Alta Terra di Lavoro

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Il “Diavoletto Indipendente” (XXXV)

Posted by on Apr 22, 2025

Il “Diavoletto Indipendente” (XXXV)

Il Diavoletto, Anno XIII, N. 225, 27settembre 1860

Cose di Napoli.

La Perseveranza porta una sua corrispondenza dal reame di Napoli nella quale è raccontato lo scontro che ebbe luogo presso Capua fra i regii ed i garibaldiani. Avvertiamo i nostri lettori che la corrispondenza è scritta da uno dei soldati di Garibaldi e che quindi la sconfitta viene possibilmente mascherata.

Ecco la lettera:

  • Dal quartier generale di Türr. Santa Maria, 19 settembre (sera).

Vi scrivo, appena quetato il rumore della battaglia e il frastuono dei cannoni. Non ci ha modo nè tempo di raccogliersi alla vista dei feriti e de’ morti. La giornata di oggi prova che le fatiche dell’esercito meridionale non sono finite nel regno; e che potrebb’essere che Capua e Gaeta costassero maggior tempo di quello che sia costato il conquisto di tutto il resto del paese da Reggio a Napoli.

Le operazioni della guerra s’eran dovute allentare nei giorni scorsi perchè s’era aspettato l’arrivo delle schiere di Garibaldi, e il ritorno del dittatore stesso da Palermo. Ieri l’altro, dopo che da parecchi giorni cominciavamo a sfilare sopra Santa Maria, il disegno del dittatore cominciò ad attuarsi.

Egli intende separare Gaeta da Capua, e cominciare dal circondare quest’ultima città per prenderla. Ieri l’altro il generale Türr mandò una parte delle forze sotto i suoi ordini verso Cajazzo, affinché fossero pronte nel giorno dopo; e ieri, per celare il suo intento, ordinò una forte ricognizione da Santa Maria a S. Frisco verso Capua, ed una dimostrazione verso Scafo Formicola e Scafo da Cajazzo. Quanto a me, sono stato presente alla ricognizione forzata, e di quella vi posso dare maggiori particolari. Del resto risultò la più importante fazione del giorno, perchè il nemico ingannato credette che l’ intenzione del nostri fosse di assaltare Capua a dirittura. E non solo raccolse tutte le sue forze al campo trincierato, che ha disposto sotto i cannoni della fortezza di Capua, ma fece per telegrafo ordinare ai battaglioni scaglionati lungo all’alto Volturno di abbandonare i loro posti, e di venire a mettersi sotto Capua. Cosicchè i nostri, non erano più di 2.000, si trovarono a fronte con 10.000 uomini, con gran numero di artiglieria e cavalleria e protetti da una fortezza.

Il colonnello Rüstow, capo di stato maggiore del generale Türr, fu da questo commesso il comando della dimostrazione forzata. Quegli, nel corso della notte, dette ordine al colonnello Spangaro di prender la via di Pommero e Casino Reale per occupare la Torretta, posizione alla sinistra di Capua; egli stesso si diresse la mattina, un’ora prima dell’alba, verso la spianata avanti Capua, dove le sue colonne furono ordinate per modo che il corpo del brigadiere De Giorgi ne formava l’ala destra, quello del Poppi la sinistra, mentre Rüstow restava al centro con la massa in riserva.

All’apparire del giorno le teste di colonne di Rüstow furono scoverte dai regii. La strada consolare che da Santa Maria conduce a Capua corre, per un miglio, perpendicolare a quella città, e poi volge a destra verso il campo trincerato della fortezza.

I nostri battaglioni, quindi, a misura che avanzavano, si trovavano esposti alle artiglierie del nemico; e noi con niun’altra artiglieria che due soli pezzi di cannone, presi ai napoletani in Milazzo, non avevano modo di rispondere, né di proteggere la nostra marcia. Cosicchè non è meraviglia se le nostre schiere furono molto decimate, e il danno del nemico non fu uguale al nostro.

Il fine della dimostrazione forzata era di lasciar tempo e modo al generale Türr di occupare

le forti posizioni, a cavallo dell’alto Volturno, di Sant’Angelo a Cajazzo. Egli a questo fine aveva spedito tre compagnie alla volta di Scafo Formicola, ed il battaglione Cattabeni alla volta di Sant’Angelo, villaggio che è sulla strada che conduce da Caserta a Scafo Formicolo. Mentre noi richiamavamo l’attenzione del nemico sopra di noi, il generale Türr riusciva nel suo intento.

