena la possa esigere la predetta Regia Corte, tanto dal padrone delli denari, che l’havrà fatto estrahere, quanto da quelli, che l’estrhano, o haveranno consentito nella detta estrattione…», ed ancora: «…tanto contro l’estrahenti, quanto contro li mandanti, o procuranti l’estrattione predetta…».

E così dichiaravano due prammatiche, sempre sul divieto di estrazione di monete, edite nel marzo e nell’aprile del 1622: «…nell’istessa pena di morte naturale, e confiscatione de tutti loro beni ordiniamo, che incorrano tutta li marinari, e altre persone, che scientemente imbarcarono, o daranno aiuto a l’imbarcazione predetta…»; e: «…Ordiniamo che tutti quelli che saranno complici, e dessero aiuto, consiglio, o favore in tali estrattioni, incorrano, e s’intendano incorsi nelle stesse pene, che stanno per detta prammatica imposte contra gli estraenti. Vogliamo ancora, e per la presente prammatica promettiamo, che se alcuna persona denunciasse alla Regia Corte alcuna di dette estrazioni di monete, e ponesse in veri la estrazione, egli estraenti, e complici in dette estrazioni, se sarà il denunciante complice in tale estrazione, se gli spedisca indulto di tal delitto, e contravvenzione, oltra che se gli darà la metà dell’intercet­to…».

Per gli ufficiali del regio fisco che permettevano l’estrazione fuori del regno di frumento, oro, argento, monete, armi e cavalli senza licenza, era prevista la pena di morte; nelle altre ipotesi di delitto, era invece irrogata loro la pena della privazione dell’ufficio ed altre imposizioni ad arbitrio della Regia Corte.

Infine, coloro che dispensati dal pagamento della gabella permettevano di esportare a proprio nome, o estraevano essi stessi, merci appartenenti ad altri, erano puniti con il sequestro delle cose proprie ed altrui e con altre pene arbitrarie.

8 “Ius Tractarum”, diritti di gabella ed ipotesi generali verificabili.

Perché fosse possibile condurre fuori del regno monete, animali, vettovaglie ed ogni tipo di merce senza commettere delitto di contrabbando, quindi, era necessaria espressa licenza della Regia Camera ed il pagamento dei diritti di esportazione<; oppure la sola corresponsione dei diritti per le cose considerate di minore utilità.

I diritti sulle concessioni, “ius tractarum”, spettavano al principe.

Questi poteva anche revocare le concessioni precedentemente accordate, ma solo per una giusta causa, quale poteva essere il bene della pace o la pubblica utilità.

Ad esempio poteva revocare la licenza di esportazione di frumenti se fosse sopravvenuta una causa di penuria dello stesso; poiché la concessione per l’estrazione del frumento aveva come condizione interna, per il bene dello Stato, che il regno ne fsse ampiamente provvisto.

Secondi la decisione del Consiglio Collaterale, in caso di revoca dello “ius tractarum” il fisco era tenuto alla restituzione del rezzo dello stesso diritto insieme con un interesse del 10%.

Veniva commesso crimine di contrabbando nell’ipotesi in cui il concessionario di una licenza di esportazione di una determinata merce in un certo luogo, conducesse la stessa in un posto diverso.

Decretava però la Regia Camera che era permessa l’estrazione in luogo diverso da quello previsto dalla concessione, nel caso in cui questo appartenesse al dominio regio od ai suoi alleati.

Ugualmente si verificava il delitto di estrazione illecita quando il concessionario avesse esportato le proprie merci dopo che fosse scaduto il tempo di validità della licenza, senza che questo fosse stato espressamente prorogato.

L’esportatore era tenuto a portare con sé la licenza di estrazione, non essendo giustificato dalla dichiarazione di averla lasciata in patria.

Era stabilito dalla Regia Camera che in caso di naufragio in cui l’estraente avesse perso le proprie merci, egli potesse estrarre un simile quantitativo di carico diretto nello stesso luogo del precedente senza dover di nuovo assolvere i diritti regi; notava il De Angelis:[1]Afflictis enim non est alia addenda afflictio”.

Non andava versata alcuna gabella sulle cose trasportate per il proprio uso; tuttavia anche per l’estrazione di armi per la difesa personale o di monete per il proprio bisogno, era richiesta licenza della regia Camera.

Secondo un’ordinanza emessa da questa nel 1612, la somma di denaro che ogni persona che usciva fuori del Regno aveva diritto di portare con sé per il proprio comodo era di venticinque ducati per il viaggiatore a cavallo e di dieci ducati per quello a piedi.

Coloro che recavano con sé una somma maggiore di quella consentita dovevano essere fermato dagli ufficiali della dogana, che dopo avere preso informazioni, avvisavano subito la Regia Camera. Questa secondo “quello li parerà di giustizia”, stabiliva se essi dovessero essere arrestati oppure potevano portare con sé il denaro in eccesso, dopo avere versato una indennità a favore della stessa Regia Corte.

Gli ufficiali della dogana dovevano inoltre prendere nota dei marchi, dei segni, del pelo e del valore dei cavalli che i viaggiatori portavano con sé fuori del regno, poiché se non venivano ricondotti nel territorio dello stato nel tempo concesso, i detti ufficial avevano diritto a esigere da colui che aveva garantito per il rientro una somma di denaro pari al valore assegnato ad ogni cavallo.

Trattandosi invece di muli, la quota di indennizzo da versarsi era del dieci per cento del valore. Perché la fidejussione cessasse coloro che avevano estratto i cavalli, al loro rientro; dovevano presentare questi al comandante della “Grascia”, o “Regio Passaggiero”, che effettuava il controllo, non essendo ammesse prove per testimoni.

