Il “Diavoletto Indipendente” (VI)
Corrispondenza particolare del Diavoletto.
Torino 1. luglio.
Voi chiedete che io vi scriva la verità intorno alla nostra posizione. Voglio compiacervi, ma vi
prevengo che il quadro riuscirà molto tetro. Il farsi un’idea esatta della situazione economica del
Piemonte ingrandito, è cosa molto difficile fino a tanto che non siano stati presentati i varii
preventivi.
Ma a questo non si pensa ancora, giacchè la politica assorbe e domina tutto, nè le
discussioni sul nuovo prestito di 150 milioni poterono darci precise spiegazioni sulla situazione
finanziaria. Certo si è pertanto che il budget pel solo anno corrente presenta un deficit di 80 milioni.
Si sa poi, che dopo l’ultimo prestito di 100 milioni che ebbe luogo in ottobre del 1859, il governo
ebbe enormi spese per la formazione di 20 reggimenti di truppe regolari, mentre dalle nuove sue
provincie non ebbe che pesi. Il sistema delle imposte di Piemonte non venne ancora applicato alle
provincie annesse, e queste lo respingono unanimemente, poichè la popolazione, specialmente in
Lombardia, è molto contraria al sistema piemontese, e più che mai all’imposta mobiliare e
personale, alle tasse sulle professioni e sulle vetture pubbliche.
I Lombardi che si lagnavano delle imposte austriache si lagnano oggigiorno di più ancora, ed i loro
deputati hanno ricevuto quasi tutti il mandato di respingere col loro voto l’applicazione delle
imposte sarde nel loro paese. Nella Toscana e nei Ducati, ove la popolazione pagava pochissimo,
sarà ancora più difficile l’adottare il nostro sistema d’imposte. Tosto o tardi converrà che il governo
risponda a questo problema che deve porlo in grandi imbarazzi.
Aggiungete che l’elemento rivoluzionario domina da per tutto e ch’esso trova per ora l’appoggio nel
governo stesso. E a che condurrà questo sistema? L’avvenire ci darà la risposta. Io per me temo, che tutto ciò che si crede d’incassare da quelle provincie, non sarà mai sufficiente per corrispondere ai
crescenti bisogni del nuovo regno.
A causa delle gravissime imposte, rese necessarie dalle spese senza misura e senza freno, regna
generale carestia. Ed è naturale se si pensa che fra noi si vuole tutto improvisare: l’armata, le grandi
imprese industriali, il perforamento del monte Cenisio, le ferrovie attraverso i monti ecc.
A Torino, a Milano, a Firenze, a Bologna si pagano gli oggetti di prima necessità a più caro prezzo
che a Parigi. Il popolo basso guadagna pochissimo per essere tenuti molto bassi i salarii, cosicchè
l’artigiano s’approssima a soffrire la miseria, e se non vi fosse tanta quantità di giovani che
s’arruolano nelle armate o in Sicilia o altrove, vi assicuro che il popolo non se ne starebbe quieto.
Aggiungete poi lo stato precario in cui viviamo da quasi un anno, e che paralizza il lavoro, che tiene
chiuse le casse dei ricchi, e vi convincerete che la nostra posizione economica rassomiglia al nostro
stato politico, cioè a dire vacillante e piena di difficoltà per l’avvenire.
Il nostro governo, continuando nella sua politica delle successive invasioni e del combinato
assorbimento, non potrà apportare alcun rimedio a questo stato di miseria che è opera sua, non farà
che scavare ognor più l’abisso che si è aperto sotto i proprii piedi, fino a che ne rimarrà ingojato.