Ma la nostra dimostrazione forzata durò forse più tempo di quello che sarebbe stato necessario: e la mortalità fu maggiore di quello che sarebbe bisognato.

Il colonnello Spangaro, che era stato mandato a destra per poi ripiegare, non potette operare la sua congiunzione con Rüstow, a malgrado che fosse ripetutamente avvertito di ripiegare colla maggior sollecitudine da Torretta verso il campo di Capua. Santa Maria, 20 settembre (sera)

Oggi non è accaduto nessun fatto di rilievo, altro che delle ricognizioni di poco momento, per riconoscere la quantità di forze del nemico, e l’estensione di luogo che occupano. È arrivata da Napoli dell’artiglieria ed altre truppe. Si preparano grandi avvenimenti per la prossima settimana. Intanto Scafa di Caiazzo è caduta in nostro potere.

Il Diavoletto, Anno XIII, N. 230, 3 ottobre 1860

Cose di Napoli.

Dalle corrispondenze di Napoli all’Unità Italiana di Genova del 24 e 25 settembre togliamo i seguenti particolari sulla situazione di quel paese e di quel Governo: Napoli 24 settembre.

“La risposta di Garibaldi alla lettera del re sarà recata a Torino dal marchese Trivulzio, non già dal conte Vimercati.

Ma una lettera non può giungere da Napoli a Torino in meno di 4 giorni, e il

generale Garibaldi, a rassicurare prontamente il principe, ha mandato, contemporaneamente alla lettera, un dispaccio elettrico di tre parole:

Sire, vi obbedirò.

Vi ricorderete bene che Vittorio Emanuele scrisse a Garibaldi per dissuaderlo dal proponimento di marciare sopra Roma.

Garibaldi è quasi sempre al campo: si è riuscito a collocare nella collina di Sant’Angelo una batteria di obici. Il bombardamento di Capua si dice abbia a incominciare domani.

Garibaldi ha fatto avvertire la popolazione di questo suo proposito per darle tempo ad uscire dalla città. In fatti fin da ier l’altro, molte famiglie abbandonarono la pericolosa dimora.

È giunto oggi Aurelio Saffi,.

Napoli 25 settembre.

Garibaldi è chiuso in un cerchio d’intrighi, che mettono capo alla segreteria particolare del conte di Cavour. I suoi nemici lavorano insidiosamente a compromettere le sue imprese militari, per potere, al momento venuto, insinuare soavemente, che senza l’aiuto dei battaglioni piemontesi non sarebbe stato possibile il compimento della guerra continentale.

La mano secreta che ordisce questa tela d’infamie, trovò modo di far mancare le cartuccie all’esercito insurrezionale, e fu appunto per questa mancanza, che un reggimento della divisione Medici non potè soccorrere gli 800 militi che guardavano Caiazzo, quando questo punto fu sorpreso, quattro giorni sono, dai napoletani.

Fin da ieri si diceva costituito un supremo comitato di sicurezza pubblica, i cui

membri erano stati scelti nel partito unitario, (repubblicano). Sembra però che i cavouriani siano riusciti a porre qualche ostacolo di mezzo, perchè non si vide comparire il decreto nel foglio ufficiale. Si dà come positivo la dimissione del ministero fin da tre giorni, ma nulla ancora si sa del gabinetto che gli succede. E un continuo dire e disdire, fare e disfare da perderci il capo.

Ieri il segretario generale, accompagnato da influenti persone, fra le quali il Cattaneo, si recò a Caserta presso il dittatore, onde porre netta e recisa la quistione fra il partito unitario (repubblicano) e il partito cavouriano; per affrettare insomma, la soluzione di una crisi che dura da tanti giorni, rende impossibile il governo, e sgomenta il paese.

Garibaldi chiamò a se tutti i ministri, ed è voce accreditata che abbia deciso di disfarsi completamente dell’elemento lafariniano. Si recano pure a Caserta alcuni fra i più sinceri amici del generale, e si spera che le proposte che essi intendono di presentargli metteranno fine, ove siano senza limitazione accettate, alla disastrosa condizione in cui versa il paese.

Carlo Cattaneo e Aurelio Saffi partono pure pel campo a questo intento”.

Come è egli possibile trovare il filo per ispiegare e connettere la prima delle notizie qui riportate della obbedienza di Garibaldi a Vittorio Emanuele, mentre le altre provano ad evidenza la tendenza repubblicana?

Sarebbe sempre la stessa e sola com media?