Per quanto riguardava invece i cavalli introdotti nel regno, non potevano più essere estratti fuori di esso se fosse trascoros il termine di quattro mesi dal giorno della loro immissione.

Erano compresi nei bandi che punivano l’estrazione illecita di frumento, coloro che dichiaravano sotto giuramento di esportare il frumento per l’suo proprio o della famiglia e che invece una volta fuori del Regno vendevano questo; infatti, l’“animus vivendi” si presumeva sussistente fin dall’inizio.

I mercanti stranieri che avevano pagato i diritti di dogana sulle merci vendute nel regno potevano esportare il danaro ricavato dalla vendita delle stesse, senza contravvenire i bandi che vietavano l’estrazione di monete dal regno.

Comunque, per l’estrazione di monete d’argento, essi dovevano essere forniti di licenza dei “Magistri Portulani” o degli ufficiali della dogana che avevano consentito, dopo la corresponsione della gabella, l’ingresso delle merci nel regno; per le monete d’oro, invece, dovevano essere provvisti di espressa licenza del viceré.

Inoltre, qualsiasi cosa fosse stata introdotta da altri luoghi nel regno, poteva essere ricondotta fuori di esso, tranne se si trattasse d’oro e d’argento; in questo caso l’estrazione era proibita anche se l’oro o l’argento appartenessero a stranieri.

Le merci da esportare non potevano essere caricate sulle navi, né trasferito da una imbarcazione ad un’altra, se non fossero stati precedentemente assolti i debiti di spedizione; in ogni caso però era proibito caricare o scaricare le navi durante la notte.

Non era soggetto alla pena il carrettiere che dormendo avesse oltrepassato il confine senza fermarsi nel luogo dove andava assolta la gabella, purché però risvegliatosi fosse tornato indietro a corrispondere questa.

Spettava all’arrendatore, in caso di giudizio, dimostrare l’eventuale frode commessa.

Né andava punito il comandante della nave che spinta dalla forza del vento non avesse potuto approdare nel posto dove era situata la dogana.

La nave carica di mercanzia che, inseguita dai nemici o da pirati, avesse trovato rifugio in un porto nel quale non aveva concessione di commerciare, non commetteva delitto se avesse ripreso il viaggio non appena la situazione di pericolo fosse terminata; lo stesso si verificare nel caso la sosta fosse stata provocata da avaria o da una tempesta.

Trattandosi di sosta forzata prolungata di una nave recante merci deteriorabili, la dottrina era discorde nel ritenere o non consentiva legalmente, in questa circostanza straordinaria, la vendita delle stesse merci senza regolare licenza, o senza il pagamento di una nuova gabella.

Era spesso affittato dalla Regia Corte ad arrendatori privati l’appalto della riscossione della gabella sull’esportazione di merci predeterminate.

Coloro che avessero preteso il pagamento della gabella senza averne ricevuto la potestà da parte del principe, erano puniti con la multa di cento ducati, l’esilio perpetuo ed altre pene arbitrarie, oltre che con l’obbligo di restituire il maltolto; alle stesse pene erano soggetti anche i baroni che avessero imposto, nella propria giurisdizione, nuove tasse di spedizione, senza lo assenso del viceré, ed i gabellieri e gli ufficiali della dogana che avessero richiesto imposizioni migliori di quelle stabilite.

Infine, le concessioni accordate per l’esportazione di alcuni prodotti, e le relative tariffe dei diritti della tratta erano le seguenti. Per quanto riguarda l’estrazione di grano e di orzo, il diritto della tratta era a discrezione del viceré e veniva valutato in base alla necessità di questi prodotti fuori del regno, alla richiesta dei mercanti e ad altri particolari.

Così sotto il governo del conte d’Ognatte nel 1650 esso era stabilito a sette carlini il tomolo; durante il governo del conte di Castrillo nell’anno 1658; e nel 1665 il viceré Don Pietro Antonio d’Aragona valutò le tratte di grano a tre carlini e quelle di orzo a due carlini il tomolo.

La repubblica di Ragusa aveva concessione di estrarre ogni anno cinquecento carri di grano, e per questi pagava la tassa di sei ducati il carro[2]. In virtù di reali privilegi alcuni luoghi pii avevano concessione di tratte di grano, come luoghi Santi di Gerusalemme per quaranta carri l’anno, i padri di S. Francesco delle province di Dalmazia, Croazia, Albania, per trenta carri l’anno ciascuna. Le altre tratte di grano e di orzo erano per lo più concesse a creditori di Corte.

La tariffa da pagarsi per l’esportazione di vino era di venti carlini la botte,[3]  per l’aceto di diciotto carlini e per l’acquavite di venticinque carlini.

Anche queste tratte erano solitamente concesse a creditori di Corte.

Varie licenze erano poi accordate “per gratia di S.M.” come quella concessa nel 1667 per quattro anni a Francesco Scioli per l’estrazione di 4700 botti l’anno di vino, a trenta carlini la botte, dalle province di Terra di Lavoro e Calabria Citeriore.

Inoltre ai ministri pontifici era permessa la tratta di un numero determinato di botti di vino. Per l’esportazione della seta dove­vano corrispondersi, per ogni balla di 275 libbre, venti ducati a beneficio della Regia Corte.

L’estrazione veniva ordinata non appena fosse stato effettuato il pagamento in cassa militare.[4]


[1] Op. cit. pag. 64.

[2] Ogni carro, secondo una misura generale, doveva contenere un carico di trentasei tomoli di grano.

[3] Ogni botte era valutata secondo la misura napoletana di dodici barili.

[4] Ordinanza della Regia Corte del 1670.

Tesi scritta a Napoli nel 1983 da Paolo Melchiorre e lavoro curato da Vincenzo Giannone

segue……

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