Il fisco protagonista dell’Italia unita
La prima carica dello Stato (on. Napolitano, presidente della Repubblica) ha la certezza che la crisi sarà superata dalla coesione del popolo italiano, ritrovata o rinvigorita dalle celebrazioni del 150° dell’Unità. Invece la seconda (on. Schifani, presidente del Senato) dubita della coesione per via dei sindacati, che non solo non si accodano a Mario Monti, ma fanno la guerra alla sua riforma “Salva Italia”. Forse Schifani non ha prestato la dovuta attenzione alle celebrazioni e, quindi, non ne ha colto i salvifici effetti.
Comunque sia, se, invece di dedicarsi al restauro di miti obsoleti, avesse dato spazio anche alle pagine oscure dell’Unità, il 150° avrebbe potuto darci non pochi insegnamenti, per esempio aiutandoci ad individuare il filo rosso che fin dal principio unisce i vari periodi della nostra storia unitaria: il torchio fiscale e la corruzione. Dato che in questo momento l’attenzione è concentrata sul prelievo fiscale (la corruzione è sempre all’ordine del giorno e si potrà trattarne un’altra volta) il Comitato dei Garanti delle celebrazioni avrebbe potuto utilmente riesumare le vicende che portarono all’elaborazione e all’applicazione della famosa tassa sul macinato e le reazioni popolari che ne seguirono sopratutto in Padania (in molti altri luoghi si ricorse al più semplice rimedio di non pagarla e di non riscuoterla). Gli italiani avrebbero così ricordato o scoperto che, per effetto dei debiti ereditati dal Piemonte sabaudo, già a fine 1865, a pochissimi anni dalla parziale unificazione (mancavano ancora Roma e il Veneto), il bilancio del nuovo Regno versava in gravissime condizioni per il continuo aumento del deficit, e che l’allora presidente del Consiglio, l’ingegnere piemontese Quintino Sella (un tecnico prestato alla politica), il 13 dicembre di quello stesso anno presentò un progetto di legge per l’introduzione di un’imposta sulla macinazione dei cereali.
L’Italia era all’epoca un paese in larghissima misura rurale, sicché, scelta la strada dell’aumento dell’imposizione fiscale (la contemporanea proposta di riduzione della spesa pubblica aveva anche allora fini puramente ornamentali), questa doveva colpire agricoltura e attività connesse. In un paese che viveva di pane, pasta e (al nord) polenta la via più semplice sembrò quella dell’imposta sulla macinazione, già scelta da molti governi pre-unitari con esiti finanziariamente modesti e, in compenso, forti avversioni popolari, ma il Sella contava di applicarla con aliquote più pesanti, grande rigore e spese all’osso. Da buon ingegnere, aveva previsto di affidare il controllo del macinato non ai finanzieri o a personale stipendiato, ma a contatori meccanici installati presso ogni mulino per misurare il numero di giri delle macine, e di trasformare in esattori gli stessi mugnai..
Il suo discorso di presentazione della proposta alla Camera avrebbe riscosso il plauso degli odierni ammiratori di Mario Monti: “Venuta altre volte in odio, aveva l’aspetto di un ingrato balzello, poteva divenire e divenne il soggetto di avversioni più o meno spontanee, e minacciava di uccidere chi avesse osato nominarla. Ebbene, o signori, tra me e il Paese, tra la popolarità del mio nome e la salvezza d’Italia la mia scelta non poteva essere né dubbia né lenta. Forte delle più salde convinzioni ho avuto, come vedete, il coraggio di invocare sull’ingrato balzello le deliberazioni del parlamento; ed ho avuto in me la coscienza di avere così portato alla patria il più arduo fra i servigi che dal mio posto si potesse”.
I deputati però presero tempo, favoriti dalla caduta del governo e dalla sostituzione del Sella col La Marmora, ma l’anno successivo (1866) le spese per la guerra contro l’Austria e le entrate fiscali più modeste delle previsioni aggravarono la situazione al punto da far balenare lo spettro della bancarotta dello Stato (allora non si diceva ancora “default”). Di conseguenza, nel giugno del 1867 il ministro delle finanze ripescò la proposta, il cui esame venne affidato ad un’apposita commissione parlamentare, che nel febbraio 1868 depositò le proprie conclusioni. Queste, pur dichiarando indispensabile la tassa, prevedevano modalità molto diverse da quelle elaborate dal Sella sicché i deputati vennero chiamati a scegliere fra due progetti e ne seguì un dibattito in tutto degno dei nostri giorni.
A chi paventava il rischio di un danno per i mulini più poveri a favore dei più ricchi ed efficienti aveva già risposto lo stesso Sella, affermando che i mugnai sarebbero stati indotti a migliorare le proprie macchine investendo capitali in nuova tecnologia. Insomma, col penalizzare i mulini tecnologicamente arretrati l’imposta avrebbe agito da elemento propulsivo di modernizzazione. A chi attaccava il progetto della Commissione paventando rincari del costo di macinazione, si replicò che a tutto avrebbe rimediato la mano invisibile del libero mercato e della concorrenza.
Non mancò nemmeno chi la buttò sul patriottico e gli impegni d’onore, che “semper sunt servanda”. Francesco Crispi ricordò che in occasione dello sbarco dei Mille in Sicilia per alienare i siciliani dai Borbone era stato preso solenne impegno “di ristabilire tutti i benefici conquistati con la rivoluzione del 1848”, fra i quali, appunto, l’abolizione della tassa sul macinato .
Infine, dal momento che nessuna delle due proposte aveva la maggioranza per l’approvazione, si formò in parlamento un terzo partito, composto (scrive Stefano Cammelli in un libro del 1984) da quei parlamentari che “stanchi di sentirsi rimproverare per la mancata approvazione della tassa sul macinato, e forse rasseganti all’idea di intervenire nuovamente e con pesantezza sui livelli di vita delle classi popolari, erano disposti a tutto purché in qualche modo, in qualunque modo, la questione venisse risolta una volta per tutte”. Fra questi un precursore dei nostri Bersani e Berlusconi. il deputato Breda, che, non potendo invocare come oggi l’Europa, così si espresse: “L’imposta è detestabile ed io personalmente la detesto. E se mi induco sotto certe condizioni a votarla, lo faccio come il naufrago che, per salvare la vita, si attacca non a una tavola soltanto, ma anche ad un rasoio”..
La tassa, approvata il 6 aprile 1868 con 182 voti favorevoli e 164 contrari (decisivi i 135 deputati assenti), entrò in vigore il 1° gennaio 1869. Nello stesso mese moltissimi mugnai, non potendo accettare un compito di esattori che li esponeva alle reazioni anche fisiche degli esasperati clienti (allora era questione di autentica fame, oggi ancora no, ma non è detto…), chiusero il loro mulino. Immediata la reazione dell’intero mondo rurale, tanto violenta, soprattutto nell’Italia settentrionale e nella pianura padana, che per reprimerla si fecero intervenire l’esercito e il generale Cadorna.
di Francesco Mario Agnoli – 08/01/2012
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