Napoli 26 settembre. Da una lunga corrispondenza della Perseveranza, togliamo i seguenti brani, che confermano la piena anarchia in cui si trova il reame napoletano. “Noi siamo veramente nello stato più tristo e più pericoloso che mai: minacciati dalla reazione da una parte, e dall’anarchia dall’altra: da borbonici e da mazziniani…..

I fratelli di Francesco II comandano in persona le truppe di Capua, e sono marciati

nelle sortite contro i nostri in testa alle colonne….. A Cajazzo furono spediti 600 garibaldiani; essi furono discacciati con molto sangue…

Lo stesso Garibaldi ebbe a lodare l’ordine e la precisione con cui i regi manovrano e si provano dell’artiglieria.

Garibaldi ha spedito intorno a Capua tutte le forze disponibili… Si attende Orsini coll’artiglieria……

Garibaldi avrebbe dovuto dar maggiore importanza agli ufficiali e soldati regii….. questi sono stati messi in loro balia e a mano a mano quindi vanno a Gaeta a congiungersi coi loro commilitoni. La reazione è organizzata… Quello che sgomenta l’universale è il pessimo governare di Bertani il quale circondato da mazziniani diroccano e sperperano senza nulla sostituire… Finora il buon senso del popolo ci salvò dall’anarchia, ma in avvenire?…. il dittatore è giocato… egli crede che servono alla causa della monarchia e invece cospirano alla rivoluzione per la repubblica… Napoli è tuttora come paese di conquista… si è violentata la persona dell’arcivescovo e lo si è cacciato dal regno… Il  popolo attonito ode, vede e tace… ma non sempre è lode il silenzio…

Questo modo di governare, il pericolo dell’impresa di Gaeta e altro, hanno mutato in tristezza l’aspetto già così giulivo e brioso della Metropoli… il commercio è in ristagno……………………. i dazi non si

esigono… gli impiegati pubblici sono scelti fra gli intriganti….

Leggesi nell’Opinione del 30:

Se le notizie di Napoli sono sgradevoli, quelle di Palermo non sono liete.

I partigiani dell’annessione son perseguitati. L’avvocato Casalis è stato arrestato a Palermo, come fautore di annessione e cavouriano. Il nostro console ha reclamato, e solo dopo i suoi reiterati richiami e le sue proteste, il signor Casalis è stato liberato; ma sfrattato dalla Sicilia.

Il Generale Bosco.

Il generale Bosco scrive da Parigi una lettera che venne inserita nel Journal des Dèbats, nella quale smentisce la sua lettera inserita nella Gazzetta di Verona, da noi riprodotta; ma dichiara di pienamente dividere i sentimenti espressi in quella lettera. Quello che noi non sappiamo comprendere si è, che dispacci da Napoli recarono come il generale Bosco avesse combattuto contro i garibaldiani a Capua negli ultimi fatti.

A tutte le maniere ecco la lettera ora stampata nel Dèbats, al redattore del quale l’ha indirizzata. Signore!

Ritenuto a Napoli da penosa malattia, io mi disponeva a raggiungere, appena lo avessi potuto, il re mio signore. Ma ciò mi fu vietato, e non ottenni il 15 corr. la mia libertà ed il permesso di lasciare Napoli che dietro promessa, sulla parola d’onore, di non servire nell’armata di S. M. durante lo spazio di tre mesi.

Giunto ieri a Parigi, lessi nel vostro giornale del mattino la lettera, firmata Bosco, in data 14 settembre da Capua, ed estratta dal Giornale di Verona. Io divido i sentimenti che vi sono espressi, sono superbo che mi vengano attribuiti, ma io non ho scritto la lettera di cui si tratta. Aggradite, ecc.

Parigi, albergo di Bade, li 27 settembre 1860. De Bosco.

Il Diavoletto, Anno XIII, N. 231, 4 ottobre 1860

Rivelazioni.

Nicotera e Ricasoli figurano in due campi diversi; repubblicano il primo, il secondo cavouriano per ambizione.

Nicotera e Ricasoli, il famoso Bettino di Firenze, lavorarono però insieme nei giorni in cui il primo doveva per ordine ed interesse del Governo sardo invadere le Marche e l’Umbria. Il signor Bettino più tardi la ruppe con Nicotera, al quale fece dare dai suoi giornali di tutti i titoli e negò d’essere stato in connivenza col medesimo per la nota invasione; ora il repubblicano Nicotera sbugiarda il signor Bettino, e da Napoli gl’invia una lettera che mostra qual uomo sia questo barone Ricasoli e di che carattere e di qual coscienza. Decorato da Leopoldo II il granduca di Toscana, congiurò a danni del suo principe; e si unì con Nicotera e con Mazzini quando credette di poter servire meglio alla causa di Cavour, cioè alla sua causa che è quella dell’ambizione.

Le rivelazioni però di Nicotera imprimono un marchio indelebile sul barone Ricasoli, e dal quale sarà difficile ch’esso possa purgarsi mai davanti al giudizio inesorabile della storia; altra volta abbiamo pubblicato in proposito interessanti particolari che tornarono a condanna del Governo sardo e dell’ambizioso governatore della Toscana.

Ora ecco alcuni brani della lettera del Nicotera in risposta ad un articolo del Monitore Toscano, organo ufficiale del barone Bettino; varranno a provare ancora una volta di quali uomini si serve il Governo sardo per riformare l’Italia.

“…Se io (Nicotera) dirò cose che dovevano rimanere secrete fra voi e me, non vi venga in mente accusarmi di slealtà. La nota del Monitore Toscano mi scioglie da ogni tacito impegno, quella nota mi prova che voi operaste verso di me come fa una guardia della pubblica sicurezza, la quale, a consegnare un patriotta nelle mani del fisco, depone l’assisa di poliziotto, si dichiara vostro e cospira con voi. Ora ai fatti.

E prima di tutto producete, signor barone, una sola prova della vostra asserzione, che cioè i capi della quinta brigata dei volontarii di Castelpucci, avevano intenzioni contrarie alla maggior parte di essi volontarii.

Per conto mio, a dimostrare che qui è la vostra prima menzogna, vi ricorderò che i volontarii di Castelpucci presero le armi e domandarono di scendere a Firenze per istrapparmi ai vostri gendarmi, i quali mi avevano arrestato per isbaglio sulla piazza del duomo; io fui onesto e leale con essi, come fui sempre con tutti; gli è che io non ho loro dato promesse con animo preparato a disdirle; gli è, infine, che io non lasciai ignorare a quei bravi volontarii la missione che era loro riserbata nelle provincie soggette dello Stato Romano.

E tutto questo dissi a voi, signor barone, nei nostri frequenti colloqui; e voi non potete aver dimenticato, che, sulle prime, eravate disposto a lasciarmi entrare per la via di terra, nella Stato Romano, e mi prometteste il passaggio sulla strada ferrata fino ad Asinalunga, e soggiungeste, ad una mia osservazione, queste precise parole: Se il Governo di Torino vorrà opporsi, io mi caverò la maschera e verrò con voi. Quante maschere avete per il vostro uso, signor barone?

I capi della colonna erano imbevuti delle idee di Mazzini, voi dite. Anzi tutto, le idee di Mazzini, nella presente questione italiana, sono le idee di tutti, incominciando da Garibaldi, e voi, signor barone, avete adottato francamente con me le idee di Mazzini. Una sera, in palazzo vecchio, io posi nelle vostre mani una lettera di Mazzini; voi la ponderaste a lungo, ne approvaste il concetto e mi diceste:

“Se fosse possibile che nessuno al mondo lo sappia, io sarei contento di avere una conferenza con Mazzini. Chi era più mazziniano di voi quella sera, signor barone?

Più tardi i vostri gendarmi mi arrestarono in Firenze per isbaglio, e voi ordinaste che io fossi rimesso in libertà, e confermaste la convenzione che entrambi avevamo adottato, e mi faceste porgere le vostre scuse e faceste consegnare al signor Dolfi le 40.000 lire convenute.

O quando dunque vi accorgeste signor barone, che i capi della brigata avevano intenzioni contrarie alla volontà della maggior parte dei volontarii? Quando noi eravamo già in Livorno a bordo dei vapori, impazienti di salpare? Codesto è il ridicolo della malafede, signor governatore, e la discussione a questo punto diventa impossibile.

Lascio in serbo, per il caso che voi scriviate un’altra nota nel Monitore Toscano, alcune circostanze, alcuni altri fatti dei quali fu testimonio lo stesso salotto del Palazzo Vecchio. La storia della vostra disonesta condotta, la storia delle vostre maschere debbe essere nota interamente, e lo sarà.

L’attitudine del popolo di Livorno prova che esso ignorava quanto era passato fra il barone Ricasoli e Giovanni Nicotera; prova che egli credette il governatore delle provincie toscane incapace di tradire e di calunniare i traditi, e vedendo i cannoni puntati contro i volontari, gli parve impossibile che si trattasse soltanto di un infame stratagemma di Governo per salvare un governatore.

Il popolo e la guardia nazionale di Livorno, leggendo i documenti che io gli feci pubblicare nei giornali di Genova e di Firenze, leggendo ora questa lettera che pubblicamente v’indirizzo, comprenderà qual fu la vostra parte in questi fatti, si farà una giusta idea del vostro carattere, e sentirà qual sia fortuna pel suo civile paese l’avere a supremo magistrato un uomo, che messo tra l’impiego e l’onore, calpesta l’onore e si tiene all’impiego”.

Napoli, 14 settembre 1860. Giovanni Nicotera.

Pur troppo siamo costretti a convenire che fra Nicotera e Ricasoli, la scelta deve cadere sul primo, tuttochè questi sia capace di tutto, è meno da condannare che il secondo il quale pur volendo godere fama di leale e saggio sorpassa il primo nella doppiezza e nella menzogna nella più schifosa delle dissimulazioni.

Cose di Napoli.

Le notizie da Napoli continuano gravi: l’anarchia fa passi da gigante; e la violenza è la ragione del paese; annessionisti e repubblicani menano a rovina quel povero popolo.

Si dice, ed è la Perseveranza che il conferma coll’appoggio di corrispondenze spedite all’Opinione, che Bertani abbia mandati ordini perentorii alla frontiera, onde respingere i piemontesi nel caso volessero entrare nel reame di Napoli e invece gli annessionisti spediscono deputazioni a Vittorio Emanuele al quale verrà presentato l’indirizzo che più sotto riportiamo.

Ora si vede di quale e quanta felicità furono apportatori i liberali a quell’ infelice paese, ove l’anarchia, la rivoluzione, il più completo disordine hanno preso il posto dell’ordine, della pace, della felicità di quei popoli.

Ecco come un documento l’indirizzo dei napoletani annessionisti al re di Piemonte, che sarà portato da una deputazione a Torino:

Sire! Voi siete il re nostro. Noi vi abbiamo sussurrato re nei convegni segreti; noi vi abbiamo gridato re per gli atrii e per le piazze; noi vi abbiamo proclamato colle insurrezioni e colle armi. E il dittatore G. Garibaldi, la cui lealtà d’animo è pari al coraggio e il coraggio pari alla fortuna, è entrato in Napoli pronunciando questa prima parola: “Vittorio Emanuele e i suoi discendenti sono i re vostri e d’Italia”.

Sire, perchè noi dovremmo essere gli ultimi degli Italiani ad accogliervi e festeggiarvi nel grembo delle nostre città? Perchè dovremmo essere gli ultimi a godere i beneficii d’un governo, in cui tutti i principii di libertà, d’ordine, di progresso e d’avvenire che si compendiano col vostro nome, sieno la norma e la guarentigia dell’indirizzo politico dello Stato?

Sire, venite! Noi napoletani vogliamo che in Napoli voi veniate a suggellare l’Unità italiana; voi veniate a ristaurare la tranquillità e la pace nel regno. Noi vogliamo che prodi, che hanno difeso voi e l’Italia si abbraccino con quei valorosi giovani, che, sbarcati in poche centinaia a Marsala, hanno, aiutati dalle popolazioni, liberato le più fedeli, e non le meno belle delle provincie del vostro regno; affinchè tutti, guidati dalla saggezza vostra, moviamo poi di qui a sgominare colla forza del vostro braccio, colla coscienza dei vostri generali, coll’ardire e il genio del vostro Garibaldi, i residui nemici d’Italia, e coronare così l’opera della sua redenzione”. E che cosa dirà Russell? e Varsavia?

Il Diavoletto, Anno XIII, N. 222, 5 ottobre 1860

Sunto del discorso del conte di Cavour, in appoggio del progetto di legge presentato dal presidente del Consiglio alla Camera dei deputati in Torino nella tornata del 2 ottobre 1860: Signori! Or sono tre mesi il Parlamento, prima di prorogare le sue tornate, concedeva al Governo del re le somme richieste per provvedere alle esigenze dello Stato.

Votando un prestito le due Camere, diedero un efficace sostegno al Governo.

Gli apparecchi militari proseguiti con alacrità, nonostante il gravissimo spendio che traggono seco, contribuirono a far rispettare in Italia il principio del non-intervento.

Cotesti militari apparecchi ci posero del pari in grado di liberare prontamente l’Umbria e le Marche, senza affievolire la difesa dei nostri confini.

All’aprirsi della sessione attuale i rappresentanti di undici milioni d’italiani si adunavano intorno al Monarca da essi unanimemente acclamato. Ora, dopo trascorsi appena sei mesi, altri undici milioni d’Italiani sonosi fatti arbitri di scegliere quel Governo ch’ei reputeranno più convenevole ai sentimenti ed agli interessi loro.

Il ministero è al tutto alieno dall’attribuire unicamente a sè stesso il merito di sì mirabili eventi. Egli non disconosce, ma proclama invece altamente, che al genio iniziatore dei popoli è sovratutto da attribuire un così stupendo rivolgimento. A rispetto poi di Napoli e della Sicilia, esso è dovuto senza dubbio al concorso generoso dei volontarii; e più che ad altra cagione, al magnanimo ardire dell’illustre loro capo, al generale Garibaldi. (Vivissimi applausi).

Il ministero si restringe pertanto a notare che questi memorandi casi furono conseguenza necessaria della politica già iniziata da Carlo Alberto, e proseguita per dodici anni dal Governo del re. (Applausi).

Io non credo necessario di ricordare gli avvenimenti testè compiuti. Essi sono tanto noti e così recenti da non bisognare d’alcuna menzione. D’altra parte non trattasi qui di discutere sul passato, bensì di deliberare intorno al da farsi attualmente.

L’Italia è ormai libera. Rispetto alla Venezia, il Parlamento conosce il nostro pensiero, il quale fu espresso chiaramente in un documento diplomatico divenuto, or non è molto, di ragione pubblica. Noi giudichiamo che non debbasi rompere guerra all’Austria contro il volere quasi unanime delle Potenze europee.

Tale improvvida impresa farebbe sorgere ai nostri danni una formidabile coalizione e porrebbe a gran repentaglio non solo l’Italia, ma la causa della libertà nel continente europeo. Perocchè quel tentativo temerario ci porrebbe in ostilità colle Potenze che non riconoscono i principii difesi da noi, e ci alienerebbe la simpatia di quegli Stati che informano la loro politica a più liberali intendimenti. Noi non poniamo in oblio la causa di Venezia, ma reputiamo di servirla nel modo maggiormente efficace costituendo una Italia forte. Dappoiché stimiamo con sicurezza che non appena cotesto gran fine verrà raggiunto, l’opinione generale delle nazioni e dei gabinetti, la quale oggi è contraria ad una impresa arrischiata, si mostrerà favorevole a quel solo scioglimento della questione italiana che chiuderà per sempre nel mezzogiorno d’Europa l’era delle guerre e delle rivoluzioni. (Applausi). Del pari noi siamo convinti che ragioni supreme impongono l’obbligo di rispettare la città dove ha sede il sommo Gerarca. La questione di Roma non è di quelle che possono sciogliersi colla sola spada. Ella incontra sulla sua via ostacoli morali, che le sole forze morali possono vincere. Ed abbiamo fede che presto o tardi quelle forze indurranno nelle sorti della insigne Metropoli una mutazione consentanea coi desiderii del suo popolo, con le aspirazioni di tutti i buoni italiani, coi veri principii e i durevoli interessi del cattolicismo.

È consiglio da savii e da patriotti il sapere aspettare un mutamento così salutare dalla virtù del tempo e dallo influsso grande ed incalcolabile che l’Italia rigenerata eserciterà sui pareri e giudizi del mondo cattolico. Ma, quand’anche questo nostro pensiero fosse erroneo, la sola presenza delle truppe francesi a Roma dovrebbe bastare a farci desistere da qualunque disegno eziandio remoto di schierarci colle armi in pugno innanzi a quella città.

Nelle condizioni nostre attuali il metterci a fronte dei soldati di Francia sarebbe, più che follia inaudita, fallo e colpa gravissima.

V’ha infatti delle follie generose, le quali, benchè divengano sorgente di enormi sacrifici e dolori, non traggono seco la ruina di una nazione. Invece tornerebbe a ruina d’Italia qualunque intenzione di combattere contro le truppe francesi. Una ingratitudine tanto mostruosa segnerebbe sulla fronte della nostra patria tale macchia, che lunghi secoli di patimenti non varrebbero a cancellare.

I soldati di Francia occupavano Roma quando altri soldati di quella nazione, guidati dal loro generoso Imperatore, combatterono per noi a Magenta ed a Solferino.

Se riputavasi la loro presenza in quella città incompatibile al tutto coi veri interessi d’Italia, non dovevamo né chiedere né accettare il concorso della potente nostra vicina per conquistare libertà e indipendenza. Oggi il rivolgere contro di lei le armi medesime che le sue vittorie hanno posto nelle mani di tanti Italiani, sarebbe tale atto da cui certo rifugge l’animo d’ognuno di noi che non sia pienamente sedotto e dominato dallo spirito di setta.

Ma se per ora non siamo in condizione d’adoperarci a favore di Venezia e di Roma, non va così per le altre parti d’Italia, le quali, sebbene già rivendicate a libertà, sentono l’uopo d’immediati ed efficacissimi provvedimenti.

Colla moderazione e concordia degli animi, colla fermezza incrollabile di proposito i popoli della Toscana e dell’Emilia pervennero da ultimo a persuadere la diplomazia che gl’Italiani sono capaci di costruire un vasto regno, fondato ed ordinato sovra principii ed istituzioni largamente liberali.

Le cose debbono procedere in egual modo nell’Italia meridionale. Guai se quei popoli avessero a durar lungamente nella incertezza del provvisorio; le perturbazioni e l’anarchia che poco tarderebbero a scoppiare, diverrieno cagione di danno immenso e di immenso disdoro alla patria comune. Il gran moto nazionale, uscendo dall’orbita regolare e maravigliosa che ha trascorsa finora, farebbe correre supremi pericoli così alle provincie testè emancipate quanto a quelle che sono da oltre un anno fatte, libere ed indipendenti. Ciò non deve succedere. Il re, il Parlamento non vi possono acconsentire.

Il Principe generoso, che l’Italia intera proclama iniziatore e duce del risorgimento nazionale, ha verso i popoli del mezzogiorno d’Italia speciali doveri. L’impresa liberatrice fu tentata in suo nome; attorno al suo glorioso vessillo si raccolsero, si strinsero i popoli emancipati. Egli è dinanzi all’Europa, dinanzi ai posteri risponsabile delle loro sorti.

Non già che re Vittorio Emanuele intenda perciò disporre a suo talento dei popoli dell’Italia meridionale, ma incombe a lui il debito di dare a quelli opportunità d’uscire dal provvisorio, manifestando apertamente, liberissimamente la volontà loro. (Applausi).

Quale sarà il risultato del voto ? La risposta giace nell’urna elettorale.

Qualunque sia per essere il voto di quei popoli, esso verrà religiosamente rispettato. (Vivissimi applausi).

Tali considerazioni indussero il Governo del re a chiedere alle due Camere che sia

fatta facoltà di compiere l’annessione di tutte quelle affrancate provincie italiane, le quali, interrogate col mezzo del voto universale e diretto, dichiarassero di volere esser parte della numerosa famiglia di popoli già ricoverati sotto le ali del regno glorioso di Vittorio Emanuele. La forma del voto sarà quella medesima già posta in atto nell’Emilia e nella Toscana.

I popoli verranno invitati ad esprimere nettamente, se vogliono congiungersi al nostro Stato, senza però ammettere alcun voto condizionato.

Quella condizione di cose provvisoria e rivoluzionaria, che poteva avere ragione di esistere a Napoli ed in Sicilia, debbe aver termine al più presto possibile. Lo richiede l’interesse di quelle provincie per cui lo stato presente è cagione feconda di gravissimi sconci. E come potrebbe, senza notabile scapito della dignità della Corona, come potrebbe re Vittorio Emanuele acconsentire che provincie italiane siano lungo tempo governate nel nome di lui quali paesi di conquista, senza che il popolo adunato nei liberi comizi abbia espresso e manifestato con solenne legalità di voto la sua volontà? (Applausi).

Per queste ragioni io piglio speranza che voi farete, o signori, accoglienza favorevole alla proposta di legge che ho l’onore di presentarvi.

Il voto di fiducia che voi or fa pochi mesi concedeste al ministero, lo pose in grado di superare le difficoltà, né poche, né lievi, che ingombravano la sua via.

Ora, per proseguire a reggere con mano salda e vigorosa il timone dello Stato, è mestieri ch’egli sappia, e sappia l’Italia, se gli atti e i portamenti di lui in questo intervallo furono tali da scemare la fiducia che in esso voi riponeste.

Ciò è tanto più necessario, o signori, dacchè una voce giustamente cara alle moltitudini palesò alla Corona e al paese la sua sfiducia verso di noi.

Certo tale dichiarazione ci commosse penosamente, ma non poteva rimuoverci in nulla dai nostri propositi.

Custodi fedeli dello Statuto, del quale a noi più che ad altri incombe la esecuzione più scrupolosa, non crediamo che la parola d’un cittadino, per quanto segnalati siano i servigi da lui resi alla patria, possa prevalere alla autorità dei grandi poteri dello Stato.

Però è debito assoluto dei ministri d’un re costituzionale di non cedere innanzi a pretese poco legittime, anche quando sono avvalorate da una splendida aureola popolare e da una spada vittoriosa.

Ma se cedendo a quelle esigenze avremmo mancato al nostro debito, ci correva l’obbligo tuttavia d’ interrogare il Parlamento, onde sapere s’egli è disposto a sancire la sentenza proferita contro di noi. Questo effetto uscir deve dalla discussione cui darà motivo la presente proposta di legge.

Qualunque esser possa la deliberazione vostra, noi l’accetteremo con animo tranquillo.

Ecco ora il Progetto di legge: Vittorio Emanuele II ecc. ecc. ecc. Il Governo del re è autorizzato ad accettare e stabilire per reali decreti l’annessione allo Stato di quelle provincie dell’Italia centrale e meridionale, nelle quali si manifesti, liberamente, per suffragio diretto universale, la volontà delle popolazioni di far parte integrante della nostra Monarchia costituzionale.

Notizie politiche

ITALIA. Dicesi che le truppe sarde siano già entrate sul territorio napoletano. Pinelli sarebbe a Teramo. Brignone a Civita Reale. Cialdini a poca distanza da entrambi.

  • Da notizie che l’Armonia riceve dalle

Marche, sappiamo che il cardinale Deangelis, arcivescovo di Fermo, è caduto prigioniero nelle mani dei regii, e sarà inviato a Torino!!!

Napoli 29 settembre. I giornali di qui pubblicamo oggi il seguente Ordine del giorno.

Il quartier generale è a Caserta. I nostri fratelli dell’esercito italiano, comandato dal bravo Cialdini, combattono i nemici dell’Italia, e vincono.

L’esercito di Lamoricière è stato disfatto da quei prodi. Tutte le provincie, serve del Papa, sono libere. Ancona è nostra. I valorosi soldati dell’esercito del settentrione han passato la frontiera e sono sul territorio napolitano:

Fra poco avremo la fortuna di stringere quelle destre vittoriose. Caserta 27 settembre. G. Garibaldi.

  • I suddetti giornali hanno pure il seguente bullettino ufficiale:

Il dittatore al ministro della guerra. Napoli.

Una colonna di 800 uomini ha passato il Volturno molto più in su di Limarola. Da Capua pure fuvvi una sortita. Non si è tirato un colpo di fucile. Le truppe di Capua sono già rientrate.

Presentemente nulla di nuovo. Caserta 27, ore 7 e mezza pom. L’ufficiale telegrafico Domenico Assante.

  • Gli stessi giornali di Napoli recano i decreti del dittatore che accettano la dimissione di Liborio Romano, ministro degli affari esteri; di Giuseppe Pisanelli, ministro di grazia e giustizia; di Antonio Scialoja, ministro delle finanze; del marchese d’Afflitto, ministro dei lavori pubblici; e di Antonio Ciccone, direttore dell’ istruzione pubblica, e nominano i nuovi ministri nelle persone dei signori: Raffaele Conforti, all’interno e polizia.

Luigi Giure, ai lavori pubblici. Pasquale Scura, alla giustizia. Amilcare Anguissola, alla marina.

Francesco de Sanctis, direttore dell’istruzione pubblica.

  • Garibaldi accordò una pensione di ducati sessanta al mese vita durante, a Silvia Pisacane, figlia di Carlo Pisacane. È accordata pure una pensione di ducati trenta al mese a Maddalena Russo,

madre del Milano, vita durante. È accordata una dote di ducati duemila per ciascuna delle due sorelle del detto Milano.

  • Il Giornale ufficiale segue a riportare indirizzi e atti di adesione al regno d’Italia sotto lo scettro costituzionale di Vittorio Emanuele, e alla dittatura di Garibaldi.

Hanno votato i rispettivi indirizzi: il Munici pio di Foggia, Ascoli, Castellana di Bari, Candela, Coiano e Sansevero. La guardia nazionale di quest’ultimo paese ha fatto lo stesso per mezzo de’ suoi rappresentanti.

  • Ci vien riferito da buona fonte che ieri, 28, finalmente dopo cinque ore di ostinato combattere, Cajazzo fu riconquistato dai nostri. (Nomade)

La crisi ministeriale non è ancora finita: hanno accettato finora: Conforti all’interno e polizia, Giura a lavori pubblici, Scura alla giustizia, Anguissola alla marina, de Sanctis alla pubblica istruzione.

Non appena compiuto il novello ministero, pubblicherà il suo programma.

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